La Commissione Europea ha presentato una proposta di regolamento per imporre a tutti gli Stati di riconoscere la genitorialità della coppia dello stesso sesso ammessa da uno dei Paesi membri dell’Unione. Attenzione alla truffa delle “etichette”: ancora una volta i diritti dei bambini vengono sacrificati sull’altare del desiderio degli adulti
di Domenico Airoma
La Commissione Europea ci riprova. Dove non è riuscito (ancora) a spingersi il creazionismo giudiziario, osano i gabinetti dei tecnici dell’organo esecutivo dell’Unione Europea, elaborando una proposta di regolamento che, se approvata, scavalcherebbe i parlamenti nazionali ed imporrebbe una modifica radicale del diritto interno in tema di filiazione.
In primo luogo, si impone una considerazione di metodo. L’Unione Europea ha competenza nella materia della filiazione? Sembra proprio di no. E la questione non è di poco conto, poiché più l’Unione amplia i confini dei propri poteri normativi, più si pre-costituisce strumenti per fare pressione sugli Stati, agitando lo spettro del cosiddetto “Stato di diritto”. Ma la rule of law, il governo, cioè, della legge come contraltare alla volontà arbitraria degli uomini, presuppone che chi promulga una legge sia stato investito specificamente del compito di legiferare in quella materia, il che non è mai avvenuto per l’Unione Europea in materia di filiazione e famiglia. Né la nostra Costituzione nazionale prevede una cessione in bianco di sovranità.
D’altronde, nel Regolamento dell’Unione Europea attualmente vigente, nr. 2019/1111 del 25.6.2019, relativo al riconoscimento e all’esecuzione delle decisioni in materia matrimoniale e di responsabilità genitoriale, viene ribadito esplicitamente, al 12° considerando, che: «Il presente regolamento non dovrebbe applicarsi né alla filiazione, poiché questa è una questione distinta dall’attribuzione della responsabilità genitoriale, né alle altre questioni connesse con lo stato delle persone».
Ed infatti è del tutto evidente che un conto è la questione del riconoscimento delle decisioni assunte dagli organi di uno Stato membro presso altri Paesi dell’Unione, rispetto alla quale è opportuno adottare procedure uniformi, altro è il merito delle decisioni stesse, rispetto alle quali ciascuno Stato conserva il cosiddetto margine di discrezionalità, vale a dire l’autonomia di valutazione, in ultima analisi la propria sovranità, mai ceduta, come nel caso della filiazione.
E’, dunque, contrario allo Stato di diritto, cioè al sistema dei principi che governano l’Unione Europea, pretendere di imporre a tutti gli Stati, scavalcando le procedure giurisdizionali di riconoscimento, le decisioni in materia di filiazione e genitorialità assunte da uno solo dei Paesi membri.
La ragione è ancor più evidente: la delibazione dei giudici serve proprio a stabilire se quella decisione, assunta anche da organi non necessariamente giurisdizionali di altri stati, sia conforme ai principi fondamentali del diritto interno e non sia il risultato di condotte ritenute penalmente rilevanti secondo l’ordinamento dello Stato chiamato al riconoscimento.
Ed ecco la truffa dell’“etichetta”: dietro la richiesta di riconoscimento del rapporto genitoriale ritenuto ammissibile da uno Stato, può esservi, come l’esperienza anche della martoriata Ucraina insegna, una coppia che ha fatto ricorso alla maternità surrogata (come, necessariamente, accade se la coppia è composta da due uomini), affittando l’utero di un’altra donna. Riconoscere il rapporto di filiazione vuol dire piegarsi al fatto compiuto, ratificare il crimine compiuto e, così facendo, aprire la strada a tutti coloro che, invocando l’ingiustificata disparità di trattamento reclameranno, dapprima davanti ai giudici e poi al legislatore, di abolire un divieto oramai non più rispettato.
Ma, si sa, l’argomento forte, usato per aggirare i principi ed i divieti del diritto interno, è un altro: bisogna tutelare il “miglior interesse” del bambino e consentirgli di rimanere con coloro che se lo sono procurato, anche se questo è avvenuto per contratto, scegliendo e pagando la relativa gestante.
Ma è proprio vero? Altra truffa, e vediamo perché.
La Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza –che, anche secondo il Regolamento dell’Unione Europea attualmente vigente, deve costituire il parametro interpretativo del supremo interesse del minore – stabilisce che:
Art. 7, comma 1: «Il fanciullo è registrato immediatamente al momento della sua nascita e da allora ha diritto a un nome, ad acquisire una cittadinanza e a conoscere i suoi genitori e essere allevato da essi».
Art. 9, comma 1: «Gli Stati vigilano affinché il fanciullo non sia separato dai suoi genitori contro la loro volontà, a meno che le autorità competenti non decidano, sotto riserva giudiziaria e conformemente alle leggi di procedura applicabili, che questa separazione è necessaria nell’interesse preminente del fanciullo. Una decisione in questo senso può essere necessaria in taluni casi particolari, ad esempio quando i genitori maltrattino o trascurino il fanciullo, oppure se vivano separati e una decisione debba essere presa riguardo al luogo di residenza del fanciullo».
Come si vede, la situazione presa in esame dalla proposta di Regolamento della Commissione Europea è tutt’altra: non c’è un bambino che bisogna portare via da una famiglia di origine inadempiente o violenta, ma ci sono due adulti che decidono di rendere orfano di madre o di padre un bambino sin dalla nascita. Poco conta se quella madre-gestante o il padre-donatore abbiano acconsentito, resta il fatto che quel patto illecito è stato concluso in pregiudizio del bimbo, che non conoscerà mai la sua madre o il suo padre biologici e non potrà, neppure, avere così accesso alla sua identità genetica.
Qual è, dunque, il preminente interesse del minore in questo caso?
Non vi è dubbio che, anche a monte della Convenzione dell’ONU, non è quello di rimanere con chi lo ha voluto orfano dalla nascita, ma che venga affidato ad un’altra mamma ed ad un altro papà, valutati idonei da una procedura giurisdizionale che gli darà un ambiente familiare fatto di persone che rispettano le leggi e la dignità delle persone, nonché la necessaria assistenza e sicurezza economica (per non parlare della successione in caso di morte).
Ancora una volta, l’argomento capzioso e subdolo di una certa propaganda, quello secondo cui «se si è genitori in un Paese europeo, lo si è in ogni Stato dell’Unione», andrebbe rovesciato nella sua versione baby friendly, vale a dire: «Se si viola la dignità delle donne e i diritti dei bambini, non si può essere genitori in nessuno Stato dell’Unione».
L’auspicio è che prevalga il diritto e non la volontà arbitraria degli uomini (di qualunque sesso essi siano).
Domenica, 11 dicembre 2022