Daniele Fazio, Cristianità n. 416 (2022)
1. Non è bene che l’uomo sia solo
Lo scenario che l’età post-moderna ha messo in campo si caratterizza, insieme alla fine delle grandi narrazioni (1), per una frantumazione sempre più evidente dei legami interpersonali e sociali. Il sociologo Zygmunt Bauman (1925-2017), attraverso la categoria della «liquidità», ha indagato i caratteri del passaggio a questo stato di cose che segna la consacrazione di una «società individualizzata»: «Tutti i punti di riferimento che davano solidità al mondo e favorivano la logica nella selezione delle strategie di vita (i posti di lavoro, le capacità, i legami personali, i modelli di convenienza e decoro, i concetti di salute e malattia, i valori che si pensava andassero coltivati e i modi collaudati per farlo), tutti questi e molti altri punti di riferimento un tempo stabili sembrano in piena trasformazione. Si ha la sensazione che vengano giocati molti giochi contemporaneamente, e che durante il gioco cambino le regole di ciascuno. Questa nostra epoca eccelle nello smantellare le strutture e nel liquefare i modelli, ogni tipo di struttura e ogni tipo di modello, con casualità e senza preavviso» (2).
Il sintagma «società individualizzata» di per sé suona come un ossìmoro, ma di fatto rappresenta un modello che i sociologi nell’ultimo decennio hanno utilizzato, con i relativi sinonimi esplicativi, per cercare di descrivere i nuovi contesti sociali. Già nel 2007 il 41° Rapporto del Centro Studi Investimenti Sociali (CENSIS) segnava inesorabilmente per l’Italia i caratteri di una «società a coriandoli» (3), ridotta alla «materia prima», in cui i legami avevano una tenuta bassissima, in un contesto polverizzato, e come modello sociale predominava il single mentre il tessuto sociale appariva come una «poltiglia di massa» (4). Un’analisi del genere non solo rivelava la fatica dell’uomo post-moderno a instaurare legami autentici con i suoi simili, ma anche la perdita dell’oggetto delle scienze sociali. Infatti, la sfiducia verso contenitori sociali assodati, come per esempio i partiti politici o i sindacati, ha messo pesantemente in crisi la rappresentatività e ha condotto la società a un assetto strutturalmente disomogeneo. A dieci anni da questa descrizione, il rapporto del CENSIS del 2017 non solo conferma il dato precedente, ma aggiunge che la marcata inclinazione all’esperienza delle cose peggiori, già evidenziata, si è concretizzata in un tessuto sociale basilarmente individualistico, in cui il sentimento montante risulta essere quello del rancore, quale fattore di sfogo per un sistema socio-economico sostanzialmente bloccato (5). Mentre nel 2018 il nuovo Rapporto così riporta: «al volgere del 2018 gli italiani sono soli, arrabbiati e diffidenti» (6). Il Rapporto dell’Istituto Nazionale di Statistica (ISTAT) del 2022, su questa scia, dichiara che in Italia si è poveri non solo da un punto di vista economico, ma principalmente come capitale umano, a causa del trend demografico nettamente negativo. Se il trend negativo continuerà, il Rapporto prevede per il 2040 che quasi quattro famiglie su dieci saranno costituite da persone sole, in prevalenza anziani (7).
Siamo consapevoli che si è potuto raggiungere un tale stadio solo a seguito di un processo che soprattutto in Occidente ha lentamente, ma con decisione, emarginato elementi storico-culturali e valoriali importanti. È palese, da un lato, che esiste un tentativo sempre più massiccio di secolarizzare la società e dall’altro lato che tale fenomeno si è accompagnato alla contestazione della razionalità, così come concepita dalla tradizione filosofica della Grecia. Due processi paralleli e per certi versi comunicanti che, con la scristianizzazione e la de-ellenizzazione (8), sono giunti ormai a recidere la visione del mondo che aveva strutturato il contesto culturale, lato sensu, dell’Occidente. Questo mutato contesto sociale non è minimamente estraneo ai cambiamenti di paradigma culturale e delle visioni del mondo che si sono avvicendate nel contesto occidentale.
La filosofia classica e la rivelazione cristiana hanno concordato sostanzialmente sul fatto che l’uomo costitutivamente sia un essere relazionale. La sua natura è aperta ai suoi simili e una tale dinamica diventa un esercizio che svolge quotidianamente a partire dal rapporto con la differenza, altrettanto costitutiva, dell’umano: l’essere maschile e l’essere femminile. Questo è il fondamento di qualsiasi teoria sulla società che s’ispiri agli orientamenti classici e cristiani.
Per Aristotele (384/383-322 a.C.) l’uomo in quanto essere che possiede il λόγος — «logos», termine polisemantico che sta a significare non solo ragione, ma anche parola, linguaggio, discorso — è uno Ζῷον πολιτικὸν (9), ovverosia un animale sociale. L’essere umano, infatti, ha innanzitutto una profonda necessità di rivolgersi ad altri in senso materiale ed economico, in quanto i suoi simili sono indispensabili per il suo sostentamento soprattutto nei primi anni di vita; in senso psicologico, in quanto senza gli altri uomini egli non potrebbe rendersi consapevole della propria identità personale; e in senso etico: senza gli altri, infatti, non riuscirebbe a intraprendere un percorso di vita virtuoso, in quanto gli altri ci educano, diventano per noi un modello, ci spronano a migliorarci e condividono con noi le attività, favorendole. Ma anche se tutto ciò risultasse temporaneo e superabile, l’uomo per il suo stesso modo d’essere, quindi in senso ontologico, desidererebbe vivere con gli altri. Esempio principe in questo senso è l’esperienza dell’amicizia, che vede l’altro per sé stesso e non per l’utile o il vantaggio che questi potrebbe arrecare.
Fin dalla narrazione della creazione la Rivelazione ebraico-cristiana concorda sull’insita relazionalità dell’uomo, che fin da subito appare come un essere uni-duale, ovverosia maschio e femmina: «non è bene che l’uomo sia solo: gli voglio fare un aiuto che gli sia simile» (Gn. 2,18). La dimensione relazionale sia nell’orizzonte greco sia in quello ebraico è vista con positività. Aristotele, infatti, fa comprendere come fra i beni più importanti vi sia l’esistenza. Se questa è fra le cose più desiderate dalla persona per sé, a maggior ragione la si desidera anche per l’amico. In altri termini, si può affermare dell’altro: è bene che tu esista (10); mentre Adamo alla vista della donna esclama: «questa volta è carne della mia carne, osso delle mie ossa» (Gn. 2,23), un linguaggio simbolico che indica la straordinaria importanza del legame non solo fra uomo e donna, ma di tutta l’umanità per il fatto che si condivide la medesima origine.
La tesi circa l’importanza della socialità dell’uomo e della relazione, fra l’altro, non viene incrinata da episodi di conflitto. Questi non mettono in discussione la costituzione ontologica dell’uomo, ma ne denotano semmai declinazioni morali negative, come nel caso della falsa amicizia, quella non basata sulla virtù secondo Aristotele, o l’uccisione di Abele da parte di Caino, riportata nel testo biblico.
Ciò per ricordare come il pensiero classico e quello cristiano abbiano valorizzato in maniera significativa il legame fra gli uomini, che non sta semplicemente alla base di rapporti interpersonali, ma si trova a fondamento della famiglia, il primo nucleo della comunità civile. Cosicché i legami fra gli uomini non solo hanno impatti di natura psicologica e morale, ma assumono anche declinazioni giuridiche ed economiche, ovvero in senso lato politiche.
L’esordio della modernità, invece, ha segnato un cambiamento di paradigma: «il sentimento primario dell’uomo moderno cosciente della propria situazione è dunque la sua radicale solitudine» (11). I legami si sono fatti sempre meno solidi fino a giungere alla loro completa frantumazione. Tenuto conto di questo scenario, in cui è evidente l’esaurirsi di legami forti, l’uomo non ha di certo trovato il segreto di una «vita riuscita» (12). Essa evidentemente si nutre di tanti aspetti, ma non può non avere fra i principali una pacifica e rinnovata relazione tra gli uomini, che sia portatrice di una struttura sociale solida in cui si possano riconoscere e condividere le finalità intrinseche alla stessa natura umana. Infatti, non si può pretendere di superare da soli la crisi del nostro tempo, che si configura innanzitutto come una crisi dell’uomo e della sua interiorità. L’individualismo è allo stesso tempo una causa e un effetto di tale crisi.
Davanti a questo contesto, se da un lato è bene tornare a evocare la visione antropologica classica ben consolidata nei secoli — che si può esprimere, fra l’altro, nella lezione d’esordio aristotelico-tomistica sull’amicizia —, dall’altro occorre un impegno costante a intraprendere prassi interpersonali basate sulla fiducia e sulla reciprocità, sulla ricerca e sulla condivisione del vero, del bene e del bello. Del resto, l’amicizia — già per Aristotele —, in quanto virtù etica o attività prossima alla virtù, non resta nell’ambito di un insegnamento teoretico, ma cerca di diventare il frutto di un’azione e di un’esperienza. La dinamica interna della società non può essere imposta dalla sua struttura amministrativa, «dal suo Stato», ma ha bisogno che si sviluppi, cresca e si consolidi a partire da legami interpersonali credibili. Essa non può essere imposta dall’esterno — altrimenti diventerebbe una prigione e non l’ambito delle libertà concrete in cui gli uomini espletano il loro agire —, ragion per cui bisogna ripartire dalle costanti antropologiche spesso sopite o addirittura dimenticate della nostra tradizione filosofica e religiosa. L’etica precede e sfocia nella politica e non viceversa. E ciò non significa tornare a strutture sociali che sono state soluzioni concrete per i bisogni dei tempi passati, bensì offrire soluzioni concrete davanti alle necessità nuove che il nostro tempo presenta, considerando da un lato la storicità dell’esistenza umana e, dall’altro lato, l’orientamento offerto dai princìpi etici che trascendono la stessa storia.
La tematica dell’amicizia rappresenta, in quest’ottica, non solo una grande teoria che va nuovamente meditata, ma anche una buona prassi atta a rinsaldare forti legami interpersonali, i cui effetti deborderanno anche in ambiti sempre più ampi fino a raggiungere il politico. In questo breve testo, non esaustivo (13), ho cercato non solo di individuare la sintesi aristotelico-tomistica in materia, ma anche di indicare, a partire da un importante maestro dello spirito, san Francesco di Sales (1567-1622), consigli spirituali, ovvero pratici, per discernere i rapporti interpersonali e costruire una vera amicizia.
2. Aristotele, l’antico cantore dell’amicizia
Quella dell’amicizia è una delle tematiche che ha sempre accompagnato la riflessione dell’uomo: «sull’amicizia si discute non poco» (14). Nell’Antichità possiamo, a buon diritto, considerare la trattazione dell’argomento da parte di Aristotele il punto di arrivo e il culmine di quanto la precedente tradizione popolare, letteraria e filosofica, nonché la ragione naturale, erano riuscite a raggiungere: «Il principale merito della teoria dell’amicizia elaborata dallo Stagirita consiste nell’aver fatto confluire tutta la sapienza greca anteriore, popolare e filosofico-letteraria, fondendo pensieri più disparati e tramutandoli in riflessione filosofica» (15). La trattazione aristotelica dell’amicizia è stata anche, a causa della sua completezza, un punto di riferimento per ulteriori discussioni e sviluppi e rappresenta ancora oggi una dottrina cui attingere e con cui confrontarsi (16).
La tematica è inserita in special modo all’interno della riflessione etica, in particolare nel libro VII dell’Etica Eudemea,nei libriVIII e IX dell’Etica Nicomachea e nei capitoli finali (11-16) del libro II della Grande Etica. La riflessione morale del filosofo di Stagira è un cammino che può offrire all’uomo le condizioni per raggiungere l’eudaimonia, ovvero una vita realizzata o, in altri termini, la felicità. Mentre le etiche moderne — pensiamo per esempio a quella kantiana — si protendono verso una visione deontologica, cioè cercano innanzitutto di rispondere alla domanda: «che cosa devo fare?», quelle antiche, e quella aristotelica per eccellenza, si situano sul versante teleologico, sforzandosi di rispondere alla domanda: «come posso fare per essere felice?». In questo contesto finalistico l’amicizia viene analizzata in modo molto minuzioso, in quanto ritenuta un aiuto indispensabile per una vita virtuosa e quindi, allo stesso tempo, una virtù: «essa è una virtù o comunque, si accompagna alla virtù, ed inoltre è una cosa estremamente necessaria per vivere» (17); essa «è un bene, bisogna chiamarla in aiuto della felicità» (18).
Aristotele considera l’amicizia di straordinaria importanza per l’uomo: con questo termine indica i diversi rapporti che l’uomo intrattiene con i suoi simili. Si può provare amicizia, infatti, per gli esseri animati e non verso gli oggetti inanimati come le pietre o il vino, né tantomeno si può provare amicizia verso Dio, perché lontano e con il quale, quindi, è impossibile istituire un rapporto di reciprocità (19). Il termine antico φιλία (filìa) di fatto indicherebbe una vasta gamma di rapporti fra esseri animati che il termine italiano amicizia vede ridursi. Vi può essere, infatti, amicizia fra «diseguali» in termini sociologici, ma anche un’intesa di tipo economico/politico tra figure istituzionali, gruppi sociali e città. L’amicizia si distingue dall’amore e — si rimarca ciò soprattutto nell’Etica Nicomachea, diversamente dall’Etica Eudemea (20) — supera la stessa giustizia (21).
In breve, i rapporti d’amicizia, nell’ottica aristotelica, sono raggruppati in tre specie: il rapporto basato sull’utile, quello basato sul piacevole e, infine, quello basato sulla virtù (22). Tali relazioni a loro volta prevedono due direzioni: una nei confronti dei simili, quindi paritetica, che si instaura attraverso il metro dell’uguaglianza, e un’altra che va verso i cosiddetti superiori (padri/figli, autorità/sudditi, anziani/giovani, marito/moglie), e che di fatto prevede una disuguaglianza. Dunque, all’interno dei rapporti di amicizia, con termini più vicini a noi, si possono rintracciare due modalità: una simmetrica, fra pari, e un’altra asimmetrica, fra diversi.
L’amicizia basata sull’utile, più che privilegiare l’aspetto essenziale dell’uomo, ovvero la sua anima e il suo intelletto, si costituisce in uno scambio di interessi. È, dunque, un rapporto finalizzato che può avere un inizio e una fine, nel momento in cui cessa l’oggetto del comune interesse. In questo ambito si è orientati non tanto all’intesa fra i due soggetti quanto all’intesa verso qualcosa di esterno, che accomuna nell’interesse le due persone; questo tipo di amicizia in termini di durata è notevolmente precario, in quanto l’oggetto su cui verte espone gli uomini di fatto a una notevole litigiosità. Aristotele attesta che «venuto meno il motivo per cui erano amici, si scioglie anche l’amicizia, dato che essa esisteva in vista di quei fini» (23), ovverosia i profitti materiali.
L’amicizia basata sul piacevole è soprattutto quella che si instaura fra giovani. Può essere fulminea, ma anche qui sembra che lo scambio non sia sostanziale, bensì collocato su questioni di carattere transeunte, e come tale non risulta per essa una motivazione stringente che possa legare i due soggetti: «i giovani divengono amici rapidamente e con rapidità smettono di esserlo: la loro amicizia muta insieme a ciò che è piacevole e rapido è il mutamento del piacere giovanile» (24). Rispetto tuttavia alla prima, una tale relazione lega i due soggetti più a lungo e fino a quando l’uno può godere della piacevolezza dello stare con l’altro. Ha certamente una durata maggiore dell’altra ma è esposta, in un certo senso, alla litigiosità, in quanto l’uno potrebbe lamentarsi spesso delle disattenzioni dell’altro. Queste prime due modalità per Aristotele sono amicizie per accidente, ovvero non legano l’uomo all’altro uomo secondo ciò che più caratterizza la sua natura, ma restano all’esterno di essa, in un orizzonte di ricchezza materiale, quindi di vantaggio o svantaggio, e di piacevolezza, spesso ridotto a un estetismo grandemente incline alla mutevolezza.
L’amicizia secondo virtù, invece, potremmo considerarla l’amicizia tout court, cioè quella che effettivamente si instaura fra simili con una finalità di un mutuo scambio di beni, perché per l’altro si vuole semplicemente il bene. Nel cammino verso la felicità ciò è importante, in quanto l’uomo — essendo un animale politico ed economico — trova il suo luogo naturale nella relazione con i propri simili e la stessa polis greca rappresenta la possibilità concreta in cui l’eudaimonia può trovare il suo compimento. L’amicizia secondo virtù prevede la reciprocità fra persone per il solo fatto che sono persone, ovvero è secondo la natura, cioè finalizzata alla realizzazione dell’essere umano: «la prima forma d’amicizia, quella tra virtuosi, è amicizia reciproca e reciproca scelta. Ciò che è oggetto di amicizia è caro a colui che è amico, ed anche colui che è amico è caro all’oggetto della sua amicizia» (25). Di converso, «molte recriminazioni nascono nelle amicizie non improntate alla reciprocità diretta, e non è facile vedere ciò che è giusto» (26).
In tal senso, l’amicizia vero nomine non esclude del tutto le prime due specie, ma è come se le sussumesse (27), ovvero nell’amicizia secondo virtù vi può essere anche una dimensione utile, così come da un certo punto di vista vi è anche il piacevole, ma questi aspetti evidentemente non sono gli unici fattori, perché il proprio è la vita virtuosa insieme: «perfetta è l’amicizia di coloro che sono buoni e simili nella virtù, perché essi vogliono nello stesso tempo il bene l’uno per l’altro in quanto sono buoni, e lo sono di per sé. Ma soprattutto sono amici coloro che vogliono ciò che per gli altri amici è bene proprio in vista di quelli: si comportano così per se stessi e non per accidente; la loro amicizia perdura dunque finché siano buoni e la virtù è cosa stabile. Ciascuno è buono sia in assoluto sia in rapporto all’amico, poiché i buoni sono sia buoni in assoluto sia utili gli uni agli altri, poiché per ciascuno sono conformi al piacere le azioni che gli sono proprie e quelle di tal genere, e le azioni dei buoni sono identiche o simili. L’amicizia di tal genere è ragionevolmente duratura perché in essa sono riunite tutte le caratteristiche che gli amici devono avere» (28).
Gli uomini malvagi potranno, allora, semplicemente accedere alle prime due forme di amicizia, ma mancando in loro la virtù non potranno mai aver un rapporto amicale perfetto. Essi, infatti, possono avere come obiettivo l’utile e il piacevole, giammai il bene e il bello.
Aristotele, soprattutto nell’Etica Nicomachea, compie un’articolata analisi fenomenologica delle varie declinazioni dell’amicizia, si dilunga anche in riflessioni di carattere psicologico e considera un tale aspetto della vita umana in qualche modo un suo coronamento importante, che fa sì che l’uomo conosca sé stesso e proceda attraverso una vita virtuosa verso la felicità. In questo senso, rivela anche affinità e differenze fra amicizia, benevolenza e concordia. La benevolenza — altra tematica presente all’interno delle considerazioni etiche aristoteliche, con importanti echi anche nella filosofia contemporanea (29) —, pur essendo differente dall’amicizia e a essa non totalmente sovrapponibile, fa parte del sentimento amicale: ogni amico non può che volere il bene dell’altro e quindi deve essere un benefattore per l’altro, in uno scambio che può chiamare in causa la giustizia distributiva; ma chi esercita la benevolenza non lo fa solo all’interno dei rapporti di amicizia, perché essa li supera, dirigendosi verso coloro che sono in stato di bisogno a prescindere dalla loro condizione o da una conoscenza diretta. Da questo punto di vista, la benevolenza potrebbe essere l’anticamera dell’amicizia (30), ed è proprio ciò che lascia intendere Aristotele quando scrive: «si potrebbe dire, per metafora, che la benevolenza è un’amicizia pigra, ma protraendosi nel tempo e giungendo ad una certa familiarità, diventa amicizia: non quella motivata dall’utile né quella motivata dal piacere, poiché neppure la benevolenza nasce in queste condizioni» (31).
All’interno dei rapporti sociali, la concordia, invece, più vicina all’amicizia che non alla benevolenza, è necessaria affinché i cittadini di una polis possano vivere in pace e quindi orientarsi verso il bene comune. Essa è «un’amicizia politica» (32). Ciò non significa che i cittadini debbano avere la stessa idea su tutto, ma che tutti i cittadini devono puntare all’utilità comune. Nella misura in cui vi sono persone che pensano alla propria utilità e non a quella della comunità, queste non potranno essere portatrici di concordia e viceversa, così come realizza l’amicizia secondo virtù solo chi è una persona buona e non orientata semplicemente al proprio interesse materiale. In altri termini, «la concordia è un’amicizia politica, proprio secondo il senso della parola: essa concerne le cose che sono vantaggiose e attinenti alla vita “sociale”. La concordia di questo genere esiste tra gli uomini onesti: essi sono concordi sia con se stessi sia fra di loro, trovandosi sulle stesse posizioni […] vogliono ciò che è giusto e ciò che è vantaggioso e vi aspirano di comune accordo» (33).
Risulta utile soffermarsi, a questo proposito, sull’allargamento e sul parallelismo della tematica dell’amicizia con la vita dello Stato. Aristotele sembra dirci che anche all’interno dei legami politici non può essere eluso il rapporto amicale, e ciò sia per quanto riguarda il rapporto fra i superiori e i sudditi, sia per quanto riguarda i rapporti fra i pari. Uguaglianza e differenza, parità di scambi e proporzionalità tra essi fanno in modo che la giustizia possa regolare i rapporti e possa realizzarsi la vita virtuosa in comune (34). Per comprendere meglio questi aspetti, a prescindere dalla disamina portata avanti sulle forme di governo e sulle loro degenerazioni (35), il fondatore del Liceo punta molto sul far comprendere che i rapporti all’interno della politica devono, in qualche modo, ricalcare i rapporti che sussistono all’interno della famiglia, che di suo, quale istituto naturale, precede gli ordinamenti degli Stati. E ciò in questo senso: la relazione del padre con i figli serve da modello alla relazione fra il re e i sudditi; la relazione fra il padre e la madre modella la relazione all’interno di una comunità aristocratica; la relazione tra fratelli modella il rapporto che si instaura fra cittadini (36). I vari raggruppamenti umani formano delle comunità, che a loro volta entrano a far parte della comunità politica. Il filo che lega gli uomini, in tali contesti, è proprio l’amicizia. Non teme, infatti, Aristotele di scrivere: «l’amicizia consiste nella comunità» (37) e dunque si può aggiungere che «per ciascuna forma di costituzione è evidente che esiste un’amicizia corrispondente ad essa, nella misura in cui si ha anche il giusto» (38).
S’impone a questo punto la domanda su quale sia il migliore modo per essere amici. Ovviamente la risposta si pone nella prospettiva dell’amore che si deve nutrire verso l’amico. Ma questo sentimento, più che essere declinato secondo la specie dell’altruismo e della considerazione dell’alterità dell’amico, da Aristotele è spiegato chiaramente all’interno degli intrecci di rapporti che riguardano, innanzitutto, sé stessi. L’uomo virtuoso «è sempre d’accordo con se stesso e desidera sempre le stesse cose con tutta la sua anima; egli dunque vuole per sé le cose buone e quelle che “tali” appaiono, e le compie (poiché è proprio dell’uomo buono darsi molta pena per il bene), e lo fa in vista di se stesso (poiché agisce per la parte dianoetica “dell’anima”, parte che si ritiene l’essenza di ciascuno). Egli vuole vivere e salvarsi e soprattutto “che viva e si salvi” quella parte con la quale pensa. L’esistere infatti per il virtuoso è un bene, ciascuno vuole per se stesso ciò che è bene e nessuno sceglie di possedere una cosa diventando un altro (infatti Dio possiede già ciò che è un bene), ma essendo ciò che è; e si riconoscerà che ciascuno è, o è soprattutto, la parte intellettiva» (39).
Per comprendere meglio, si giudicano certamente in negativo la parola «egoista» o un atteggiamento improntato all’«egoismo». A tal proposito, però, Aristotele fa notare come esista un «egoismo» diremmo positivo, ovvero quel particolare amore di sé stessi, che non può prescindere dalla conoscenza di sé, e che è una condizione per potersi rapportare in modo virtuoso nei confronti dell’amico. Per amare gli altri occorre, perciò, amare sé stessi. Per realizzare un tale amore, quindi, occorre che l’anima sia concorde in tutte le sue parti: «l’anima sarà una allorquando la ragione e le passioni siano in accordo reciproco (è in questo modo che sarà una sola); di conseguenza, essendo essa divenuta una sola, esisterà una forma di amicizia verso se stessi» (40). L’amore verso di sé, allora, è chiamato in causa non nel senso di agognare a un utile materiale, perché questo sarebbe semplicemente l’egoismo negativo proprio dei malvagi, ma nel senso che l’uomo buono agisce per il bello morale, e in tal senso l’amico diventa un aiuto, in quanto è una sorta di specchio attraverso cui poter conoscere bene sé stessi: «il virtuoso darebbe via anche le sue ricchezze perché gli amici ne abbiano di più; all’amico infatti vanno le ricchezze, ma a lui ciò che è bello, il bene maggiore, pertanto egli lo attribuisce a se stesso» (41). Aristotele esplicita ancor meglio: «Ogni cosa la vogliamo per noi stessi: vogliamo vivere insieme con noi stessi (e questo è senza dubbio necessario), e “per noi”, non per qualcun altro, vogliamo la felicità, la vita ed il bene» (42). Nella Grande Etica viene approfondita meglio la questione terminologica in merito all’uso del termine «egoismo», chiarendo il significato corretto: l’amico «[…] in un senso ama […] l’amico più di se stesso, nell’altro egli ama soprattutto se stesso, poiché a se stesso procura quelle cose che sono le più belle. Egli è perciò “amante del bene”, non “egoista”, poiché se ama se stesso è soltanto a causa del fatto che è buono» (43).
L’amico è, dunque, un alter ego (44). L’uomo buono o, meglio, felice, non ha la necessità di moltiplicare gli amici, ma deve averne nella giusta misura: non si può infatti essere amici di tutti, ma è bene avere amici per i motivi più stringenti sopra esposti. Chi vuol essere amico di tutti alla fine sarà amico di nessuno e la qualità di tale amicizia sarà sempre debole (45), mentre la vera amicizia ha bisogno di essere provata in modo che possa nel tempo maturare la fiducia reciproca nelle comuni scelte orientate al bene. Afferma lo Stagirita: «un’amicizia salda non è disgiunta da fiducia; e la fiducia non è disgiunta dal trascorrere del tempo» (46);e ancora: «l’amico infatti non prescinde dall’esperienza, che non è cosa di un sol giorno ma richiede tempo» (47).
È chiaro, dunque, che l’amicizia, così come intesa da Aristotele, è riservata a pochi, in ragione anche del fatto che risulta importante che gli amici si possano frequentare, vedere, vivere insieme (48) in modo da rafforzarsi nel loro cammino, modellandosi e correggendosi reciprocamente per realizzare la bellezza morale. Volere il bene dell’amico (e di sé stesso), desiderare una lunga vita per l’amico, vivere in sua compagnia e condividere con lui le stesse opinioni, le gioie e dolori sono gli assi fondamentali in cui si espleta la vera amicizia nell’ottica aristotelica. Essa è presente «[…] dovunque [vi] sia rispetto dell’altro in quanto uomo: anche tra padrone e schiavo, tra uomini che rispettano il comune lavoro, e il lavoro (quale che sia) degli altri, tra padri e figli, quando il rapporto sia da uomo a uomo. Amicizia non c’è dove sia sopraffazione, tirannide, prosopopea, prevaricazione, dove gli uomini siano individui avversi gli uni agli altri e non uomini in una res-publica» (49).
3. Tommaso d’Aquino: amicizia e caritas
Aristotele è per Tommaso d’Aquino (1225-1274) il modello per eccellenza per quanto riguarda ciò che la ragione naturale può raggiungere senza l’aiuto della grazia. Negli insegnamenti di Aristotele vi è l’esemplificazione della recta ratio. L’Aquinate accoglie e mutua da Aristotele una straordinaria quantità di contenuti, ma pensare che il Dottore Angelico sia semplicemente un ripetitore di Aristotele è fuorviante, così come è fuorviante pensare che san Tommaso abbia, in qualche modo, «battezzato» la filosofia aristotelica. Un tale giudizio è presto superato, in quanto va considerato il profondo iato fra l’Antichità e il Medioevo causato dall’irrompere del cristianesimo nella storia e dal suo successivo rapporto con le fonti filosofiche. Quando, dunque, san Tommaso tratta le tematiche filosofiche, etiche in particolare, certamente vi si trova la presenza di quello che lui stesso definisce il Filosofo, ma nello stesso tempo vi è la fondamentale novità apportata dal cristianesimo. È come se il lascito di Aristotele venisse sistematicamente, anche se non esplicitamente, sublimato alla luce della fede cristiana, nonché integrato con la lezione proveniente dagli autori di età patristica, primo tra tutti sant’Agostino d’Ippona (354-430): «l’etica sostanzialmente antropocentrica di Aristotele viene assunta dall’Aquinate, ma reinterpretata in una prospettiva teocentrica» (50). Non ne viene fuori una teologia mascherata da filosofia, bensì una straordinaria sintesi tra la fede e la ragione, tanto che è stato detto, per esempio, che «la Summa theologiae sia una delle fonti migliori che possiamo avere per la filosofia morale e, inoltre, che gli scritti di san Tommaso sull’etica siano altrettanto utili per l’ateo che per il cattolico o per un altro credente cristiano» (51). Dall’incontro tra la fede cristiana e la filosofia greca scaturisce una nuova visione antropologica: «l’uomo è uomo e non cosa o animale; […] l’uomo è altro, con una propria identità e dignità (non è schiavo, né barbaro); […] l’uomo è persona, cioè individuo razionale fondato da una relazione personale con Dio, nell’atto creatore […]. L’uomo è prossimo, cioè necessariamente e ontologicamente, mio simile in umanità, eguale in valore, amato da Dio e perciò degno di essere amato […]. Questa concezione avrà un’influenza notevole su tutto il processo di formazione della cultura occidentale» (52).
Nella trattazione della tematica dell’amicizia va proprio compresa questa originalità che è presente a partire dal nuovo contesto morale presentato dall’Aquinate. È certamente vero che anche l’etica cristiana ha una chiara direzione teleologica, ma il compimento di essa non è la semplice vita in comune nella polis, bensì la beatitudine eterna. Il bene comune è importante, ma sempre penultimo rispetto alla salvezza dell’anima e al possesso di Dio. Più che nei Commentari ad Aristotele (53), la genuinità del pensiero, anche filosofico, di Tommaso d’Aquino si riscontra nelle Summae, laddove — sicuramente in un contesto teologico — emerge una filosofia nuova che ha un fulcro determinante nella interpretazione dell’essere quale actus essendi. Nei territori di confine tra la ragione e la fede, in quell’ambito che con termine appropriato chiamiamo il «rivelabile», san Tommaso porta a compimento il percorso medievale della filosofia cristiana. A buon diritto, dunque, si può dire in relazione alla nostra tematica che «anche Tommaso scrive un Commentario all’Etica, in cui tratta della verità oggettiva della dottrina aristotelica; certamente non contiene ancora una presa di posizione autonoma (come tutti i commentari di Tommaso, esso può valere solo in modo limitato quale testimonianza della sua dottrina; l’opinione per cui rappresenterebbe il contenuto dell’etica propria di Tommaso non è stata ancora seriamente sostenuta da alcuno), ma la prepara […]. La vera e propria presa di posizione avviene nella Parte Seconda della Summa Theologiae e consiste nell’abbozzo di una teologia morale, ovvero del primo sistema scientifico di una teologia morale in generale» (54).
Tenuto conto di questo, la tematica dell’amicizia è da ricercare, nella Summa Theologiae, all’interno delle considerazioni sull’amore, che a loro volta fanno parte della riflessione sulle passioni dell’uomo. La passione si situa nella sfera degli appetiti del soggetto e comporta una mutazione corporale, che compete, quindi, solo indirettamente all’anima. La radice delle passioni è l’amore, che a sua volta ha una molteplicità di declinazioni. Esso si manifesta ovunque vi sia il desiderio di un bene ed è rapportato alla ragione: «secondo le differenti tendenze appetitive, abbiamo differenti amori» (55). L’Aquinate differenzia, guardando all’esperienza umana, un amore sensitivo e un amore intellettuale come compiacimento della volontà in un oggetto. Tenuta in considerazione la corrispondenza all’interno della natura umana fra amore e ragione, il primo ha diverse declinazioni: si differenzia in amore, quale movimento più generale; in dilezione, ovvero nella capacità dell’uomo di scegliere liberamente l’oggetto del suo amore; in carità, che è il nome dato all’inclinazione quando l’oggetto ha un valore eccezionale, alto. E, infine, vi è l’amicizia che rappresenta una vera e propria disposizione permanente dell’anima, ovverosia — riecheggiando Aristotele — un’abitudine (56). Étienne Gilson (1884-1978) sintetizza così l’ottica dell’amore in cui si muove Tommaso: «l’amore è proprio questa forza universale che vediamo operare ovunque in natura, poiché ogni cosa che agisce lo fa in funzione di un fine, e questo fine è per ciascun ente il bene che esso ama e desidera. È manifesto che qualsiasi cosa un essere possa compiere, la compie perché è mosso da un certo amore» (57). L’amore, dunque, «[…] è una passione in senso stretto, in quanto si trova nel concupiscibile; in senso lato, in quanto ha sede nella volontà» (58).
Per andare all’essenza dell’amicizia o, per meglio dire, dell’amor amicitiae, è bene, seguendo san Tommaso, che si comprenda la distinzione tra essa e la concupiscenza, fra l’amore d’amicizia e l’amor concupiscentiae. Essendo l’amicizia una variante dell’amore, essa si dirige nei confronti di qualcuno e non di qualcosa. Non diremo mai, infatti, di essere amici del vino, ma semmai che ci piace il vino. Invece, diciamo di essere amici — quindi di amare — una persona. Amare qualcuno per il sol fatto che questo qualcuno esiste, amarlo per sé stesso, è proprio ciò che Tommaso intende per amicizia: essa, quindi, punta a promuovere il bene, e il bene nel rapporto fra i due amici, poiché «l’amore naturale non è soltanto nelle facoltà dell’anima vegetativa, ma in tutte le potenze dell’anima, e persino in tutte le parti del corpo, e universalmente in tutte le cose; poiché, come Dionigi insegna: “Il bello e il bene sono amabili per tutti gli esseri; poiché ogni cosa ha una connaturalità con tutto ciò che conviene secondo la natura”» (59). L’amor concupiscentiae non è diretto al bene in sé, ma è inclinato a un bene in quanto serve a noi stessi. Tale bene, allora, deve essere utile e piacevole per me, mentre l’amicizia guarda al bene in sé, indipendentemente dalla ricaduta su sé stessi e dalla possibilità di trarne o meno un vantaggio: «il moto dell’amore ha due oggetti: il bene che uno vuole a qualcuno, a se stesso o ad altri, e il soggetto a cui vuole quel bene. Rispetto quindi al bene voluto si ha l’amore di concupiscenza, rispetto invece al soggetto a cui si vuole quel bene si ha l’amore di amicizia. Ora, questa divisione è impostata su un rapporto di priorità e di dipendenza. Infatti ciò che è amato di amore d’amicizia è amato direttamente e per se stesso; invece ciò che è amato di amore di concupiscenza non è amato in tal modo, ma è amato per un altro. Come infatti l’ente puro e semplice ha in sé il proprio essere, mentre l’ente sotto un certo aspetto è quello che ha il suo essere in altro, così il bene, che è convertibile con l’ente, è bene in modo assoluto quando è un bene per se stesso; se invece è il bene di un altro è bene sotto un certo aspetto. Quindi l’amore col quale si ama un essere volendo ad esso il bene è amore in senso pieno e assoluto; invece l’amore col quale si ama una cosa per farne il bene di altri è amore sotto un certo aspetto» (60).
Andando più in profondità, Tommaso si chiede quali siano le cause dell’amore, che è la passione appunto da cui emerge l’amicizia. La sua causa principale è il bene. La natura dell’uomo è infatti, nonostante le conseguenze del peccato originale, strutturalmente orientata al bene e si rivolge al male, non tanto perché esso si presenta come tale, ma perché dissimula apparendo come un bene. In questo contesto, Tommaso pone anche come causa dell’amore il bello. Bene e bello sono in qualche modo la stessa cosa, ma vi subentra una distinzione di ragione. Bene, bello e vero sono legati all’essere, sono sue espressioni proprie. Mentre il bene vuole l’unione, il bello vuole la vista o la cognizione. Causa prossima dell’amore, invece, è la conoscenza del bene. Pur essendo conoscenza e amore due facoltà diverse dell’uomo, esse sono collegate nel senso che senza conoscenza dell’oggetto amato l’amore non si potrebbe compiere; la conoscenza in questo caso si rivolge sia al bene che al bello con queste differenze: se rivolta a un bene o a un bello sensibile, ci troveremo dinanzi a un amore sensibile, se modulata secondo la contemplazione di oggetti spirituali ci troveremo innanzi al principio che costituisce l’amore spirituale. La conoscenza, così, è principio dell’amore, anche se questo non è commisurabile ad essa, in quanto si può amare perfettamente un oggetto che conosciamo in maniera imperfetta. L’amore verso una data scienza non presuppone che la si conosca interamente per amarla, ma basta che la conoscenza la ponga così com’è — diremmo senza ulteriori approfondimenti —, che l’amore è in grado di impadronirsene e proseguire la sua attività. La causa dell’amore, in definitiva, è il rapporto che si instaura fra l’amante e l’amato, che si rivela essere di due tipi: nel caso in cui l’amante è alla ricerca di qualcosa di cui è manchevole si parla di amor concupiscentiae. I due enti rappresentano a questo punto l’uno la potenza e l’altro l’atto. Nel caso in cui, invece, i due enti sono paritetici, o meglio ancora connaturali, sboccerà l’amicizia.
San Tommaso — certamente sulla scia di Aristotele — rivela che in fin dei conti ogni tipologia di amore diviene da quella forma di amore interessato che ogni soggetto nutre verso sé stesso, sia in presenza di connaturalità che genera l’amicizia, sia in presenza di complementarità/mancanza, che genera la concupiscenza. L’unione affettiva che giunge fino al possesso dell’amato — in ragione del fatto che amore è unione fra i due (61) — è frutto dell’amor concupiscentiae, mentre l’unione di sentimenti puramente affettiva è frutto dell’amor amicitiae. Questa unione non è meno intima della prima in quanto pone l’amico nella condizione di volere per l’altro ciò che lui stesso vuole per sé e lo ama come fosse un altro sé stesso. Ci ritroviamo ancora una volta di fronte al difficile nodo dell’amico in quanto alter ego, che rispetto al contesto aristotelico qui può essere sciolto meglio alla luce di quanto il cristianesimo è venuto a insegnare sull’amore e, soprattutto, grazie all’esemplarità dell’amore rappresentata da Cristo stesso. L’amore — molto meglio della conoscenza — mette in moto quell’intima unione fra i due, che li lega come fossero una cosa sola, e ciò è possibile non solo secondo i canali della carnalità, ma più intimamente nei canali dello spirito, di cui appunto l’amicizia è tipologia massima.
In virtù di questa intima unione l’amante è presente nella mente e nel desiderio dell’amato e viceversa. L’amico gioisce alla presenza dell’amico e se ne addolora qualora sia assente, agognando la sua presenza nel caso dell’amicizia o bramando il possesso per quanto riguarda la dinamica della concupiscenza. L’amore d’amicizia permette così di vivere in colui che si ama. In altri termini, e questo lo possiamo considerare il culmine del discorso sull’amicizia di san Tommaso, l’amicizia vera è avere un’unica volontà in due: eandem velle. Volere la medesima cosa: «è caratteristica degli amici volere le stesse cose, e delle medesime “dolersi o godere”, come dice il Filosofo [Ethic. 9, 3; Reth. 2, 4]. E così colui che ama, per il fatto che considera sue proprie le cose dell’amico, sembra essere nell’amato, e come identificato con lui. In quanto invece uno vuole e agisce per l’amico come per se stesso, considerandolo una cosa sola con se stesso, è piuttosto l’amato che viene a trovarsi nell’amante. C’è poi un terzo modo di intendere questa intimità nell’amore di amicizia, secondo una rispondenza di affetti: in quanto cioè gli amici si amano reciprocamente, e vicendevolmente si vogliono e si fanno del bene» (62). L’amante e l’amato, così, raddoppiano la propria essenza e diventano l’uno l’alter ego dell’altro. Essi, nella misura in cui si instaura un amore perfetto, hanno una sola vita. Il senso del termine alter ego in Tommaso va visto alla luce della dinamica dell’amore, che fa sì che l’amante esca da sé stesso (amore estatico) e nella sua meditazione abbia presente l’amato. L’affetto che nutriamo nei confronti dell’amico è come se cessasse di essere propriamente nostro e staccandosi da noi non brama altro che il suo bene, non mette in campo che azioni benefiche nei confronti dell’amico, se ne prende cura, lo prevede: l’amicizia è per sua natura estatica. Ciò non significa che l’io si oblii, ma che diventa possibile raggiungere quella misura evangelica dell’amore del prossimo come sé stessi: non più solo di sé stessi, ma anche dell’altro esattamente nel medesimo modo. Tommaso, quindi, analizza l’effetto collaterale di un amore così intenso: la gelosia. Se a prima vista essa è propria dell’amor concupiscentiae, in quanto il marito brama la moglie e vuole che sia solamente sua, non di meno è presente anche nell’amor amicitiae, in quanto noi ci ergiamo a difesa dell’amico, soprattutto nel caso in cui vediamo la sua reputazione danneggiata: è allora una gelosia di marca positiva, una «santa gelosia», che vuole salvaguardare l’amico dal male, o quanto meno s’impegna a deplorare il male che viene detto sul suo conto: «il fatto stesso che uno odia quanto si oppone all’amico procede dall’amore. Quindi si dice propriamente che lo zelo è effetto dell’amore piuttosto che dell’odio» (63).
Il concetto di amore, caritas o agape, introdotto dal cristianesimo, tuttavia, giunge oltre e ci permette di amare fino al punto di dare la vita per gli amici. Addirittura, Cristo dà la vita per i peccatori, ovvero per coloro che non avrebbero meritato mai — secondo i criteri della giustizia umana — alcun beneficio. Siamo innanzi a un amore che non è semplicemente di natura umana, ma è il risultato di una comunicazione di Dio all’uomo, che innalza la natura umana all’imitazione di Dio, diventa vera comunione e, quindi, rende possibile all’uomo delle attività che umanamente risulterebbero ostiche. La caritas, da questo punto di vista, è una virtù teologale che, come tale, è infusa nell’uomo da parte di Dio. Nell’ottica cristiana, allora, nell’amore che Dio comunica, l’uomo diventa capace di amare l’amico, il prossimo, l’altro così come Dio lo ama: «il valore ultimo che la rivelazione cristiana attribuisce alla carità contribuisce in modo risolutivo a strutturare l’impianto del pensiero tommasiano intorno al primato dell’amore, interpretando — con una equazione di stampo agostiniano — una volontà più o meno retta nei termini di un amore più o meno buono» (64).
Alla luce del Vangelo, san Tommaso si chiede — cosa impossibile per Aristotele — se sia ragionevole amare i nemici e sotto quali condizioni. Qui la lezione non può che venire direttamente dagli insegnamenti di Gesù, che perfezionando l’antica Legge e soprattutto interpretandola, superando la stretta misura degli scribi e dei farisei, propone quale mezzo di perfezionamento anche il fare del bene ai propri nemici. Così scrive: «Quanto il Signore disse a proposito dell’amore dei nemici […], se viene inteso come disposizione d’animo, è una norma strettamente necessaria alla salvezza: l’uomo cioè deve essere disposto a fare del bene ai nemici, e altre cose del genere, quando la necessità lo richiede. E così questa norma è posta tra i precetti. Che invece uno compia attualmente questo bene con prontezza quando non vi è una speciale necessità è materia particolare di un consiglio» (65). Questo amore non può che essere proprio quello trasfigurato dalla carità, che ci proviene direttamente da Dio. Nella misura in cui Egli ci rende a Lui simili, noi possiamo amare anche i peccatori per amor suo. Viene così completamente superata la stretta misura della reciprocità: «l’amicizia basata sull’onestà non si indirizza principalmente che alla persona virtuosa, ma in vista di essa sono amati tutti coloro che le appartengono, anche se non sono virtuosi. Ed è così che la carità, che è in sommo grado un’amicizia basata sull’onestà, si estende anche ai peccatori, che amiamo con la carità per amore di Dio» (66). Esplicita molto bene Spaemann: «“Amate i vostri nemici”, questo precetto impone di non rinunciare a percepire la realtà dell’altro nel suo esser-sé neanche quando la mia relazione con lui è di inimicizia e di guerra» (67). In altri termini, non si dice di dar ragione al nemico cedendo alle proprie posizioni, bensì di considerare sempre l’altro secondo la sua propria dignità. Ancor prima che nemico, egli è un essere umano.
Su questa scia possiamo, allora, affrontare l’ultimo nodo che, in qualche modo, rappresenta la chiave di volta del discorso sull’amicizia nella dottrina tomista: la possibilità dell’uomo di essere amico di Dio. Per san Tommaso proprio la carità è un’amicizia, e tale termine segna l’amicizia fra l’uomo e Dio: «la carità fra l’uomo e Dio, essendo un mutuo amore col volere il bene l’uno dell’altro, è amicizia» (68). Ciò è strettamente dipendente dalla visione cristiana di Dio, che Aristotele non conosceva. Il filosofo, infatti, se si fosse rivolto al mito pagano, avrebbe trovato delle divinità che erano simili agli uomini in tutto, anche nei vizi, eccetto che per la loro immortalità e soprannaturalità; se si fosse rivolto, invece, a quanto guadagnato dalla mera ragione, non avrebbe potuto procedere oltre il suo stesso «Motore Immobile», ovvero un principio da cui dipendono tutte le cose. Per il cristianesimo, Dio non solo è un principio creatore, ma è soprattutto persona, ovvero un essere razionale che ha la sostanza divina e che creando ha posto una relazione incancellabile con quanto ha creato, e in particolare con la creatura che ha fatto a sua immagine e somiglianza (cfr. Gn. 1,26). La carità, virtù teologale, esplicita anche il rapporto che vi è fra il Creatore e l’uomo. L’incarnazione del Figlio di Dio non fa altro che caratterizzare concretamente questo profondo legame fra Dio e l’uomo, tant’è che Dio stesso diviene in tutto e per tutto come una sua creatura, eccetto che nel peccato, e senza cessare misteriosamente di essere Dio. Cristo stesso porta una fondamentale novità. Egli, che è Dio, non chiama più l’uomo servo, bensì amico (Gv. 15,15): «essendoci una certa comunanza dell’uomo con Dio, in quanto questi ci rende partecipi della sua beatitudine, è necessario che su questa comunicazione si fondi un’amicizia. E di questa compartecipazione così parla S. Paolo [1 Cor 1,9]: “Fedele è Dio, dal quale siete stati chiamati alla comunione del Figlio suo”. Ma l’amore che si fonda su questa comunicazione è la carità. Quindi è evidente che la carità è una certa amicizia dell’uomo con Dio» (69).
Una tale amicizia, allora, ha bisogno di una condivisione di fini, e tale è la beatitudine eterna cui Dio chiama le sue creature. In virtù di questa condivisione la carità tiene uniti Dio e l’uomo e fa crescere in quest’ultimo il suo legame con il Creatore. Diversamente, la scelta del peccato da parte dell’uomo fa diminuire l’amicizia con il Creatore e allontana la compartecipazione alla vita eterna, che è ciò che i due nel rapporto amicale vengono a condividere. Da questo rapporto con Dio ci si rende conto di come anche il metro umano dell’amicizia venga animato internamente dalla carità. Potremmo dire che in questa nuova concezione dell’amicizia di marca cristiana vi è la dottrina aristotelica, passata attraverso il fuoco della purificazione della Rivelazione, che san Tommaso ha saputo porgere tributando il giusto merito al Filosofo, senza mai venir meno alle significative esigenze del credente.
Nell’ordine dei rapporti interpersonali e sociali, dunque, l’amicizia appare non come una semplice virtù, ma come una virtù speciale, capace di trattare situazioni e persone secondo quanto loro dovuto alla luce dell’amore di Dio. Se la carità è la forma delle virtù (70), a maggior ragione essa, nel contesto filosofico cristiano, diventa la forma dell’amicizia. In quest’ottica, la relazione d’amicizia consente di «[…] sperimentare un’armonia nelle relazioni interpersonali, essenziale alla vita attiva e contemplativa, svolgendo un importante collegamento fra dimensione personale e comunitaria: chi è capace di aiutare gli altri a realizzare il loro bene è più perfetto di chi persegue unicamente il proprio» (71).
4. Consigli circa la pratica dell’amicizia
La verità dell’amicizia sta nella sua pratica. È interessante guardare, infine, all’esperienza umana concreta, alle sue molteplici sfaccettature, e cercare di comprendere come possa essere esercitata una virtù fra le più significative della vita in comune. Il luogo per raggiungere una tale dimensione non può che essere quello che si colloca nell’ambito della spiritualità, intesa quale cammino interiore di miglioramento del proprio sé e in un’ottica cristiana, di imitazione di Cristo, per giungere alla visione beatifica di Dio.
Tanti sono, in questo ambito, i sentieri che si possono seguire, e sicuramente ognuno potrà approntare il proprio; tuttavia, non si può non far tesoro della grande tradizione della spiritualità che, attraverso le sue svariate scuole, ha indicato vie concrete a partire dall’analisi dell’esperienza interiore dell’uomo. Tenuto conto di ciò, ci lasceremo guidare sull’argomento da un importante padre spirituale del secolo XVII, san Francesco di Sales, e in particolare dalla trattazione dell’amicizia che offre nell’ambito della sua Filotea. La Filotea è un piccolo libro che dal 1608 a oggi ha visto susseguirsi più di milletrecento edizioni in ragione del fatto che ha saputo individuare delle costanti fondamentali in ordine all’esperienza spirituale dell’uomo in quanto tale. Non si tratta di un manuale rivolto a religiosi, bensì di un vademecum spirituale rivolto ai laici, ovvero a coloro che giornalmente vivono le vicissitudini della vita del mondo, affinché possano essere aiutati a raggiungere l’Amore con amore. Scrive il pensatore colombiano Nicolás Gόmez Dávila (1913-1994): «L’Introduction à la vie dévote di San Francesco di Sales e le Chroniques di Froissart [Jean, 1337 ca.-1405 ca.] ci introducono a stili di vita estranei a questo tempo: la vita come “devozione”, la vita come “prodezza”. Due modi di sentire la vita come gioiosa esaltazione virile, come un garrire di bandiere all’aurora» (72). Devozione, infatti, è una parola che racchiude la perfezione cui deve anelare l’anima, ovvero la pratica assidua dell’amore di Dio, la carità quale costante virtù, che permette all’uomo di unirsi sin dalla vita terrena alla vita divina. In altri termini, san Francesco di Sales ha spiegato che essa «non è altro che l’inclinazione generale e la prontezza dello spirito a fare quello che stimiamo gradito a Dio» (73). Un tale cammino non è certo agevole e prevede un discernimento dei desideri e, quindi, dei vari moti dell’anima, nonché un continuo combattimento spirituale, non solo per superare le tendenze insite nella parte istintuale dell’uomo, ma anche per agire contro la spinta al male orchestrata da Satana, che in tutti i modi cerca di confondere l’uomo e farlo deviare dalla piena realizzazione. Nella terza parte dello scritto l’autore offre proprio dei consigli concreti per poter praticare le virtù e «l’amicizia è uno dei valori maggiormente evidenziati in tutto l’arco della sua vita» (74).
La prima grande distinzione che san Francesco di Sales opera, a tal proposito, è quella fra cattiva amicizia e amicizia vera. Se da un lato si mette in luce come vi sia un abisso qualitativo fra i due rapporti, dall’altro lato si fa notare come il passaggio da un’amicizia virtuosa a un’amicizia cattiva è molto repentino e allo stesso tempo, a volte, impercettibile. Ciò avviene perché sulla giusta e reciproca comunicazione fra i due amici insiste una sorta di tentazione a non puntare più alla virtù, ma al piacere che l’altro può procurare (75). Ciò avviene più sovente — secondo san Francesco di Sales — in amicizie fra l’uomo e la donna, laddove, riecheggiando san Tommaso d’Aquino, l’amor amicitiae può mutarsi in amor concupiscentiae e quindi bisogna essere ben vigili per porre argini e custodire la vera amicizia, non solo da deviazioni semplicisticamente umane, ma anche dalla mistificazione che giunge dallo stesso Satana. Colui che fu all’origine delle disgrazie di Giobbe è pronto a istigare e a mettere in confusione i termini virtuosi del rapporto amicale. «Si comincia sempre dall’amore virtuoso, ma se non si è molto saggi, si insinua presto l’amore frivolo, poi si passa all’amore sensuale, poi a quello carnale; il pericolo esiste perfino nell’amore spirituale, se non si fa molta attenzione; benché in questo sia molto più difficile la confusione e l’equivoco, perché la sua purezza e il suo nitore rendono più evidenti le brutture che Satana vuole insinuarvi: ecco perché il diavolo, quando ci prova fa le cose con maggior finezza e tenta di far scivolare le brutture quasi impercettibilmente» (76).
Sicuramente nelle pagine di Filotea si sente l’eco — quando non vi è la citazione esplicita — di Aristotele e di san Tommaso, ma nelle pagine salesiane primeggia la grande attenzione soprattutto nei confronti dei processi interiori, sia per smascherare l’amicizia interessata o che si è pervertita rispetto alle iniziali buone intenzioni, sia per rafforzare ed elogiare l’amicizia vera, che costituisce un tesoro per chi ha il dono di poterla vivere.
L’insistente metafora che viene offerta riguarda un genere particolare di miele che esiste ad Eraclea del Ponto: esso è nocivo, ma difficilmente distinguibile dal miele commestibile; una volta ingoiato, provoca dei capogiri, annebbia la vista, lascia in bocca un forte sapore di amaro. Così l’amicizia mondana scimmiotta quella vera e conduce le persone a un rapporto meramente materiale. L’amicizia, di per sé, è soprattutto uno scambio consapevole di amore fra i due soggetti: «l’amicizia richiede un intenso scambio tra coloro che si vogliono bene: diversamente non può nascere e nemmeno mantenersi» (77). Bisogna allora, riflettere con mente pura e vagliare quali siano i beni che s’intende scambiare. Se tutti sono veri, la risultante sarà una vera amicizia; se, invece, i beni sono frivoli l’amicizia sarà cattiva e si trasformerà in una «passioncella», ossia in ciò che oggi si definisce flirt. Un tale genere di riflessione, centrato sul vissuto della persona, pone un problema più che mai attuale, soprattutto in relazione alle giovani generazioni, che spesso sono disorientate nel porre una disciplina ai sentimenti, venendone travolti, producendo quindi situazioni spiacevoli e vivendo passioni tristi, che sfociano addirittura nel procurare la morte alla persona amata (78). Dal momento che «i sentimenti sono piuttosto incostanti, non possono, di conseguenza, determinare in modo durevole i rapporti tra due persone. È indispensabile trovare dei mezzi che possano permettere ai sentimenti non solo di imboccare il sentiero della volontà, ma, cosa più importante, possono far nascere quella unità di voleri (unum velle) che fa sì che due “io” diventino un solo “noi”. E quest’unità si trova proprio nell’amicizia» (79). L’amicizia non autentica, verbosa e melliflua, «[…] fondata sullo scambio del piacere dei sensi, è grossolana e non merita il nome di amicizia; così pure quella fondata su virtù frivole e inutili, perché sono virtù che dipendono dai sensi» (80). Essa è lungi dall’essere durevole e comunque dall’infondere virtù e felicità. Un tale tipo di amicizia si fonde come neve al sole.
Ponendosi allora davanti all’altro, nella misura in cui si vuole cogliere un rapporto autentico, occorre esaminarsi non su che cosa l’altro fa accadere in me, bensì su chi sia l’altro da un punto di vista della virtù. Se non vi è una tale attenzione continua, certamente si sarà trascinati da forme di approccio egoistico, che fanno primeggiare movimenti meramente istintuali, a scapito del rispetto del valore integrale della persona. Una tale dinamica risulta «il giocattolo delle corti, ma la peste dei cuori» (81). La vera amicizia, per converso, se da un lato sopporta le imperfezioni dell’amico, dall’altro lato non può tollerare che le venga proposta una via di peccato, in quanto si trasformerebbe in uno strumento che favorirebbe il vizio in comune e non le virtù. In questo caso, «l’amico diventa nemico quando vuole condurci al peccato e merita di perdere l’amicizia se vuol condurre l’amico alla rovina e alla dannazione; una delle prove più sicure di una falsa amicizia è vederla praticata tra persone viziose, qualunque sia il genere di peccato che le accomuna» (82). Per questo bisogna poter vincere per tempo l’inganno, vagliando il cuore di chi si propone come amico senza fermarsi alla superficie: «molti fanno professione di voler essere virtuosi filosoficamente, ma, in realtà, non sono virtuosi in nessun modo. Costoro non sono altro che fantasmi di virtù che, con un contegno cerimonioso e un fiume di parole, nascondono la loro vita cattiva e i loro umori agli occhi di coloro con i quali devono trattare» (83).
Date queste premesse, un’amicizia autentica sembrerebbe difficilmente realizzabile, ma san Francesco di Sales insiste sul fatto che una vera amicizia non solo è possibile, ma è soprattutto necessaria: «può darsi che qualcuno ti dica che non bisogna avere alcun genere di particolare affetto o amicizia, perché ciò ingombra il cuore, distrae lo spirito, dà luogo ad invidie; ma si sbagliano […]. Per coloro che vivono tra la gente del mondo e abbracciano la vera virtù, è indispensabile stringere un’alleanza reciproca con una santa amicizia; infatti appoggiandosi ad essa, ci si fa coraggio, ci si aiuta, ci si sostiene nel cammino verso il bene» (84). Infatti, nel cammino verso la beatitudine eterna gli ostacoli non sono pochi, provengono da ogni dove e impegnano l’uomo a una continua vigilanza. Un tale tipo di battaglia, a parte evidentemente alcune eccezioni, non può essere condotta in solitudine. La stessa Sacra Scrittura ammonisce «guai a chi è solo» (Qo 4,10) ed esorta alla scelta degli amici; anzi, ancora di più, essi sono considerati una benedizione da parte di Dio: «un amico fedele è un balsamo di vita, lo troveranno quanti temono il Signore. Chi teme il Signore è costante nella sua amicizia» (Sir. 6,16-17). Su questa scia, l’appassionato autore della Filotea si convince che «chi teme Dio incontrerà una buona amicizia», ma allo stesso tempo che «l’amicizia di questo mondo è nemica di Dio» (85). Egli consigliava a un giovane, che avrebbe dovuto trasferirsi e quindi lasciare la casa paterna: «sarà molto importante che vi procuriate qualche amico delle vostre idee col quale possiate confidarvi, trovando in lui comprensione e incoraggiamento. È una grande verità che la familiarità con coloro che hanno un’anima molto retta serve immensamente a rettificare e a conservare nella rettitudine la nostra» (86).
Lo stesso san Francesco di Sales, pertanto, ebbe a praticare amicizie intense durante la sua vita, anche nei confronti di alcune donne, fra cui santa Giovanna Francesca Frémyot de Chantal (1572-1641), considerata una figlia prediletta. Da un tale rapporto — è stato scritto — emerge «un modello stupendo e sempre attuale di profonda amicizia spirituale» (87). Tutti, infatti, vanno amati con grande amore di carità: Francesco era tenero con le persone sincere e oneste, ma consigliava di legarsi «[…] in un rapporto di amicizia soltanto con coloro che possono operare con te uno scambio di cose virtuose. Più le virtù saranno valide, più l’amicizia sarà perfetta» (88). L’eccellenza delle «cose virtuose» che gli amici hanno da scambiarsi risiede in un affetto e in una condivisione spirituale che innalza l’anima, puntando direttamente a Dio. Su questa scia, il teologo spagnolo Antonio Royo Marín O.P. (1913-2005) ha scritto: «lo stimolo di un vero amico è uno dei più efficaci per il dominio di se stessi e la pratica del bene» (89).
Un’amicizia vera, pienamente umana, come descritta da Aristotele, animata dalla carità come ci ha fatto conoscere Tommaso e vagliata alla luce del fine ultimo dell’anima umana, che è l’unione con Dio, non può che procurare importanti vantaggi: «[…] quello di trovare in un amico un consigliere intimo, al quale confidiamo i problemi della nostra anima perché ci aiuti a risolverli; un prudente correttore, che ci dirà la verità sui nostri difetti e ci impedirà di commettere innumerevoli imprudenze; un consolatore, infine, che ascolterà con bontà le nostre pene e troverà nel suo cuore le parole opportune per addolcirle» (90).
Amicizia vera per san Francesco vuol dire, perciò, amicizia spirituale, ovvero una dimensione in cui «due o tre o più persone si scambiano la devozione, gli affetti spirituali e diventano realmente un solo spirito. A ragione quelle anime felici possono cantare: com’è bello e piacevole per i fratelli abitare insieme. Ed è vero, perché il delizioso balsamo della devozione si effonde da un cuore all’altro con una comunicazione ininterrotta, di modo che si può veramente dire che Dio ha effuso la sua benedizione e la sua vita su simile amicizia per i secoli dei secoli» (91).
Seguendo, allora, un tale sentiero spirituale, si guarda al rapporto d’amicizia non più con occhi umani, per quanto la morale umana abbia sicuramente il suo spazio, ma si cerca di penetrare la verità del rapporto attraverso gli occhi di Dio, cioè scrutando la sua volontà. Se Dio potrà dire bene di quel rapporto di amicizia, esso vedrà la sua piena realizzazione, viceversa scadrà in un’amicizia mondana. L’amicizia sana, di conseguenza, si raggiunge attraverso uno sguardo limpido, non si nutre di atti di cortesia smodati ma schietti, è onesta e riverbera sulla terra la comunione dei beati. Compiere un cammino di perfezione non significa, pertanto, non avere amici, ma saper costruire con saggezza amicizie buone, sante e belle.
Daniele Fazio
Note:
1) Cfr. Jean-François Lyotard (1924-1998), La condizione postmoderna. Rapporto sul sapere, 1979, trad. it., Feltrinelli, Milano 2004.
2) Zygmunt Bauman, La società individualizzata, trad. it., il Mulino, Bologna, 2001, p. 159.
3) Aldo Cazzullo, Una società a coriandoli. De Rita spiega 10 anni d’Italia, in Corriere della Sera, Milano 25-8-2007.
4) CENSIS, 41° Rapporto annuale sulla situazione del Paese 2007. Considerazioni generali, Franco Angeli, Milano 2007, p. 6.
5) Cfr. Idem, 51° Rapporto annuale sulla situazione del Paese 2017. Considerazioni generali, Franco Angeli, Milano 2017.
6) Idem, 52° Rapporto sulla situazione del Paese 2018. Considerazioni generali, Franco Angeli, Milano 2018, p. 3.
7) Cfr. Istituto Nazionale di Statistica, Rapporto annuale 2022. La situazione del Paese, ISTAT, Roma 2022.
8) Cfr. Benedetto XVI (2005-2013), Discorso «Fede, ragione e università». Ricordi e riflessioni» in occasione dell’incontro con i rappresentanti della scienza nell’Aula Magna dell’università di Regensburg, del 12-9-2006.
9) Aristotele, Politica, I, 2, 1153 a 2-3. Il testo di riferimento per tutte le citazioni aristoteliche è Aristotele, Etiche. Etica Eudemea. Etica Nicomachea. Grande Etica, trad. it., a cura di Lucia Caiani, con Introduzione di Francesco Adorno (1921-2010), UTET, Torino 1996.
10) Cfr. Idem, Etica Nicomachea (EN), IX, 1166 a.
11) Pedro Laín Entralgo (1908-2001), Teorίa y realidad del otro, Alianza Universidad, Madrid 1983, p. 28.
12) Con un tale sintagma il filosofo tedesco Robert Spaemann (1927-2018) traduce il termine aristotelico eudaimonia: «secondo questa traduzione infatti la vita appare come un compito da assolvere oggettivamente, potendo benissimo accadere che qualcuno svolga tale compito bene e in maniera corretta sebbene egli sia erroneamente dell’opinione di averlo portato a termine malamente» (Robert Spaemann, Felicità e benevolenza, trad. it., Vita e Pensiero, Milano 1998, p. 39).
13) Non meno importanti dei riferimenti filosofici e religiosi presenti nel testo, fra tutti, sono infatti il Laelius seu de Amicitia di Marco Tullio Cicerone (106-43 a.C.) e il trattato sull’Amicizia spirituale di Aelredo di Rievaulx (1100-1167).
14) EN, VIII, 2, 1155a 30.
15) Gennaro Cicchese [O.M.I.], I percorsi dell’altro. Antropologia e storia, Città Nuova, Roma 1999, p. 57.
16) Fra gli studi più significativi cfr. André-Jean Voelke (1925-1991), Le problème d’autrui dans le pensée d’Aristote, in Revue de théologie et de philosophie, anno IV, Ginevra 1954, pp. 262-282; Pierre Aubenque (1929-2020), L’amicitié chez Aristote, in L’homme et son prochain, Actes du VIII Congrès des societés de philosophie de langue franςaise (Tolosa 6/9-9-1956), Presses universitaires de France, 2018, pp. 251-254; Manfred Landfester, Das griechische Namen «philos» und seine Ableitungen, Olms, Hildesheim 1966; Arthur W. H. Adkins (1929-1996), «Friendship» and «Self-Sufficiency» in Homer and Aristotle, in The Classical Quarterly, anno XIII, n. 1, Cambridge University Press, maggio 1963, pp. 30-45; Antonio Jannone (1906-2007), L’amicizia e la socialità, in Riccardo Campa (a cura di), La società civile e la società politica nel pensiero di Aristotele, Atti dell’omonimo Convegno internazionale (19-21 giugno 1996), Centro Nazionale di Filosofia Antica «Antonio Jannone», Roma 1998, pp. 13-26; Aryeh Kosman (1935-2021), Aristotle on the Desiderability of Friends, in Ancient Philosophy, anno 24, n. 1, primavera 2004, pp. 135-154; Vincenzo Massimo Majuri, Il concetto di «amicizia» nell’«Etica a Nicomaco» di Aristotele, in Itinerarium. Rivista multidisciplinare dell’Istituto teologico «San Tommaso»-Messina, anno 18, 2010, n. 45, pp. 83-91, e n. 46, pp. 87-104.
17) EN, VIII, 1, 1155a 5.
18) Grande Etica (GE), II, 11, 1208 b 5.
19) «Oggetto della nostra ricerca non è allora né l’amicizia verso Dio, né quella verso gli esseri inanimati, bensì quella verso gli esseri animati e in particolare, verso quelli nei quali esiste la corresponsione dell’amicizia» (ibid., II, 11, 1208 b 5).
20) Nell’Etica Eudemea Aristotele è più disposto a raffrontare il rapporto amicale con la dinamica della giustizia, sottolineando l’importanza della reciprocità, che però viene stabilita all’interno di regole che richiamano la declinazione del giusto: «ricercare come si deve stare in intimità con l’amico è ricercare un certo tipo di giusto. Ed infatti il giusto nella sua interezza è in relazione con l’amico» (EE, VII, 10, 1242 a 20).
21) «Se poi gli uomini sono amici, non c’è affatto bisogno della giustizia, mentre se sono giusti hanno bisogno in più dell’amicizia e si ritiene che la massima espressione di giustizia abbia la stessa natura dell’amicizia» (EN, VIII, 1, 1155 a 25).
22) «Tre sono dunque le specie dell’amicizia, uguali per numero alle cose che possono essere oggetto di amicizia, poiché per ciascuna specie esiste uno scambio di affetto che non rimane nascosto, e coloro che sono amici reciprocamente vogliono ciò che è buono per l’uno e per l’altro in base alla specie di amicizia secondo la quale sono amici» (ibid., VIII, 3, 1156 a 5).
23) Ibid., 1156 a 20.
24) Ibid., 1156 b 35.
25) EE, VII, 2, 1236 b 1-5.
26) Ibid., VII, 10, 1243 b 15.
27) «Colui che dunque è amico in base a ciò che è piacevole non ama secondo l’amicizia conforme al bene, e neppure colui che è amico secondo l’utile; ma queste forme di amicizia — quella secondo il bene, quella secondo ciò che è piacevole e quella secondo l’utile — non sono identiche, ma neppure completamente estranee le une alle altre, bensì derivando dalla stessa fonte, sono in un certo qual modo connesse» (GE, II, 11, 1209 a 20).
28) EN, VIII, 4, 1156 b 5-15. In altro contesto Aristotele scrive: «L’amicizia più salda, più stabile e più bella è quella che si ha tra gli uomini virtuosi, cioè quella conforme alla virtù e al bene, ovviamente. Infatti la virtù, grazie alla quale si ha l’amicizia, è una cosa immutabile, cosicché è ovvio che sia immutabile l’amicizia siffatta, mentre ciò che è vantaggioso non è mai la stessa cosa: perciò l’amicizia dovuta al vantaggio non è salda, bensì muta insieme a ciò che è vantaggioso; similmente anche per l’amicizia fondata sul piacere» (GE, II,11, 1209 b 15).
29) Cfr. R. Spaemann, Felicità e benevolenza, cit.
30) «La benevolenza è principio dell’amicizia: ogni amico è benevolo, mentre non ogni benevolo è un amico, poiché colui che è benevolo soltanto è simile a chi comincia. Perciò la benevolenza è principio dell’amicizia, ma non è amicizia» (EE, VII,7, 1241 a 10).
31) EN, IX, 5, 1167 a 10.
32) EE, VII, 8, 1241 a 30.
33) EN, IX, 6, 1167 b 35 – 5.
34) Ciò è detto principalmente in relazione all’amicizia tra diseguali: «questa amicizia nell’ineguaglianza è secondo proporzione. Infatti nel dare un bene nessuno ne darebbe una parte uguale a colui che è migliore ed a colui che è peggiore, bensì ne darebbe sempre una parte uguale a colui che è migliore ed a colui che è peggiore, bensì ne darebbe sempre una parte più grande a colui che è superiore. Questa è l’uguaglianza dovuta a proporzione, poiché in un certo senso colui che ha il bene minore, essendo peggiore, è in condizione di uguaglianza rispetto a chi ne ha uno più grande essendo migliore» (GE, II,11, 1211 b 10-15).
35) «Tre sono le specie di costituzioni ed altrettante le loro deviazioni, cioè le forme di corruzione. Le costituzioni sono il regno, l’aristocrazia e terza quella fondata sul censo, che è evidentemente appropriato chiamare “timocrazia” e che invece la maggior parte degli uomini è solita chiamare “politìa”. La migliore di esse è il regno, la peggiore, invece, è la timocrazia. La deviazione del regno è la tirannide […]. Dall’aristocrazia si passa all’oligarchia […]. Dalla timocrazia si ha il passaggio alla democrazia; esse sono contigue, perché la timocrazia vuole essere governo della maggioranza, e tutti quelli compresi nel censo sono uguali. La democrazia è la cosa meno cattiva, perché essa devia di poco dalla specie della “politìa”» (EN, VIII, 4, 1156 b 5).
36) «Tutte le costituzioni coesistono […] nell’amicizia familiare: regale è il potere del padre, aristocratico il rapporto tra marito e moglie, una repubblica quello tra fratelli; invece sono degenerazioni di questi rapporti la tirannide, l’oligarchia e la democrazia» (EE, VII, 9, 1241 b 30). Cfr. Mauro Ronco, La questione istituzionale dopo l’Unità d’Italia, in Cristianità, anno XL, n. 363, gennaio-marzo 2012, pp. 13-37 (pp. 13-15), e Félix Adolfo Lamas, La concordia politica. La causa efficiente dello Stato, in Cristianità, anno XL, n. 366, ottobre-dicembre 2012, pp. 33-47.
37) EN, VIII, 12, 1160 a b 30-20.
38) Ibid., 13, 1161 a 10.
39) Ibid., IX, 4, 1166 a 10-20.
40) GE, II,11, 1211 a 35.
41) EN, IX, 8, 1169 a 25.
42) GE, II,11, 1210 b 35.
43) Ibid., 14, 1212 b 15.
44) «Poiché dunque conoscere se stessi è la cosa più difficile, come hanno detto anche alcuni filosofi, ed anche la più piacevole (infatti conoscere sé è piacevole), noi non siamo in grado di contemplarci da noi stessi […]; allora proprio ogni volta che vogliamo vedere il nostro stesso aspetto lo vediamo guardandolo allo specchio, similmente quando vogliamo conoscere noi stessi, ci possiamo conoscere guardando il nostro amico: l’amico è infatti, come affermiamo, un alter ego» (ibid., II,15, 1213 a 15-25).
45) «È opinione comune che coloro che hanno molti amici e che trattano familiarmente tutti non siano amici di nessuno, tranne che se si tratta di legame tra cittadini, e sono coloro ai quali si dà anche il nome di “compiacenti”» (EN, IX, 8, 1171 a 15).
46) EE, VII, 2, 1237 b 10.
47) Ibid., 1238 a 1-5.
48) «L’amicizia è infatti una comunità e come uno si comporta con se stesso, così si comporta anche verso l’amico; riguardo a se stessi, la percezione del fatto di esistere è cosa degna di scelta ed appunto lo è anche riguardo all’amico; ma l’attuazione di essa si ha nel vivere insieme, cosicché è naturale che gli amici vi tendano» (EN, IX, 8, 1171 b 35).
49) Francesco Adorno, Introduzione, in Aristotele, Etiche. Etica Eudemea. Etica Nicomachea. Grande Etica, cit., pp. 8-25 (p. 23).
50) Angelo Campodonico, Integritas. Metafisica ed etica in san Tommaso d’Aquino, Nardini, Fiesole 1996, p. 170. Ha scritto, su questa scia, monsignor Antonio Livi (1938-2020): «[…] la morale tommasiana è coerentemente inserita in un sistema ordinato, in cui i valori umani trovano la loro sublimazione in quelli divini; qui l’anima raggiunge il fine ultimo, la felicità piena, il Sommo Bene, Dio. Si ha così la sintesi del pensiero morale classico, inteso da Tommaso come necessario fondamento umano, e quello cristiano, elevazione e deificazione per mezzo delle virtù teologali, delle quali la carità, intesa come dono totale di sé a Dio e al prossimo, è la più importante, perché la sua piena attuazione comprende e presuppone le altre» (Tommaso d’Aquino. Il futuro del pensiero cristiano, Mondadori, Milano 1997, p. 126).
51) Philippa Foot (1920-2010), Virtù e vizi,1978, trad. it., il Mulino, Bologna 2008, p. 4.
52) G. Cicchese, op. cit., p. 95.
53) Cfr. il Commentario tommasiano dell’etica aristotelica, Tommaso d’Aquino, Commentarium in X libros Ethicae Nicomacheae, trad. it., Pirotta, Torino 1934.
54) Wolfgang Kluxen (1922-2007), L’etica filosofica di Tommaso d’Aquino, 1964, trad. it., Vita e Pensiero, Milano 2005, p. 29.
55) Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, I-IIæ, q. 26 a. 1.
56) «Ci sono quattro termini che in qualche modo si riferiscono alla stessa cosa: amore, dilezione, carità, amicizia. Differiscono però in questo, che l’amicizia, secondo il Filosofo “è piuttosto un abito”, invece l’amore e la passione indicano l’atto, o la passione; la carità si può prendere nell’uno senso o nell’altro. Tuttavia, l’atto viene indicato in maniera differente da queste tre ultime voci. Amore è più generico: infatti ogni dilezione o carità è amore, ma non viceversa. Poiché la dilezione come dice il nome stesso, aggiunge al concetto di amore l’elezione che lo precede. Perciò la dilezione non è nel concupiscibile, ma soltanto nella volontà, e nel solo essere ragionevole. La carità aggiunge una perfezione nell’amore, in quanto l’oggetto amato si considera cosa di grande valore, come di nome stesso (carità da caro) sembra indicare» (ibid., q. 26 a. 3).
57) Étienne Gilson, Il tomismo. Introduzione alla filosofia di San Tommaso d’Aquino, 1919, trad. it., Jaca Book, Milano 2011, p. 462.
58) Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, I-IIæ, q. 26 a. 2. Bisogna evidentemente tenere presente che «una volontà che non asseconda il retto ordine della ragione è sempre mala; sperimenta cioè un rapporto di tipo difettivo con quella perfezione in cui può conseguire la pienezza dell’essere e quindi dell’unità, della verità, e del bene» (Luigi Alici, Filosofia morale, La Scuola, Brescia 2011, p. 140).
59) Ibid., I-IIæ, q. 26 a. 1.
60) Ibid., q. 26 a. 4.
61) «L’unione è propria dell’amore, per il fatto che l’appetito, mediante la compiacenza, fa sì che colui che ama stia all’oggetto amato come sta a se stesso, o ad una sua parte. Perciò è evidente che l’amore non è la stessa relazione d’unione, essendo l’unione un effetto dell’amore» (ibid., q. 26 a. 2).
62) Ibid., q. 28 a. 2.
63) Ibid., q. 28 a. 4.
64) L. Alici, op. cit., p. 142.
65) Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, I-IIæ, q. 108 a. 4.
66) Ibid., q. 23 a. 1.
67) R. Spaemann, op. cit., p. 129.
68) Giacomo Dal Sasso O.P. e Roberto Coggi O.P., Compendio della Somma Teologica di San Tommaso d’Aquino, Edizioni Studio Domenicano, Bologna 1996, p. 206.
69) Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, II-IIæ, q. 23 a. 1.
70) Cfr. ibid., q. 23 a. 8
71) L. Alici, op. cit., p. 142.
72) Nicolás Gόmez Dávila, In margine ad un testo implicito, a cura di Franco Volpi (1952-2009), trad. it., Adelphi, Milano 2001, p. 121.
73) Francesco di Sales, Lettere di amicizia spirituale, a cura e con Introduzione di Andrè Ravier S.J., trad. it., Paoline, Cinisello Balsamo (Milano) 2003, p. 174.
74) A. Ravier S.J., Introduzione, ibid., pp. 5-21 (p. 9).
75) Su una tale differenziazione ha molto insistito Karol Wojtyła (1920-2005) — Papa san Giovanni Paolo II (1978-2005) —, non solo per quanto riguarda il rapporto dell’uomo con la donna e quindi l’amore sponsale, ma anche analizzando i rapporti interpersonali, fra cui spicca quello dell’amicizia, che non si deve confondere con la mera simpatia: «l’unione dell’amicizia non è l’unione della simpatia. Questa si basa unicamente sull’emozione e sul sentimento: la volontà si limita ad acconsentirvi. Nell’amicizia, è la volontà stessa che è impegnata. Ecco perché l’amicizia prende realmente possesso dell’uomo tutto intero: rappresenta la sua opera, implica la scelta della persona, dell’altro “io” verso il quale si orienta» (Karol Wojtyła, Amore e responsabilità. Studi di morale sessuale, 1960, trad. it., in Idem, Metafisica della Persona. Tutte le opere filosofiche e saggi integrativi, Bompiani, Milano 2003, p. 548).
76) F. di Sales, Filotea. Introduzione alla vita devota, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo (Milano) 2000, p. 190.
77) Ibid., p. 196.
78) «Accanto a nuove discipline legate allo sviluppo tecnologico, come l’informatica, o a quelle connesse alle tendenze comunicativo-linguistiche a opera della globalizzazione, come lo studio dell’inglese, bisognerà che si cominci a pensare all’opportunità che a scuola si insegni anche la “disciplina dei sentimenti”. Intesa nel suo duplice significato semantico di materia di riflessione e di studio, che coinvolga le scienze umane — dalla psicologia alla filosofia, dalla psicanalisi alla sociologia —, e di “orientamento” nella complessa e necessaria formazione personale ai legami affettivi. Le giovani generazioni, infatti, appaiono sempre più disarmate e sprovviste di strumenti psicologici e spirituali, volti a quella che tradizionalmente veniva chiamata “formazione del carattere”, quell’insieme di motivazioni, di desideri, di impulsi che vanno accolti, disciplinati, e infine metabolizzati nel patrimonio personale di crescita, così da prepararsi all’incontro con il mondo affettivo dell’altro, che viene veicolato “anche” attraverso la scoperta dell’altro sesso. Non è certo questione di moralismo spicciolo, o di generico appello ai valori tradizionali, se si ritiene urgente allargare l’àmbito dell’educazione — soprattutto familiare e scolastica — all’intero ventaglio dei sentimenti e degli affetti, gli autentici volani per una più consapevole pratica della propria sessualità» (Paola Ricci Sindoni, I profilattici, lezione sbagliata in un liceo di Roma. Che a scuola trovi spazio la «disciplina dei sentimenti», in Avvenire. Quotidiano di ispirazione cattolica, Milano 11-3-2010).
79) K. Wojtyła, op. cit., p. 551.
80) F. di Sales, Filotea. Introduzione alla vita devota, cit., p. 181.
81) Ibid., p. 186.
82) Ibid., p. 198.
83) Ibid., p. 161.
84) Ibid., p. 188.
85) Ibid., p. 198.
86) Idem, Lettere di amicizia spirituale, cit., p. 162.
87) A. Ravier S.J., Introduzione,cit., p. 13.
88) F. di Sales, Filotea. Introduzione alla vita devota, cit., p. 186.
89)Antonio Royo Marín O.P., Teologia della perfezione cristiana, 1943, trad. it., Paoline, Cinisello Balsamo (Milano) 2011, p. 975.
90) F. di Sales, Lettere di amicizia spirituale, cit., p. 974.
91) Idem, Filotea. Introduzione alla vita devota, cit., p. 187.