Antonio Casciano, Cristianità n. 415 (2022)
In un testo del 1991, intitolato Dissonanze. Le donne e la filosofia contemporanea. Verso una lettura filosofica delle idee femministe, la filosofa italo-australiana Rosi Braidotti, commentando l’esplosione del femminismo neo-identitario, seguito alla diffusione su larga scala dei metodi contraccettivi, icasticamente notava: «Una volta raggiunta la dissociazione tra sessualità e procreazione, l’anatomia non è più un destino» (1). L’avvento della contraccezione sostanzialmente libera, poi, ha fatto sì che gli studi sulle donne e sul genere entrassero in una nuova fase, in cui l’attenzionedellateoria femminista si è concentrata sul corpo, sulla sessualità e sul genere, appunto. Da allora, partendo dall’idea che la biologia «non è più un destino», l’identità tra sesso e generehacominciato a essere decostruita,inparticolare attraverso la riflessione sviluppata da un gruppo di filosofe femministe statunitensi, fra le quali si è distinta la filosofa statunitense Judith Butler: «La presunzione di un sistema binario di genere implica la convinzione di un rapporto mimetico tra genere e sesso, un rapporto in cui il genere riflette il sesso o è da esso limitato» (2). La Butler intende congedarsi definitivamente da questo assunto e da ogni sua implicazione concettuale, dimostrando teoricamente non solo l’inesistenza di un nesso ontologico fra sesso e genere, ma altresì la natura puramente culturale delle costruzioni dottrinali che su di esso si appoggiano.
Il ruolo svolto dal performativo nella costruzione delle identità
L’analisi della Butler inizia esattamente con la de-costruzione dei pregiudizi culturali che sono alla base dei concetti di sesso e di genere. Invero, a detta della filosofa americana esisterebbe una pluralità di desideri/pulsioni che la società ritiene necessario incanalare verso un dato genere, normalmente corrispondente a quello del sesso anatomico. A fronte di tale narrazione, la Butler pensa che stabilire una normalità puramente eteronoma della sessualità umana, quantunque ancorata al dato biologico, non valga a contenere, arginare, orientare il potere creativo del desiderio. Nel libro Corpi che contano. I limiti discorsivi del «Sesso» (3), del 1993, la Butler, approfondisce alcuni concetti che aveva lasciato da parte in Gender Trouble: Feminism and the Subversion of Identity, risalente a qualche anno prima, e parla della «normalità di genere» e dei costrutti che hanno contribuito a strutturarne l’idea, in particolare quello della «performatività»deldiscorso sociale di fronte alla posizione sessuale.
Il concetto butleriano di «performatività» è difatti molto vicino al concetto di performance teatrale (4): gli atti ripetuti rappresentano la fonte stessa della produzione discorsiva di genere e in questa ripetizione quasi scenica è possibile cogliere il significato stesso di performatività (5). L’atto ripetuto, il discorso e il linguaggio costituiscono, creano e plasmano realtà e soggettività: «Le regole che governano l’identità intelligibile, cioè che permettono e limitano l’’affermazione dell’io — regole strutturate su alcune matrici di gerarchia di genere e di eterosessualità obbligatoria — operano attraverso la ripetizione» (6). La soggettivazione richiede la modalità dell’agency,un concetto che, definito dalla filosofia post-strutturalista, per la Butler è identificata con la totalità degli atti non direttamente attribuibili a un attore particolare, quanto piuttosto a scelte impersonali, diffuse, imposte culturalmente (7). Si tratta del modo di agire della società che tutti noi abbiamo imparato, introiettato per mezzo dell’osservanza delle regole e dell’assimilazione dei modelli culturali propinatici fin dall’infanzia.
La Butler fa propria la teoria radicale della femminista francese Monique Wittig (1935-2003), la quale suggeriva che le donne fin dalla nascita sarebbero sottoposte a un regime coattivo di eterosessualizzazione, consistente nel programmarle in vista della riproduzione e, dunque, della conservazione della specie, oltre che del lavoro gratuito di cura, di assistenza e di prossimità (8). La Butler, come la Wittig, osserva che la presenza delle lesbiche nella società — i cui desideri non sono funzionali ai desideri dell’uomo, né alla riproduzione forzata della specie — è la prova di come l’essere uomo o donna sia il frutto di una condizione puramente storica e culturale, non di un destino biologicamente forzato. Il discorso dominante propone come legittime identificazioni l’uomo e la donna eterosessuali, gli unici esseri che possono assumere la dignità di persone: ciò configurerebbe la cosiddetta «categorical violence of naming» (9), ovvero la violenza costitutiva dell’atto nominalistico. Infatti, con gli atti illocutivi — che, cioè attuano l’azione enunciata — del discorso ordinario della qualificazione, dell’esclusione e della repressione, diviene possibile secondo la Butler relegare alla sfera della pura trasgressione tutto quanto è socialmente temuto e, dunque,«inabitabile».
Il ruolo teorico fondamentale riconosciuto nei meccanismi di soggettività di genere, tanto alla ripetizione e alla sedimentazione delle pratiche discorsive, quanto alla pratica della ri-significazione liberante,basata sul processo di dis-identificazione de-costruttiva, assurge a leitmotiv dellafilosofia del linguaggio della Butler (10). In particolare, la categoria del performativo è invocata per rendere conto della forza illocutiva e dell’effetto strutturante che il linguaggio spiega sui soggetti della comunità linguistica. Questo effetto strutturante copre tutti gli atti linguistici e descrive la natura più profonda e vera della lingua come pratica storica e fatto sociale. Butler parla di «perfomatività»persostenere che i discorsi binari sul genere, come performativi, concepiscono e generano, in individui reali, l’obbedienza a norme subordinanti e soggettivanti.
Butler e la critica del femminismo delle differenze
De-costruire il concetto di genere, come ha fatto la Butler, significa eliminare le basi su cui si è basata la meta-narrazione femminista sviluppatasi a partire dagli anni 1970. Butler si confronta, in modo radicalmente critico, con le filosofie femministe della differenza. Vi sono alcune questioni fondamentali che l’autrice solleva. In primo luogo, le filosofie della differenza si basano sul dualismo soggetto/oggetto. Il soggetto maschile, positivo, definito dalla filosofia e dalla psicoanalisi occidentale, descrive negativamente l’oggetto femminile come tutto ciò che non è sussumibile nella categoria meta-concettuale del maschile. Ma questo, nella visione butleriana, non può darsi.
Ecco allora che il soggetto non rappresenta più il fondamento del discorso, il punto di riferimento unico, ma è qualcosa di fluido, instabile, il punto di intersezione fra cambiamenti relazionali, che si colora in modo diverso dopo ogni incontro con un’alterità. Questo stesso processo di incontro con l’alterità, un incontro che frustra le nostre certezze, riflette un essere personale nell’atto di riflettersi, un essere che diventa così qualcosa che non è mai stato prima. Quello che il filosofo tedesco Georg Wilhelm Friedrich Hegel (1770-1831) chiama «l’uscita da sé», per Butler diventa semplicemente il caso di «un sì personale che si perde nell’altro» (11), un altro che [attraverso il suo riconoscimento] garantisce l’esistenza del primo. Anche la nostra identità non esisterebbe senza il riconoscimento dell’altro. In questo contesto, non possiamo dimenticare che l’altro è il risultato di innumerevoli, precedenti processi di intersezione relazionale. A fronte di ciò, le teorie della differenza, in particolare quella proposta dalla psicanalista belga Luce Irigaray, pur rinunciando a considerare come un fatto la differenza sessuale, permangono nell’idea di considerarla alla stregua di una questione irrisolta, in cui l’unica certezza rimane il dualismodi maschile e femminile (12).
La distinzione puramente binaria fra i generi, poi, non lascerebbe spazio alcuno per un progetto di decostruzione dei meccanismi di assegnazione delle identità. Butler nota l’esistenza di un legame puntuale fra la gerarchia dei sessi e il binarismo di genere: attraverso la gerarchia sessuale, il genere viene prodotto, cioè la disuguaglianza sessuale finisce per «creare» il genere. In particolare, la Butler si chiede se l’obiettivo, il compito epocale delle filosofie della differenza, non sia stato alla fine quello di riassumere, di riabilitare la «posizione del padre», utilizzando le strategie di controllo e di dominio che sarebbero proprie di tale figura. Infatti, non solo nelle filosofie della differenza, ma in tutto l’iter filosofico e teorico del femminismo, i dati di razza, etnia e classe femminile sarebbero stati esclusi dal novero dei fattori di creazione forzata delle identità. Se è vero che le donne bianche, eterosessuali, occidentali della classe media soffrono l’oppressione, non possiamo dimenticare che la globalizzazione ha portato con sé nuove marginalità ed entità soggettivate che non possono più essere ignorate (13). All’uopo, si chiede la Butler, le filosofie della differenza continuano a essere valide anche se pensate in relazione alle donne migranti o omosessuali? Ebbene, la Butler sostiene che le filosofie della differenza non avrebbero mai offerto risposte a queste domande, avendo continuato a guardare esclusivamente ed elitariamente alle donne bianche, eterosessuali e borghesi, appunto (14).
La teoria del queer, da questo punto di vista, offre una critica al «femminismo femminile pensato per le donne»: il femminile in sé non ha infatti alcun valore, poiché non può esistere un punto di riferimento di genere che non sia diversamente discriminante. In questo senso, questa teoria si concentra su due punti: se da un lato afferma che il sistema dell’eterosessualità non è l’unica via praticabile, con la conseguenza che la sessualità è stata superata dal genere e che l’appartenenza a un certo genere non implica affatto avere un certo orientamento sessuale, dall’altro conferma che non esiste una gerarchia sessuale, poiché il genere è qualcosa di naturalmente instabile, fluttuante, come dimostrerebbe l’esistenza dei transessuali.
La «parodia» del genere,esattamente come «le rappresentazioni teatrali» di drag queen e drag king, è una pratica non solo socialmente e culturalmente sana, secondo Butler, ma addirittura auspicabile, poiché attua un sovvertimento radicale nel panorama della normalità culturale rappresentata dai generi binari. La parodia può essere infatti ultimamente utile per il riconoscimento dei cosiddetti «generi impossibili», attraverso proprio una ricostruzione grottesca dei ruoli e dell’immaginario legato al binarismo di genere (15).
Sviluppando alcuni punti critici
Tre sembrano essere i punti più critici che emergono dal discorso sulla costruzione performativa delle identità nella Butler, punti che saranno esposti singolarmente, al fine di denunciare l’approccio eminentemente culturale, la costruzione puramente filosofica della sua teoria, in assenza dell’ancoraggio ontologico a un’antropologia autenticamente realista e quindi pienamente umana.
Secondo la Butler, in natura non vi sarebbe una mascolinità/femminilità biologicamente definita, né ve ne sarebbe una traccia sotto il profilo cromosomico, genitale o psicologico, come dimostrerebbe l’esistenza di ermafroditi. Il genere, in ultima analisi, definirebbe il sesso di una persona e non il contrario: l’identità di genere è il frutto di una scelta sessuale personalissima fatta alla luce di una pluralità di significati che possono essere discrezionalmente attribuiti a un corpo sessuato. Si tratterebbe di ripensare le costruzioni ontologiche delle identità per eliminare ogni forma di oppressione/discriminazione/marginalizzazione. Tuttavia, a fronte di questa posizione teorica, sembra necessario offrire alcuni chiarimenti semantici preliminari. Ebbene, mentre l’identicodescrive l’identità ontologicadella natura umana considerata in sé, ovvero il dato costante, uguale e immutabile, comune a tutti coloro che nascono da un essere umano e, dunque, il fondamento ultimo della pari dignità di uomini e donne, che sono, appunto, persone identiche, ladifferenza sessualedescrive invece una diversità che si innesta nella detta datità ontologica. Non vi sarà mai un essere sessuato che incarni l’umanità totale, il maschio e la femmina allo stesso tempo. Infatti, il corpo umano, dal concepimento in poi, presenta cromosomicamente, ormonalmente, genitalmente, cerebralmente, fenotipicamente, i trattamenti della differenza sessuale, che è il limite che ci spinge verso l’altro per completarci, nella dinamica antropologica e biblica dell’«uno costoso» (16). Il limite ci parla infatti di un’assenza, di una mancanza, di un vuoto che chiede incessantemente e ineludibilmente di essere colmato attraverso l’unione dei sessi. Dal suo corpo sessuato e sessuale, nel panorama delle relazioni interpersonali, l’uomo elabora e sviluppa il suo genere, la sua identità sessuale e, quindi, personale (17). Così, il sesso è ciò che differenzia, mentre la sessualità è ciò che ristabilisce l’unità nel dono coniugale di sé che apre al mistero di un terzo. Solo la sessualità tra un uomo e una donna è pienamente unitaria, perfettamente complementare ed ugualmente reciproca (18).
Secondo la Butler, l’orientamento sessuale dovrebbe determinare il genere e la standardizzazione del genere dovrebbe produrre identità personali, per mezzo cioè di un meccanismo di vera e propria ipostatizzazione del desiderio sessuale individuale. Le identità così prodotte, secondo la Butler, sarebbero cinque: eterosessuale, omosessuale, bisessuale, transessuale, intersessuale. La norma politica, in questo senso, dovrebbe assicurare il riconoscimento sociale di ogni identità di genere, distruggendo definitivamente la pretesa di esclusività binaria che la cultura eterosessista dominante porta con sé.
Di fronte a questi presupposti, sembrano possibili due considerazioni fondamentali: 1) con la scomparsa del dato corporale residuerebbe una struttura puramente ed esclusivamente linguistica, discorsiva, filosofica, concettuale. In assenza di natura biologica, quindi, ciò che predomina è una cultura che, senza un ancoraggio ontologico, può sempre trasformarsi in uno strumento di oppressione, di dominio, di soggettivazioni eteroindotte, rischio concreto e proprio delle «filosofie costruttiviste del tutto culturale» (19); 2) alla luce di queste considerazioni, la teoria del genere appare come un puntuale aggiornamento dell’ideologia marxista. Secondo Friedrich Engels (1820-1895) la prima forma di antagonismo di classe è quella fra l’uomo e la donna uniti in un matrimonio monogamo; la prima forma di oppressione è quella che gli uomini esercitano sulle donne nell’ambito della famiglia naturale (20). Allo stesso modo, la femminista canadese Shulamith Firestone (1945-2012) attribuiva il fallimento del comunismo al fatto che questa ideologia si fosse concentrata, nella sua analisi e nella sua azione politica, sui problemi economici, piuttosto che sulla famiglia e sulle forme di oppressione che in essa si attuano (21). L’ideologia di genere, al contrario, si oppone alla cultura eterosessista dominante auspicando la riabilitazione delle identità di genere discriminate. Tuttavia, se è vero che Karl Marx (1818-1883) aveva proposto una decostruzione della società borghese e del suo modello economico basato su un capitalismo oppressivo e ingiusto, non aveva mai parlato della necessità di giungere alla decostruzione dell’umano tout court; 3) la pretesa del «sé totale», universale, sessualmente polimorfo, senza sesso predeterminato e senza sesso biologico, viene a configurare un essere disincarnato, che non può realmente esistere e rimane una pura idea platonica. Il presupposto della cultura cristiana vede la sua precipua ed epocale conquista nell’idea della totalità nel dono di sé all’altro, nell’essere tutto per l’altro, e non nella prometeica e delirante fame di assolutizzazione che deve realizzarsi attraverso l’assunzione fluttuante di identità di genere sempre diverse o diversificabili, epifenomeno di un individualismo triste, autoreferenziale, proprio di una società iper-narcisistica (22).
Ebbene, in quest’ultimo modello di vita sociale, la figura paterna è deliberatamente e integralmente obliterata. Sappiamo, invece, che la separazione identitariamente necessaria fra la madre e il bambino può essere garantita solo dalla presenza separatrice del padre, una figura terza con un corpo sessualmente diverso da quello della madre. La vocazione del padre consiste proprio nel favorire la differenziazione psichica, prolungando così la sua azione di determinazione cromosomica del sesso biologico. Il senso della differenza può trasmettersi e assimilarsi validamente solo in un contesto di differenza sessuale. Il «no»del padre impone al figlio l’allontanamento dall’onnipotenza dell’indifferenziato della madre e lo pone nei limiti della sessualità differenziata, inducendolo ad accettare la propria conformazione sessuale come qualcosa di naturale e caratteristico (23).
Si tratta di un passo obbligato sulla strada verso la realtà della propria maturazione personale e umana e, quindi, verso la crescita dell’individuo. Da qui la scarsa simpatia della cultura gender nei confronti della figura maschile in generale, e del padre in particolare, oltre che del suo ruolo infungibile nei meccanismi di definizione degli orientamenti sessuali. In effetti, la connessione fra identificazione e identità è molto forte. Ogni bambino, se di sesso maschile, deve essere confermato nella sua identità attraverso l’identificazione con il padre, se di sesso femminile, invece, per mezzo della contestuale presenza critica della medesima figura (24). In assenza di questi meccanismi edipici, mimetici e insieme identitari, infatti, c’è il rischio di una mancanza di autostima e di una parcellizzazione degli oggetti del desiderio sessuale. La mancanza di autostima, poi, può bloccare il tentativo di avvicinare soggetti di sesso opposto, avviando un meccanismo che indurrà il soggetto a cercare quanto il genitore del proprio sesso non ha saputo offrirgli in individui del suo stesso sesso, nella disperata ricerca di una somiglianza e di un surrogato. Da questo punto in poi, la ricerca dell’oggetto omo-sessuale diventa desiderio omoerotico (25).
Una società che cerca di evitare il «complesso di Edipo» finisce nella circolarità autoreferenziale di Narciso e, quindi, nell’ossessione del solipsismo mortale dell’androginia (26). La Butler, al contrario, insisterà proprio sulla necessità di rimanere nel primitivo indifferenziato del femminile, poiché questo può favorire la formazione di personalità strutturalmente aperte a tutti i generi possibili, evitando la dualità eterosessuale a cui ci conduce il dinamismo edipico, epifenomeno della «Legge del Padre» (27). Infatti, sottraendo il bambino all’indeterminato femminile della madre primitiva, la risoluzione edipica appare agli occhi della Butler come qualcosa di repressivo, opprimente, poiché inculca il linguaggio castrante e simbolico del binarismo maschile/femminile. La «Legge del Padre» è, in effetti, il simbolo di ogni significato linguistico performativo, il principio di organizzazione della società secondo gli standard della cultura eterosessista. Al contrario, è stato dimostrato che l’identità sessuale interiorizzata, armonizzata con l’identità personale, favorisce l’apertura all’altro sesso attraverso l’attrazione eterosessuale.
La caratteristica dell’orientamento eterosessuale è quella di tendere verso l’altro, considerandolo come un soggetto personale a cui donare sé stessi e non come un oggetto parziale che è possibile possedere. Questo è il motivo per cui gli orientamenti non eterosessuali coesistono in un modo che non è in armonia con l’identità personale, generando sofferenza, depressione e insicurezza (28). Pertanto, la concezione butleriana di un’identità di genere separata del tutto dal corpo sessuale appare come una pura e libera creazione culturale. In questo senso, allora, il riduzionismo antropologico tipico dell’ideologia marxista, il suo approccio unidimensionale all’umano, assume nella Butler i tratti di un modello certamente nuovo e inedito — quello cioè del pansessualismo identitario del genere — ma non per questo meno alienante ed essenzialmente inumano.
Antonio Casciano
Note:
1) Rosi Braidotti, Dissonanze. Le donne e la filosofia contemporanea. Verso una lettura filosofica delle idee femministe, La Tartaruga, Milano 1994, p. 37.
2) Judith Butler, Scambi di genere. Identità, sesso e desiderio, trad. it., Sansoni, Firenze 2004, p. 10.
3) Cfr. Eadem, Corpi che contano. I limiti discorsivi del «Sesso», Feltrinelli, Milano 1996.
4) Cfr. Eadem, Performative Acts and Gender Constitution. An Essay in Phenomenology and Feminist Theory, in Theatre Journal, anno 40, n. 4, Baltimora (Maryland) 1988, pp. 519-531.
5) «Inoltre, la mia teoria oscilla tra una concezione linguistica della performatività e la sua proiezione nella dimensione teatrale. Sono giunta alla conclusione che i due aspetti sono immancabilmente connessi […], e che una riconsiderazione dell’atto del discorso come istanza di potere richiama inevitabilmente l’attenzione sia sulla dimensione teatrale che su quella linguistica» (Eadem, Questione di genere. Il femminismo e la sovversione dell’identità, trad. it., Laterza, Roma-Bari 2013, p. XXVI).
6) Eadem, Scambi di genere. Identità, sesso e desiderio,cit., p. 209.
7) Eadem, Corpi che contano. Sul limite discorsivo del sesso,cit., p. 7.
8) Cfr. Monique Wittig, The Straight Mind and Other Essays, Beacon Press, Washington (D. C.) 1991.
9) Cfr. Sara Salih (a cura di), The Judith Butler Reader, Blackwell, Oxford (Regno Unito) 2004.
10) Cfr. J. Butler, Fare e disfare il genere, trad. it., Mimesis, Milano 2014.
11) Eadem, La disfatta del genere, trad. it., Meltemi, Sesto San Giovanni (Milano) 2006, p. 180.
12) Cfr. Luce Irigaray, Speculum. Dell’Altro in quanto donna, trad. it., Feltrinelli, Milano 2010.
13) «Il rapporto tra femminismo e trasformazione sociale è sempre stato su un terreno molto difficile» (J. Butler, La disfatta del genere, cit., p. 237).
14) «Questo è il compito di una teoria e pratica democratica radicale che cerca di ampliare le norme che sostengono una possibile esistenza per le comunità che in passato hanno vissuto senza libertà» (ibid., p. 257).
15) Cfr. Eadem, Corpi che contano. Sul limite discorsivo del sesso,cit.
16) Card. Marc Ouellet, Mistero e sacramento dell’amore. Teologia del matrimonio e della famiglia per la nuova evangelizzazione, Cantagalli, Siena 2007, p. 155.
17) Xavier Lacroix, Di carne e di parola. Dare un fondamento alla famiglia, Vita e Pensiero, Milano 2008, p. 122.
18) Idem, Passatori di vita. Saggio sulla paternità,EDB. Edizioni Dehoniane Bologna, Bologna 2005, p. 99.
19) Idem, Le corps retrouvé. Donner la vie, c’est la recevoir, Bayard, Parigi 2015, p. 84.
20) Cfr. Friedrich Engels, L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato. In rapporto alle indagini di Lewis H. Morgan, a cura di Fausto Codino, Editori Riuniti, Roma 2005, pp. 57-110.
21) Shulamith Firestone, The Dialectic of Sex. The Case for Feminist Revolution, Bentam Book, New York 1970, p. 12.
22) Cfr. Elio Sgreccia (1928-2019), Per una pastorale della vita umana: proposte applicative. Dal concepimento alla maturità, Cantagalli, Siena 2014.
23) Tony Anatrella, La différence interdite, Flammarion, Parigi 1998, p. 39.
24) Cfr. X. Lacroix, Passatori di vita. Saggio sulla paternità, cit.
25) Cfr. T. Anatrella, Le Sexe oublié, Flammarion, Parigi 1993, p. 36.
26) Etienne Roze, Verità e splendore della differenza sessuale,trad. it., Cantagalli, Siena 2014, p. 280.
27) Cfr. T. Anatrella, La teoria del gender e l’origine dell’omosessualità. Una sfida culturale, trad. it., Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 2015.
28) Cfr. X. Lacroix, In principio la differenza. Omosessualità, matrimonio e adozione, trad. it., Vita e Pensiero, Milano 2006, p. 80.