Ignazio Cantoni, Cristianità n. 416 (2022)
Dispensa predisposta per la relazione, avente medesimo titolo, tenuta il 4 agosto 2022 alla Scuola estiva San Colombano organizzata da Alleanza Cattolica dal 1° al 6 agosto a Fornovo di Taro, in provincia di Parma, sul tema San Giovanni Paolo II. Il suo Magistero e la Nuova Evangelizzazione.
1. Un mondo in frantumi
Lo sguardo di un osservatore anche disattento sul mondo occidentale contemporaneo percepisce l’esistenza di una conflittualità a vari livelli.
Papa san Giovanni Paolo II (1978-2005), nell’esortazione apostolica post-sinodale Reconciliatio et paenitentia (1), ha constatato: «Come gli altri sguardi, anche quello del pastore scorge, purtroppo, fra diverse caratteristiche del mondo e dell’umanità del nostro tempo, l’esistenza di numerose, profonde e dolorose divisioni.
«Queste divisioni si manifestano nei rapporti fra le persone e fra i gruppi, ma anche a livello delle più vaste collettività: nazioni contro nazioni, e blocchi di paesi contrapposti, in un’affannosa ricerca di egemonia. Alla radice delle rotture non è difficile individuare conflitti che, anziché risolversi mediante il dialogo, si acuiscono nel confronto e nel contrasto» (nn. 1-2).
La ricognizione delle cause, necessariamente non esaustiva, fa emergere anch’essa vari fattori: «Indagando sugli elementi generatori di divisione, attenti osservatori ne riscontrano i più svariati: dalla crescente sperequazione tra gruppi, classi sociali e paesi agli antagonismi ideologici tutt’altro che spenti; dalla contrapposizione degli interessi economici alle polarizzazioni politiche; dalle divergenze tribali alle discriminazioni per motivi socio-religiosi» (n. 2).
La dinamica «ingiustizia-conflitto» purtroppo si autoalimenta, perché il conflitto non fa che acuire le ingiustizie: «Del resto, alcune realtà che sono sotto gli occhi di tutti costituiscono come il volto pietoso della divisione, di cui sono frutto, e ne fanno rilevare la gravità con inconfutabile concretezza. Si possono ricordare, fra tanti altri dolorosi fenomeni sociali del nostro tempo: 1) il calpestamento dei diritti fondamentali della persona umana, primo fra essi il diritto alla vita e a una degna qualità di vita; 2) il che è tanto più scandaloso, in quanto coesiste con una retorica non mai prima conosciuta circa gli stessi diritti; 3) le insidie e pressioni contro la libertà dei singoli e delle collettività, non esclusa, anzi più offesa e minacciata, la libertà di avere, di professare e di praticare la propria fede; 4) le varie forme di discriminazione: razziale, culturale, religiosa ecc.; 5) la violenza e il terrorismo; 6) l’uso della tortura e le forme ingiuste e illegittime di repressione; 7) l’accumulo delle armi convenzionali o atomiche, la corsa agli armamenti, con spese belliche che potrebbero servire a sollevare l’immeritata miseria di popoli socialmente ed economicamente depressi; 8) l’iniqua distribuzione delle risorse del mondo e dei beni della civiltà, che tocca il suo vertice in un tipo di organizzazione sociale, per cui la distanza fra le condizioni umane dei ricchi e dei poveri si accresce sempre di più. La potenza travolgente di questa divisione fa del mondo, in cui viviamo, un mondo frantumato fin nelle sue fondamenta» (n. 2).
Utilizzando una fecondissima categorizzazione quadripartita delle varie dimensioni dell’umano, si può concludere che vi è «divisione fra l’uomo e il Creatore, divisione nel cuore e nell’essere dell’uomo, divisione fra gli uomini singoli e fra i gruppi umani, divisione fra l’uomo e la natura creata da Dio» (n. 23).
2. La divisione è frutto del peccato
Se si va in profondità, si scopre tuttavia che tali divisioni hanno una radice comune. Già lo sguardo della ragione permette di vedere come l’ingiustizia che ci circonda nasca dalla presenza nell’uomo di pulsioni contrapposte alla ragione: «L’uomo è il nodo di un enigma che non ha mai smesso di occupare gli osservatori. Le contraddizioni che racchiude sconvolgono la ragione e la condannano al silenzio. Cos’è, dunque, questo essere mostruoso, che porta in sé forze che si annientano fra loro e che è costretto ad odiarsi per potersi apprezzare?
«Tutti gli esseri che ci circondano non hanno che una legge e la seguono in pace. Solo l’uomo ne ha due, ed entrambe lo attirano simultaneamente in senso contrario, egli prova un’angoscia indescrivibile. Ha un fine morale verso il quale sente l’obbligo di procedere, percepisce i suoi doveri e ha coscienza delle proprie virtù. Ma una forza nemica lo attrae, egli la segue vergognandosene.
«Su questa corruzione della natura umana tutti gli osservatori concordano, e Ovidio [Publio Nasone (43 a.C.-17 d.C.)] parla come san Paolo:
«Riconosco il bene, lo voglio, ed è il male che mi seduce.
«Mio Dio! Che guerra crudele!
«Sento come due uomini in me.
«Anche Senofonte [430 ca.-355 ca. a.C.] esclamava per bocca di un personaggio della Ciropedia: Ah! Mi conosco ora, e sono i miei sensi a testimoniare che posseggo due diverse anime, una che mi conduce al bene, e l’altra che mi trascina al male.
«Epitteto [50 ca.-138] ammoniva l’uomo che si propone di avanzare verso la perfezione di diffidare di se stesso come di un nemico e di un traditore» (2).
Se si chiede aiuto alla fede, la ragione trova conferma e maggiori lumi: «Per quanto tali lacerazioni già ad un primo sguardo appaiano impressionanti, soltanto osservando in profondità si riesce a individuare la loro radice: questa si trova in una ferita nell’intimo dell’uomo. Alla luce della fede noi la chiamiamo il peccato: cominciando dal peccato originale, che ciascuno porta dalla nascita come un’eredità ricevuta dai progenitori, fino al peccato che ciascuno commette, abusando della propria libertà» (n. 2).
Che cos’è il peccato? La creatura razionale ha ricevuto da Dio la propria essenza — o natura umana — che deve essere portata a perfezione «dal seme alla pianta» soprattutto attraverso la guida dei Dieci Comandamenti. Ma, mentre il resto del creato, sottomesso totalmente alle leggi fisiche e biologiche, vi giunge necessariamente, l’uomo deve assumere tale cammino di perfezione con consapevolezza e libertà. Il peccato è la decisione di non comportarsi in sintonia con il disegno di Dio.
La fede ricava luce sul peccato in modo particolare dai due episodi della Caduta e della Torre di Babele: «Dalla narrazione biblica relativa alla costruzione della torre di Babele emerge un primo elemento, che ci aiuta a capire il peccato: gli uomini hanno preteso di edificare una città, riunirsi in una compagine sociale, esser forti e potenti senza Dio, se non proprio contro Dio. In questo senso, il racconto del primo peccato nell’Eden e il racconto di Babele, malgrado notevoli differenze di contenuto e di forma tra loro, hanno un punto di convergenza: in ambedue ci si trova di fronte a un’esclusione di Dio per l’opposizione frontale a un suo comandamento, per un gesto di rivalità nei suoi confronti, per l’ingannevole pretesa di essere “come lui” (Gn 3,5). Nel racconto di Babele l’esclusione di Dio non appare tanto in chiave di contrasto con lui, ma come dimenticanza e indifferenza di fronte a lui, quasi che Dio non meriti alcun interesse nell’ambito del disegno operativo e associativo dell’uomo. Ma in ambedue i casi viene troncato con violenza il rapporto con Dio. Nel caso dell’Eden appare in tutta la sua gravità e drammaticità ciò che costituisce l’essenza più intima e più oscura del peccato: la disobbedienza a Dio, alla sua legge, alla norma morale che egli ha dato all’uomo, scrivendogliela nel cuore e confermandola e perfezionandola con la rivelazione» (n. 14).
Si può dire, in sintesi: «Esclusione di Dio, rottura con Dio, disobbedienza a Dio: lungo tutta la storia umana questo è stato ed è, sotto forme diverse, il peccato, che può giungere fino alla negazione di Dio e della sua esistenza» (ibidem).
E, pur senza misconoscere in alcun modo che il protagonista del peccato è l’uomo, non si può non ricavare, soprattutto dal racconto della Caduta, la presenza di forze angeliche malvagie che, insieme a quelle angeliche buone, all’uomo e a Dio, costituiscono il cast del dramma della creazione: «[…] mistero del peccato. Questa espressione, nella quale echeggia ciò che san Paolo scrive circa il mistero dell’iniquità, tende a farci percepire quel che di oscuro e di inafferrabile si cela nel peccato. Questo, senza dubbio, è opera della libertà dell’uomo; ma dentro il suo stesso spessore umano agiscono fattori, per i quali esso si situa al di là dell’umano, nella zona di confine dove la coscienza, la volontà e la sensibilità dell’uomo sono in contatto con le forze oscure che, secondo san Paolo, agiscono nel mondo fin quasi a signoreggiarlo» (ibidem).
3. Il «peccato sociale»
Trattandosi di un «atto della persona, il peccato ha le sue prime e più importanti conseguenze nel peccatore stesso: cioè, nella relazione di questi con Dio, che è il fondamento stesso della vita umana; nel suo spirito, indebolendone la volontà e oscurandone l’intelligenza» (n. 16).
Ma il peccato è solo una realtà personale? Oppure vi sono peccati anche delle società? «Il peccato, in senso vero e proprio, è sempre un atto della persona, perché è un atto di libertà di un singolo uomo, e non propriamente di un gruppo o di una comunità. Quest’uomo può essere condizionato, premuto, spinto da non pochi né lievi fattori esterni, come anche può essere soggetto a tendenze, tare, abitudini legate alla sua condizione personale. In non pochi casi tali fattori esterni e interni possono attenuare, in maggiore o minore misura, la sua libertà e, quindi, la sua responsabilità e colpevolezza. Ma è una verità di fede, confermata anche dalla nostra esperienza e ragione, che la persona umana è libera. Non si può ignorare questa verità, per scaricare su realtà esterne — le strutture, i sistemi, gli altri — il peccato dei singoli. Oltretutto, sarebbe questo un cancellare la dignità e la libertà della persona, che si rivelano — sia pure negativamente e disastrosamente — anche in tale responsabilità per il peccato commesso. Perciò, in ogni uomo non c’è nulla di tanto personale e intrasferibile quanto il merito della virtù o la responsabilità della colpa» (n. 16).
Posta questa necessaria premessa, se «ogni peccato è personale sotto un aspetto», tuttavia, «sotto un altro aspetto, ogni peccato è sociale, in quanto e perché ha anche conseguenze sociali» (n. 15). Si possono quindi enucleare almeno tre significati dell’espressione «peccato sociale».
3.1 Ogni peccato è sociale per il principio di solidarietà fra gli uomini
«Parlare di peccato sociale vuol dire, anzitutto, riconoscere che, in virtù di una solidarietà umana tanto misteriosa e impercettibile quanto reale e concreta, il peccato di ciascuno si ripercuote in qualche modo sugli altri. È, questa, l’altra faccia di quella solidarietà che, a livello religioso, si sviluppa nel profondo e magnifico mistero della comunione dei santi, grazie alla quale si è potuto dire che “ogni anima che si eleva, eleva il mondo”. A questa legge dell’ascesa corrisponde, purtroppo, la legge della discesa, sicché si può parlare di una comunione del peccato, per cui un’anima che si abbassa per il peccato abbassa con sé la Chiesa e, in qualche modo, il mondo intero. In altri termini, non c’è alcun peccato, anche il più intimo e segreto, il più strettamente individuale, che riguardi esclusivamente colui che lo commette. Ogni peccato si ripercuote, con maggiore o minore veemenza, con maggiore o minore danno, su tutta la compagine ecclesiale e sull’intera famiglia umana. Secondo questa prima accezione, a ciascun peccato si può attribuire indiscutibilmente il carattere di peccato sociale» (n. 16).
3.2 Un peccato può essere sociale quando aggredisce il prossimo
Vi è anche un secondo significato: «Alcuni peccati, però, costituiscono, per il loro oggetto stesso, un’aggressione diretta al prossimo e — più esattamente, in base al linguaggio evangelico — al fratello. Essi sono un’offesa a Dio, perché offendono il prossimo. A tali peccati si suole dare la qualifica di sociali, e questa è la seconda accezione del termine. In questo senso è sociale il peccato contro l’amore del prossimo, tanto più grave nella legge di Cristo, perché è in gioco il secondo comandamento, che è “simile al primo”. È egualmente sociale ogni peccato commesso contro la giustizia nei rapporti sia da persona a persona, sia dalla persona alla comunità, sia ancora dalla comunità alla persona. È sociale ogni peccato contro i diritti della persona umana, a cominciare dal diritto alla vita, non esclusa quella del nascituro, o contro l’integrità fisica di qualcuno; ogni peccato contro la libertà altrui, specialmente contro la suprema libertà di credere in Dio e di adorarlo; ogni peccato contro la dignità e l’onore del prossimo. Sociale è ogni peccato contro il bene comune e contro le sue esigenze, in tutta l’ampia sfera dei diritti e dei doveri dei cittadini. Sociale può essere il peccato di commissione o di omissione da parte di dirigenti politici, economici, sindacali, che, pur potendolo, non s’impegnano con saggezza nel miglioramento o nella trasformazione della società secondo le esigenze e le possibilità del momento storico; come pure da parte di lavoratori, che vengono meno ai loro doveri di presenza e di collaborazione, perché le aziende possano continuare a procurare il benessere a loro stessi, alle loro famiglie, all’intera società» (ibidem).
3.3 Un peccato è sociale quando genera e perpetua rapporti iniqui fra le comunità umane
Infine, «la terza accezione di peccato sociale riguarda i rapporti tra le varie comunità umane. Questi rapporti non sempre sono in sintonia col disegno di Dio, che vuole nel mondo giustizia, libertà e pace tra gli individui, i gruppi, i popoli. Così la lotta di classe, chiunque ne sia il responsabile e, a volte, il codificatore, è un male sociale. Così la contrapposizione ostinata dei blocchi di nazioni e di una nazione contro l’altra, dei gruppi contro altri gruppi in seno alla stessa nazione, è pure un male sociale» (ibidem).
Di fronte a tali situazioni, ampie nella loro capacità di influire sugli atti umani, è bene sottolineare con il Catechismo della Chiesa Cattolica che «la priorità riconosciuta alla conversione del cuore non elimina affatto, anzi impone l’obbligo di apportare alle istituzioni e alle condizioni di vita, quando esse provochino il peccato, i risanamenti opportuni, perché si conformino alle norme della giustizia e favoriscano il bene anziché ostacolarlo» (3) — obbligo, per inciso, che costituisce proprio il carisma di Alleanza Cattolica.
4. Peccato sociale e azione individuale
Certo è che di fronte a situazioni sociali inique, magari consolidate da generazioni, lo sguardo dell’uomo di buona volontà può scoraggiarsi, pensando di non essere in grado, con le sole proprie forze, di risanare tali condizioni. Lo scoraggiamento può, poi, tradursi in una sorda disperazione e nella rinuncia a qualsiasi azione.
Contro tale approccio è necessario effettuare alcune puntualizzazioni.
Come già detto sopra, è fondamentale non perdere di vista la personalità del peccato: «[…] ci si può chiedere se si possa attribuire a qualcuno la responsabilità morale di tali mali e, quindi, il peccato. Ora si deve ammettere che realtà e situazioni, come quelle indicate, nel loro generalizzarsi e persino ingigantirsi come fatti sociali, diventano quasi sempre anonime, come complesse e non sempre identificabili sono le loro cause. Perciò, se si parla di peccato sociale, qui l’espressione ha un significato evidentemente analogico. In ogni caso, il parlare di peccati sociali, sia pure in senso analogico, non deve indurre nessuno a sottovalutare la responsabilità dei singoli, ma vuol essere un richiamo alle coscienze di tutti, perché ciascuno si assuma le proprie responsabilità, per cambiare seriamente e coraggiosamente quelle nefaste realtà e quelle intollerabili situazioni» (n. 16).
Ma come fare ciò? Compiendo al meglio il bene e ostacolando il male nella propria sfera di influenza: «Orbene la Chiesa, quando parla di situazioni di peccato o denuncia come peccati sociali certe situazioni o certi comportamenti collettivi di gruppi sociali più o meno vasti, o addirittura di intere nazioni e blocchi di nazioni, sa e proclama che tali casi di peccato sociale sono il frutto, l’accumulazione e la concentrazione di molti peccati personali. Si tratta dei personalissimi peccati di chi genera o favorisce l’iniquità o la sfrutta; di chi, potendo fare qualcosa per evitare, o eliminare, o almeno limitare certi mali sociali, omette di farlo per pigrizia, per paura e omertà, per mascherata complicità o per indifferenza; di chi cerca rifugio nella presunta impossibilità di cambiare il mondo; e anche di chi pretende estraniarsi dalla fatica e dal sacrificio, accampando speciose ragioni di ordine superiore. Le vere responsabilità, dunque, sono delle persone» (ibidem).
Stando le cose in questi termini, nei binomi «persona-società» e «legge morale-legge positiva» il primato è sempre da attribuire al primo componente, pur senza sottovalutare l’innegabile interdipendenza dei due termini. Se, infatti, è giusto e doveroso richiamare quanto gli ambienti, i costumi e le civiltà (4) influiscano sugli uomini, tuttavia è altrettanto necessario rimarcare come tale influsso generi un condizionamento, mai una determinazione: l’uomo, grazie alla impronta trinitaria che lo fa essere a immagine e somiglianza di Dio (5), ha un nucleo intangibile, che lo rende altro e ben più della somma dei condizionamenti che patisce. Il suo essere «poco meno di un dio» (6) lo costituisce punto archimedeo fuori dal mondo e dalla società; capace, facendovi forza, di riformare qualsiasi situazione iniqua.
L’uomo ha condizionamenti, ma non è i propri condizionamenti.
Inoltre, in forza di ciò, il Catechismo della Chiesa Cattolica è chiaro al di là di ogni dubbio sulla terapia efficace contro ogni ingiustizia sociale: «occorre […] far leva sulle capacità spirituali e morali della persona e sull’esigenza permanente della sua conversione interiore, per ottenere cambiamenti sociali che siano realmente a suo servizio» (7), perché «[…] non ci sono strutture giuste senza uomini che vogliono essere giusti» (8).
Pertanto, non è veramente risolutiva la pur necessaria cancellazione o limitazione di una legge ingiusta: «una situazione — e così un’istituzione, una struttura, una società — non è, di per sé, soggetto di atti morali; perciò, non può essere, in se stessa, buona o cattiva. Al fondo di ogni situazione di peccato si trovano sempre persone peccatrici. Ciò è tanto vero che, se tale situazione può essere cambiata nei suoi aspetti strutturali e istituzionali per la forza della legge o — come più spesso avviene, purtroppo — per la legge della forza, in realtà il cambiamento si rivela incompleto, di poca durata e, in definitiva, vano e inefficace — per non dire controproducente —, se non si convertono le persone direttamente o indirettamente responsabili di tale situazione» (n. 16).
5. La divisione e l’incoercibile volontà di riconciliazione
La realtà, come si constata quotidianamente, è ferita dal male, alla cui radice vi è il peccato: «Eppure, lo stesso sguardo indagatore, se è sufficientemente acuto, coglie nel vivo della divisione un inconfondibile desiderio da parte degli uomini di buona volontà e dei veri cristiani di ricomporre le fratture, di rimarginare le lacerazioni, di instaurare, a tutti i livelli, un’essenziale unità. Tale desiderio comporta in molti una vera nostalgia di riconciliazione, pur se questa parola non è usata» (n. 3).
Da dove nasce questo «riflesso di un’incoercibile volontà di pace» (ibidem)? Dalla realtà stessa.
La realtà creata da Dio è intrinsecamente buona, abbia essa già raggiunto la stabilità definitiva, quali gli angeli e i santi in cielo, o sia ancora in statu viae, quali il cosmo e l’umanità vivente (9): ciò è testimoniato dalla ragione che riconosce un ordine originario nella realtà, pur se ferito da un male misterioso; e in modo completo dalla fede, come viene attestato dalla Genesi quando, ripetutamente, Dio si compiace delle cose buone create (10).
La realtà è buona, e l’ordine che la caratterizza è buono. In aggiunta a ciò, il riflesso stesso del dolore è buono. Abbiamo una realtà che presenta dinamiche naturali di nascita e sviluppo, che la portano a perfezione, a compimento; quando tale disegno viene interrotto, sviato, manomesso, la realtà non ha raggiunto il suo fine e ciò la rende carente, imperfetta, incompiuta. Il dolore stesso, che attesta l’esistenza della mancanza, non è un «castigo» della natura — cioè di Dio, autore della natura — fine a sé stesso, ma un campanello di allarme che spinge verso il risanamento, verso la correzione, verso la ripresa del cammino intrinseco al disegno originario.
Così si esprime al proposito il beato Antonio Rosmini (1797-1855): «Adunque la gravezza delle sofferenze e delle sventure, che l’uomo nella vita temporale ritrova, non è solamente pena del primo peccato, e conseguenza di sua natura costretta da limitazione, che è madre di disordine, al quale è giusto figlio il dolore; ma ben anco è un riparo, e quasi direi una diga incontro all’empito di questa furiosa natura che non basta a sé stessa, e che ricade perpetuamente sopra sé stessa.
«Allorquando poi rivolgiamo lo sguardo alla grazia apportata da GESÙ Cristo, allora noi veggiamo di più dato allo spirito dell’uomo un novello ajuto soprannaturale più eccellente del primo, mediante il quale ei di bel nuovo si raggiunge con Dio: la divinità di proprio moto è venuta ancora in soccorso dell’umana natura, la quale affaticata dalla funesta esperienza ond’apprese che né in sé stessa, né in tutti gli enti creati giace il riposo suo tanto studiosamente cercato, torna indietro da’ suoi traviamenti, e si slancia impaziente nel seno del suo Dio generoso amatore, ed indi trae novello vigore infinito. Allora le gravezze ed i temporali patimenti non solo la giovano di qualche confine alla foga de’ suoi disordini; ma diventano un richiamo alla vera sua requie, e vede in essi risplendere con maggior luce la grandezza della divina bontà.
«Laonde egli è del tutto irragionevole il lagno che muove qualsiasi mortale contro le temporali afflizioni. Ciascuno viene al mondo avverso da Dio, con una limitazione della natura, che reca disordine nella volontà, il qual disordine lo fa soggiacere alle sofferenze. La legge che impone all’uomo il patire è dunque naturale e giusta, perché a tutti gli uomini difettati, comune; è anche buona, perché ella si oppone al natural disordine, e quanto ella può nel corregge, e perché l’ostacolo de’ mali, contro a cui batte la disordinata nostra natura, per GESÙ Cristo, ci ajuta a tornare indietro, e ci avvisa ed affretta di rinvenire a quel Dio, che torna a venirci incontro» (11).
6. La strada per la riconciliazione: la penitenza o conversione
«Il termine e il concetto stesso di penitenza sono assai complessi. Se la colleghiamo alla metanoia, a cui si riferiscono i sinottici, allora la penitenza significa l’intimo cambiamento del cuore sotto l’influsso della parola di Dio e nella prospettiva del Regno» (n. 4).
E il cambiamento del cuore, se è davvero tale, necessariamente influisce su ogni dimensione dell’uomo: «[…] penitenza vuol dire anche cambiare la vita in coerenza col cambiamento del cuore, e in questo senso il fare penitenza si completa col fare degni frutti di penitenza: è tutta l’esistenza che diventa penitenziale, tesa cioè a un continuo cammino verso il meglio» (ibidem); la vita, così, diventa «ascesi», «[…] vale a dire lo sforzo concreto e quotidiano dell’uomo, sorretto dalla grazia di Dio, per perdere la propria vita per Cristo, quale unico modo di guadagnarla; per spogliarsi del vecchio uomo e rivestirsi del nuovo; per superare in se stesso ciò che è carnale, affinché prevalga ciò che è spirituale; per innalzarsi continuamente dalle cose di quaggiù a quelle di lassù, dove è Cristo» (ibidem).
«La penitenza, pertanto, è la conversione che passa dal cuore alle opere e, quindi, all’intera vita del cristiano» (ibidem).
Il primo e più importante frutto della penitenza è la riconciliazione: «In ciascuno di questi significati la penitenza è strettamente congiunta alla riconciliazione, poiché il riconciliarsi con Dio, con se stessi e con gli altri suppone che si sconfigga la rottura radicale, che è il peccato» (ibidem).
«La storia della salvezza — quella dell’intera umanità, come quella di ciascun uomo, in qualsiasi tempo — è la storia mirabile di una riconciliazione: quella per cui Dio, che è Padre, nel sangue e nella croce del suo Figlio fatto uomo ha riconciliato con sé il mondo, facendo nascere così una nuova famiglia di riconciliati» (ibidem).
6.1 La penitenza è personale
Se si analizza in profondità la penitenza, o conversione, si nota immediatamente che «la conversione personale è la via necessaria alla concordia fra le persone» (ibidem). Atteso che sia vero quanto sopra detto, non è il mero risanamento delle strutture — pur necessario e quindi doveroso — che porta con sé il superamento del peccato personale, ma è il superamento del peccato personale che rende davvero possibile e duraturo il risanamento delle strutture sociali.
6.2 La penitenza è riconoscersi peccatori
La penitenza richiede la consapevolezza del peccato: essa non può «[…] fondarsi né sulla dissimulazione dei punti che dividono, né su compromessi tanto facili quanto superficiali e fragili» (n. 9).
Pertanto, san Giovanni Paolo II ammonisce come «riconoscere il proprio peccato, anzi — andando ancora più a fondo nella considerazione della propria personalità — riconoscersi peccatore, capace di peccato e portato al peccato, è il principio indispensabile del ritorno a Dio» (n. 13).
Il senso dell’essere peccatore «[…] ha la sua radice nella coscienza morale dell’uomo e ne è come il termometro. È legato al senso di Dio, giacché deriva dal rapporto consapevole che l’uomo ha con Dio come suo creatore, Signore e Padre. Perciò, come non si può cancellare completamente il senso di Dio né spegnere la coscienza, così non si cancella mai completamente il senso del peccato» (n. 18).
Nell’epoca della secolarizzazione, la cosiddetta epoca moderna o epoca della Rivoluzione (12), di cui oggi viviamo il «periodo vuoto» successivo (13), chiamato al momento post-moderno in mancanza di un nome migliore, tale coscienza della propria colpa si è affievolita notevolmente.
«[…] non di rado nella storia, per periodi di tempo più o meno lunghi e sotto l’influsso di molteplici fattori, succede che viene gravemente oscurata la coscienza morale in molti uomini. “Abbiamo noi un’idea giusta della coscienza”? […]. “Non vive l’uomo contemporaneo sotto la minaccia di un’eclissi della coscienza? di una deformazione della coscienza? di un intorpidimento o di un’’anestesia’ delle coscienze?”. Troppi segni indicano che nel nostro tempo esiste una tale eclissi, che è tanto più inquietante, in quanto questa coscienza, […] “il nucleo più segreto e il sacrario dell’uomo” […], è “strettamente legata alla libertà dell’uomo […]. Per questo la coscienza in misura principale sta alla base della dignità interiore dell’uomo e, nello stesso tempo, del suo rapporto con Dio”. È inevitabile, pertanto, che in questa situazione venga obnubilato anche il senso di Dio, il quale è strettamente connesso con la coscienza morale, con la ricerca della verità, con la volontà di fare un uso responsabile della libertà. Insieme con la coscienza viene oscurato anche il senso di Dio, e allora, smarrito questo decisivo punto di riferimento interiore, si perde il senso del peccato. Ecco perché il mio predecessore Pio XII [1939-1958], con una parola diventata quasi proverbiale, poté dichiarare un giorno che “il peccato del secolo è la perdita del senso del peccato”» (n. 18).
Gli uomini, proprio perché e nella misura in cui si allontanano da Dio e diventano dèi a loro stessi, non riconoscono più il bene e il male come dati, ma come frutto della propria volontà, del proprio capriccio: che senso ha, per un dio, il parlare di colpa?
Contemporaneamente, tuttavia, il dolore generato dalla lontananza da Dio, la mancanza di felicità che necessariamente prova la creatura che vive dimentica del suo Creatore, è una sveglia esistenziale che non può essere totalmente ignorata: se siamo dèi, che senso ha provare dolore? Se siamo dèi, perché non siamo felici?
6.3 La penitenza è radicale
Infine, quanto ha scavato in profondità la malattia, tanto in profondità deve arrivare la medicina per curare: «[…] la riconciliazione non può essere meno profonda di quanto non sia la divisione. La nostalgia della riconciliazione e la riconciliazione stessa saranno piene ed efficaci nella misura in cui giungeranno — per guarirla — a quella lacerazione primigenia, che è radice di tutte le altre ed è il peccato» (n. 3).
7. La parabola del padre misericordioso
La parabola del figliol prodigo, oggi conosciuta anche come parabola del padre misericordioso (14), descrive in modo anche umanamente efficace la dinamica «allontanamento da Dio-dolore-conversione-riconciliazione».
Il figlio prende la sua parte di eredità e, in un paese lontano, sperpera tutte le ricchezze vivendo in modo dissoluto. In tale paese avviene una carestia; essa è generata necessariamente, anche se la Scrittura non ne fa menzione esplicita, dal comportamento dissoluto, perché le ricchezze vengono utilizzate esclusivamente per la dissolutezza e non come capitale di investimento. Tale situazione genera un disagio progressivo fino al parossismo: l’impossibilità di nutrirsi addirittura del cibo destinato ai maiali.
Questo disagio, arrivato a un certo livello di intensità, a un «grado di ebollizione» che solo Dio conosce per ogni uomo, mette il figlio di fronte al proprio errore e lo invita — lo invita, si badi, non lo determina — a riconsiderare le decisioni prese.
A quel punto, partendo da un prosaico, «basso», «meschino» motivo, la fame, si innesca un processo di ritorno al Padre: qui è notevole sottolineare come l’eterogenesi dei fini sia un’arma potentissima, perché la conversione non avviene mai, salvo casi eccezionali, in modo immediato, ma seguendo un percorso fatto di passi avanti e ripensamenti, d’illuminazioni e fraintendimenti, di accelerate e rallentamenti, di verità intraviste nelle nebbie di un sogno da cui né il dolore né la durezza della vita conseguenti al peccato svegliano mai completamente.
Ma pur con tutte queste incertezze, il figlio si volge al Padre, si mette in cammino. E il Padre, vistolo da lontano, gli corre incontro.
Questo è l’amore di Dio: non appena noi uomini ci muoviamo verso di Lui, scopriamo che Egli si è mosso subito verso di noi; in realtà, scopriamo che ci è sempre stato vicino, eravamo noi a essere lontani da Lui: «Si dimentica forse una donna del suo bambino, / così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? / Anche se costoro si dimenticassero, / io invece non ti dimenticherò mai» (15).
Ignazio Cantoni
Note:
Cfr. san Giovanni Paolo II, Esortazione apostolica post-sinodale «Reconciliatio et paenitentia» circa la riconciliazione e la penitenza nella missione della Chiesa oggi, del 2-12-1984. Tutte le citazioni senza riferimento sono tratte da questo documento. Cfr. la lettura fattane da Giovanni Cantoni (1938-2020), La Contro-Rivoluzione e le libertà, in Cristianità, anno XIX, n. 199, novembre 1991, pp. 6-12.
2) Joseph de Maistre (1753-1821), Stato di natura. Contro Jean-Jacques Rousseau, trad. it., a cura di Francesco Boccolari, Mimesis, Milano-Udine 2013, pp. 61-62.
3) Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1888.
4) Cfr. Plinio Corrêa de Oliveira (1908-1995), Ambientes, Costumes, Civilizações. Coleção de artigos do jornal «Catolicismo» publicados durante os anos 1951 a 1967, Artpress Papéis e Artes Gráficas, San Paolo s.d.
5) Cfr. Gen. 1,26.
6) Sal. 8,6.
7) Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1888.
8) Ibid., n. 2832.
9) Cfr ibid., n. 302.
10) Cfr. Gen. 1,10; 12; 18; 21; 24; e 31.
11) Beato Antonio Rosmini, Teodicea libri tre, l. II, nn. 248-250, in Opere edite e inedite di Antonio Rosmini, edizione nazionale promossa da Enrico Castelli (1900-1977), edizione critica promossa da Michele Federico Sciacca (1908-1975), a cura dell’Istituto di Studi Filosofici — Roma, e del Centro di Studi Rosminiani — Stresa, vol. 22, a cura di Umberto Muratore I.C., Città Nuova Editrice, Roma 1977, pp. 7-570 (pp. 176-177).
12) Cfr. P. Corrêa de Oliveira, Rivoluzione e Contro-Rivoluzione. Edizione del cinquantenario (1959-2009) con materiali della «fabbrica» del testo e documenti integrativi, con presentazione e cura di G. Cantoni, Sugarco, Milano 2009.
13) Cfr. Gonzague de Reynold (1880-1970), La Casa Europa. Costruzione, unità, dramma e necessità, trad. it., presentazione e cura di G. Cantoni, D’Ettoris Editori, Crotone 2015, pp. 39-40.
14) Cfr. Lc. 15,11-32.
15) Is. 49,15.