Nostalgia, film recente in programmazione su Prime, fotografa la Napoli profonda della Sanità in cui prevale la cultura violenta della camorra. Una cultura che un uomo, rientrato nel rione spinto dalla nostalgia della mamma ormai vecchia, decide di combattere grazie a un sacerdote coraggioso e pieno di fede
di Aurelio Carloni
La Sanità, i Vergini, i Cristallini, le catacombe e il cimitero delle Fontanelle rappresentano il grande e affollato proscenio di Nostalgia, film recente di Mario Martone che vede protagonista Pierfrancesco Favino. È attraverso quell’area del centro popoloso di Napoli che si dipana la storia di Felice, partito adolescente per il Vicino Oriente, per motivi che saranno svelati solo verso la fine del film, e tornato dopo quarant’anni al rione Sanità in cui era nato, mosso dalla nostalgia per quegli spazi e quei vicoli gremiti di gente e di rumori e per la mamma, sola, quasi cieca e oramai indigente. Sarà un incontro commovente, intenso e pacato nello stesso tempo.
Il figlio scomparso, senza dire nulla alla mamma, ricompare e riprende il rapporto con lei che non gli rimprovera nulla e lo fissa e lo abbraccia. Bellissimo il momento in cui lui nel minuscolo basso senza finestre in cui è finita, la spoglia e la lava nella grande tinozza per restituirle una dignità offesa dalla sua assenza. Il film va avanti e vale la pena di vederlo.
Non è però tanto il dipanarsi della trama, per quanto ben costruita, che qui interessa, ma la descrizione di una realtà sociale degradata e pervasa dalla capacità da parte della camorra di imporre uno stile di vita solo apparentemente appagante. Una mentalità fatta di lusso e violenza bestiale che diviene cultura prevalente e criterio distorto di valutazione del bene e del male, del fallimento e del successo esistenziale.
I giovani sono intrappolati in questa rete dove la paura, la droga, la morte, la ricchezza – che fluisce e scompare – si intrecciano. Non tutti i giovani, però.
A Santa Maria della Sanità, punto di riferimento del rione, conosciuta anche come “chiesa di san Vincenzo ‘O Munacone” perché ospita una statua di san Vincenzo Ferrer, c’è un sacerdote, don Luigi, che crede che la fede possa essere via di salvezza in questa vita e in quella eterna. Per questo richiama i ragazzi del posto insegnando loro l’amore e il valore della vita propria e del prossimo, con l’esempio e la preghiera. E per sottrarli all’attrazione venefica della camorra li tiene impegnati facendo fare loro pugilato, che insegna la fatica e la disciplina, e musica fino a costituire una orchestra di giovani talenti.
Felice lo incontra e, nonostante l’emigrato in Egitto si sia convertito all’Islam, riconosce in don Luigi la possibilità di una redenzione dagli errori antichi e mai davvero dimenticati della giovinezza.
Intanto la storia fa emergere l’amico di un tempo, conosciuto ora come “‘O Malommo”, capo del clan in quel momento dominante alla Sanità. Proprio questa figura ricorda quanto descrivono penalisti e magistrati che con la camorra hanno a che fare. Contrariamente a quanto serie famose e acclamate lasciano intendere, la vita del camorrista è, come ebbe a dire a chi scrive un avvocato napoletano, sovrastata dalla paura continua, giorno e notte: «‘na paura che è comm’ ‘na scimmia che te sta ‘ncoppa ‘e spalle e nun te lassa mai». Paura dell’agguato dei clan rivali, ma anche, e forse soprattutto, del giovane in ascesa del clan di appartenenza, che vuole prendere il posto del capo attraverso la sua uccisione.
‘O Malommo vive rintanato come una fiera ferita, cambiando continuamente abitazione, priva spesso di ogni comodità, e uscendo col buio coperto da un cappuccio che lo rende irriconoscibile. È solo, violento e triste. L’epilogo dimostrerà che il perdente è lui e i vincenti sono Felice, don Luigi e i giovani che scelgono di non farsi intrappolare dalla scelta mortale della violenza per vivere una vita piena di senso, accompagnati da un sacerdote che combatte per la loro salvezza spinto dall’amore del Dio misericordioso per il quale ha indossato la tonaca.
Mercoledì, 11 gennaio 2023