Lula ha vinto di un soffio le elezioni presidenziali brasiliane al secondo turno, ma non controlla le Camere né i Governatori degli Stati federali. Questo gli impone una tattica prudente e attendista. In attesa di mettere all’opera le sue note capacità manovriere
di Stefano Nitoglia
Alla fine, il pifferaio magico il piffero lo ha suonato davvero, vincendo, seppure per un soffio. Al secondo turno delle elezioni presidenziali in Brasile, il candidato di sinistra Luiz Inácio Lula da Silva, più noto come “Lula” (“calamaro” in portoghese), ce l’ha fatta per il rotto della cuffia, ed è stato eletto presidente per la terza volta con il 50,9% e 60.345.999 dei voti contro il 49,1% e 58.206.443 del presidente uscente, il “populista” Jair Bolsonaro, mentre i voti non validi e nulli hanno raggiunto la cifra di 5.700.443. Una vittoria al fotofinish che fotografa la realtà di un Paese spaccato in due, polarizzato, come polarizzata lo è stata la campagna elettorale dei due sfidanti, il che non lascia presagire nulla di buono.
Negli ultimi giorni della campagna elettorale Bolsonaro, il cui serbatoio elettorale è costituito in gran parte dai voti degli evangelici e dei pentecostali, in grande ascesa nell’immenso Paese sudamericano, ha cercato il voto dei cattolici, con scarso esito. Pochi giorni prima del voto, il presidente uscente aveva partecipato a due eventi cattolici molto sentiti in Brasile, il pellegrinaggio fluviale alla Cirio de Nossa Senhora de Nazaré, sul fiume che attraversa la città di Belém, nel Parà, e ad una visita al Santuario di Aparecida, seguendo la recita del Rosario. Entrambe le iniziative sono state però criticate dall’episcopato locale. L’arcivescovo di Belém, dom Alberto Taveira Corrêa, in una nota ha affermato qualche giorno prima del pellegrinaggio di voler impedire «qualsiasi uso di natura politica o partigiana» della manifestazione religiosa, mentre l’arcivescovo metropolita di Aparecida, dom Orlando Brandes, ha detto che avrebbe fatto tutto il possibile per impedire che i fedeli venissero influenzati dalla presenza di Bolsonaro. E un sondaggio preelettorale dell’istituto Datafolha ha rivelato che il 57% degli elettori cattolici avrebbe votato per Lula.
Il leader del PT, Partido dos Trabalhadores (Partito dei Lavoratori), di sinistra con diverse anime (cristiani progressisti, socialisti, marxisti, socialdemocratici e comunisti), è potuto nuovamente tornare in pista dopo l’archiviazione, con dimezzamento dei relativi termini prescrizionali, del processo riguardante il caso dell’appartamento di Guaruja, città a 90 km da San Paolo, che gli costò la prigione per corruzione nell’ambito dell’operazione “Lava Jato”, le “Mani pulite” brasiliane. Bolsonaro, però, non ha saputo cogliere la grande occasione che gli aveva dato la sua elezione alla presidenza federale quattro anni fa, non riuscendo a risolvere la crisi economica in cui l’aveva sprofondato la politica socialcomunista della precedente amministrazione Lula-Roussef. E così il più grande Paese del Sudamerica entra nuovamente a far parte del club dei Paesi sudamericani che hanno svoltato a sinistra. Con la vittoria di Lula sono7 su 11 i Paesi del Sudamerica con un governo di sinistra, più della metà.
Potrebbe trattarsi di una vittoria di Pirro, dato che il partito di Bolsonaro (Partido Liberal) ha stravinto le elezioni alla Camera dei deputati, dove resta primo partito, passando da 76 a 99 seggi. Su 513 seggi, i partiti apertamente di sinistra, come il PT e il PSB (Partido Socialista Brasileiro), ne hanno solo 94, mentre al Senato, su 81 seggi, la sinistra ne ha 12, con il PL di Bolsonaro “primo partito” con 13 seggi. Inoltre, solo 7 dei 26 Stati federali avranno governatori di sinistra, 4 del PT di Lula e 3 del PSB. Gli altri 19 Stati, tra i quali quelli assai importanti di San Paolo, il più popoloso del Brasile, e di Rio de Janeiro, saranno governati da partiti di destra e centro destra.
E Lula, da abile e navigato politico, lo sa bene. Nel suo primo discorso il leader del PT si è detto «mezzo felice e mezzo preoccupato» e ha teso la mano agli avversari, ben consapevole che con un Paese spaccato a metà e con il Parlamento e i Governatori in mano al centro-destra, non gli sarà facile governare e applicare il suo programma socialista. «È necessario riprendere il dialogo con il Legislativo e la Magistratura» – ha detto – «Senza tentativi di esorbitare, intervenire, controllare, cooptare, ma cercando di ricostruire l’armoniosa e repubblicana convivenza tra i tre poteri. (…) È anche più che urgente riprendere il dialogo tra il popolo e il governo. (…) Riprendiamo il dialogo con governatori e sindaci, per definire insieme le opere prioritarie per ogni popolazione. uguaglianza razziale, gioventù, alloggi e molti altri. Non importa a quale partito appartengano il governatore e il sindaco. Il nostro impegno sarà sempre quello di migliorare la vita della popolazione di ogni Stato, di ogni comune di questo paese. Ripristineremo anche il dialogo tra governo, imprenditori, lavoratori e società civile organizzata, con il ritorno del Consiglio per lo sviluppo economico e sociale».
L’unico richiamo al suo programma progressista è stato quello per uno sviluppo ecosostenibile, per «un’Amazzonia vivente» e per le comunità che vi abitano. Nulla di più. Una tattica prudente ed attendista, aspettando il momento propizio per accelerare sul programma rivoluzionario. Infatti, in un Paese dove la corruzione è di casa, Lula, dalle note capacità manovriere, potrebbe far convergere verso la sua maggioranza partiti di centro e anche di centro destra; come ha dimostrato l’episodio di Geraldo Alckmin, implicato in molteplici scandali di corruzione, candidato della destra liberale e conservatrice alle elezioni presidenziali del 2018 contro Lula, che è stato associato proprio dal suo ex-rivale alle ultime presidenziali e ora sarà vicepresidente.
Martedì, 1 novembre 2022
(Photo by Mauro Horita/Getty Images)