Domenico Airoma, Cristianità n. 417 (2022)
Dispensa predisposta per la relazione, avente medesimo titolo, tenuta il 4 agosto 2022 alla Scuola Estiva San Colombano organizzata da Alleanza Cattolica dal 1° al 6 agosto a Fornovo di Taro, in provincia di Parma, sul tema San Giovanni Paolo II. Il suo Magistero e la Nuova Evangelizzazione.
1. Chiesa e mafia prima di Giovanni Paolo II
- Il silenzio
Molteplici sono le ragioni di carattere storico e sociologico che possono valere a spiegare il silenzio tenuto dalla Chiesa siciliana sulla mafia, almeno fino agli anni Ottanta del secolo scorso (1).
In primo luogo, la Chiesa condivideva un atteggiamento di generale sottovalutazione del fenomeno, proprio anche delle istituzioni e delle autorità civili che anzi, spesso, vedevano nei mafiosi dei preziosi alleati per il mantenimento dell’ordine pubblico (2).
In secondo luogo, non è da trascurare lo sguardo, se non proprio di simpatia, quanto meno di non ostilità nei confronti dei mafiosi, considerati come «protettori»delle comunità rispetto a uno Stato post-unitario, percepito come ostile, politicamente e culturalmente (3). Il mafioso era, in fin dei conti, il «male minore», rispetto a un contesto dominato da una borghesia laicista e minacciato dall’avanzata marxista. A ciò deve aggiungersi una caratterizzazione spiccatamente localistica assunta dal clero siciliano, sempre più «municipale», cioè composto da preti che svolgevano il proprio ministero nei paesi dei quali erano originari, sì da condizionarli inevitabilmente nel giudizio dei propri compaesani mafiosi (4).
Entrambi gli atteggiamenti erano favoriti, indubbiamente, da quella che qualcuno ha definito «evangelizzazione debole», una condizione che accomunava l’intera Chiesa italiana e soprattutto quella centro-meridionale, rinchiusasi nella dimensione liturgico-spirituale dopo la Rivoluzione risorgimentale.
Vi è, poi, chi ha spiegato tale silenzio ricollegandolo a una sorta di comunanza culturale con il fenomeno mafioso. La Chiesa o, meglio, gli ecclesiastici e i mafiosi condividevano, secondo tale assunto, la medesima mentalità: entrambi sarebbero espressioni della «sicilianità», di quella «insularità d’animo»che sarebbe l’humus culturale dell’omertà e di una certa rassegnazione fatalistica (5).
1.2 La denuncia
Al silenzio ha fatto seguito, in una parte non maggioritaria del clero, una fase di denuncia, caratterizzata dal fatto, però, che la Chiesa, se prima era silente, incominciava sì a parlare, ma utilizzando parole non sue, prese in prestito dal mondo di sinistra, osteggiato, sia pure per ragioni di controllo del territorio, dalla mafia.
Insieme alle parole, quella Chiesa iniziò pure a condividere le motivazioni più profonde di quella ostilità, che affondavano le radici nella lettura che vedeva nella mafia un prodotto della sicilianità, di cui era parte consistente la tradizione cattolica.
Si fece allora strada il convincimento che, alla denuncia, dovesse accompagnarsi l’abbandono, da parte della Chiesa, del proprio apparato gerarchico e dottrinale, in quanto corredo di una Sicilia «pre-moderna», laddove alla «modernità» veniva attribuita una connotazione qualitativa (6).
Emblematiche appaiono, al riguardo, le parole del gesuita Bartolomeo Sorge (1929-2020), già direttore del Centro Studi Arrupe di Palermo: «L’humus sociale e culturale dal quale è nato e dal quale si è alimentato il fenomeno mafioso è costituito […] dai valori e dal costume “premoderno” a lungo sopravvissuto e poi degenerato nella realtà meridionale, in contrasto con l’evoluzione del resto del paese: il senso della famiglia è degenerato nel familismo della cosca, il rispetto dell’autorità nell’obbedienza incondizionata al padrino, il senso dell’amicizia nel clientelismo, il valore della fedeltà in omertà, e così via». In base a tale analisi, il gesuita esprime l’ottimistica convinzione secondo cui «in una Sicilia post-moderna, l’onorata società di ieri non ha più futuro» (7).
Era il tempo di quella che venne definita «pastorale organica dell’antimafia», una sorta di teologia della liberazione in salsa siciliana (8), per la quale era considerato indispensabile schierare la Chiesa al fianco delle forze politico-partitiche impegnate sul fronte della lotta al sistema politico-mafioso imperante nell’isola.
La denuncia, però, non assunse soltanto i toni di una contestazione dell’assetto politico-culturale, ma anche quello, in altra parte del clero, di una critica forte nei confronti dello Stato. Si può dire che si trattava dell’evoluzione dell’atteggiamento di diffidenza nei confronti dello Stato post-unitario, che, dinanzi all’accentuazione del carattere violento dell’organizzazione criminale mafiosa (9), viene visto come il vero responsabile e il grande assente.
In chiave intra-ecclesiale tale denuncia si accompagna all’avvio di un percorso di autocritica che, pur non raggiungendo sempre i vertici ideologici della «pastorale dell’antimafia», inizia a interrogarsi sulla credibilità e sulla profondità dell’azione evangelizzatrice in un contesto sociale e culturale oramai mutato (10).
2. Giovanni Paolo II e la questione mafiosa
2.1 Un mutamento radicale di prospettiva
Dinanzi a tale impasse, che poneva la Chiesa siciliana in una condizione, per un verso, di soggezione culturale rispetto al mondo marxista e, per l’altro, di sterile lamentazione per l’inerzia delle istituzioni statali, Giovanni Paolo II imprime un radicale mutamento di prospettiva e inserisce la questione mafiosa in una dimensione sì culturale ma che la fa uscire dai confini ristretti delle degenerazioni della cultura siciliana.
«[…] anche qui, come altrove, si avvertono i segni dell’influenza della cultura mafiosa, di forze occulte e di una crisi che va investendo sempre più i cardini ideali ed etici della società. Germoglia infatti e cresce il seme della ingiustizia sociale, del disordine urbanistico ed ambientale, della disgregazione della famiglia, della droga, del degrado amministrativo e politico. Sembra così affievolirsi la tradizionale affezione ai valori religiosi e morali, vanto della Città che si gloria di aver dato i natali al giovane patrono, il martire san Vito. Mazara del Vallo ha un patrimonio spirituale che si è consolidato nei secoli esprimendosi, in particolare, in una profonda devozione a Cristo Salvatore e alla sua Vergine Madre, alla quale è stata intitolata fin dal suo sorgere la vostra Cattedrale. Cresciuta forse troppo in fretta, la vostra Città ha pagato lo sviluppo con un progressivo sfaldamento di quegli antichi valori spirituali sui quali si è innalzato per secoli l’edificio della sua pacifica e fattiva convivenza. La crisi concerne, tra l’altro, l’unità della famiglia, roccaforte di valori etici e religiosi, e il mondo dei giovani privi talora di saldi riferimenti ideali e perciò esposti ai richiami fallaci di un progresso solo materiale» (11).
«Tra i problemi morali, è da porre in primo luogo la delinquenza che in questi ultimi anni ha assunto proporzioni allarmanti: da quella spicciola, che talvolta coinvolge adolescenti e ragazzi, a quella ben più grave che è l’associazione a delinquere di stampo mafioso — con interessi e giro di capitali ingenti — dovuta alla bramosia di ricchezza e alla sete di potere. Voi, pastori della Sicilia, non avete mai mancato di far sentire la vostra voce per un comune impegno a creare una cultura della nonviolenza, lavorando in particolare sulle nuove generazioni, per la formazione di una retta coscienza morale cristiana.
«Da questo quadro, che sintetizza i motivi delle vostre preoccupazioni di vescovi, appare evidente la necessità di continuare sulla strada già da anni da voi intrapresa, e che io stesso indicavo nell’incontro del dicembre 1981: quella della rievangelizzazione e della catechesi a tutti i livelli, potendo voi contare sullo spiccato senso religioso innato nel popolo siciliano, che è buono, generoso, paziente; un senso religioso profondo e sentito, anche se certe pratiche di “religiosità popolare” hanno bisogno di un processo di purificazione, che voi da anni, con costanza e prudenza, avete avviato mediante sagge norme, per disciplinare lo svolgimento delle “feste religiose”, norme che dalla maggior parte dei responsabili e dei fedeli sono state comprese, accettate e applicate. In modo speciale, nella vostra pastorale voi avete cercato di orientare la religiosità popolare verso una fede convinta, una pratica sacramentale autentica e una vita morale animata dalla carità verso Dio e verso il prossimo» (12).
La mafia, per il Pontefice polacco, è un prodotto della secolarizzazione che ha interessato l’intera società italiana e che, in Sicilia, ha assunto, fra i vari aspetti, quello di un’organizzazione che tende a sovvertire il bene comune, il cui fine non è più l’uomo ma l’organizzazione stessa.
«In un’epoca di relativismo culturale come la nostra, in cui non di rado si stenta a cogliere il senso autentico della vita, si può facilmente smarrire anche la coscienza dell’umana dignità. Non desta pertanto meraviglia che, accanto alle varie forme di attentati ai diritti della persona, si debba registrare pure quell’autentica perversione dell’economia che si verifica quando l’essere umano viene trattato alla stregua di una “cosa”, abbandonato al gioco degli interessi e sottoposto alle ferree leggi del mercato. L’antidoto più sicuro a tale rischio il credente lo trova nel messaggio della Rivelazione, il quale manifesta il mistero di Dio e svela l’uomo a sé stesso. Alla luce della Parola che viene dall’Alto, l’uomo si scopre creato ad immagine del Creatore (cf. Gen 21, 26), e si avverte chiamato ad entrare in dialogo non soltanto col suo simile, ma anche col suo eterno Signore. È Lui stesso a desiderarlo come suo “partner”, in una intima esperienza di soprannaturale figliolanza. Chi può pretendere di ridurre a merce un essere dalla dignità così alta e incommensurabile? Come tollerare forme di sfruttamento ed assetti di società che non gli assicurino l’essenziale per vivere in maniera conforme alla sua vocazione?» (13).
La mafia è per san Giovanni Paolo II un problema non solo di devianza criminale, ma soprattutto culturale, etico e spirituale. Essa pone certamente un problema ecclesiologico, ma non nel senso voluto da padre Sorge: è un problema per la Chiesa in quanto chiama in causa il fondamento della pastorale, che non può prescindere dal radicamento nella corretta antropologia.
Se vi è un’antimafia «cristiana», essa non può non fondarsi sulla verità sull’uomo, che va annunciata senza paura e vissuta con coerenza di vita. Per questa ragione la questione mafia viene messa in relazione, da un lato, con la cultura della vita, in contrapposizione con la «cultura»mafiosa, che mortifica la dignità dell’uomo, ridotto a strumento per l’affermazione degli scopi dell’organizzazione; e, dall’altro, con il giudizio di Dio, perché espressione di scelte immorali che pretendono il pubblico riconoscimento e tendono a farsi struttura, struttura di peccato.
«Che sia concordia in questa vostra terra! Concordia senza morti, senza assassinati, senza paure, senza minacce, senza vittime! Che sia concordia! Questa concordia, questa pace a cui aspira ogni popolo e ogni persona umana e ogni famiglia! Dopo tanti tempi di sofferenze avete finalmente un diritto a vivere nella pace. E questi che sono colpevoli di disturbare questa pace, questi che portano sulle loro coscienze tante vittime umane, devono capire, devono capire che non si permette uccidere innocenti! Dio ha detto una volta: “Non uccidere”: non può uomo, qualsiasi, qualsiasi umana agglomerazione, mafia, non può cambiare e calpestare questo diritto santissimo di Dio!
«Questo popolo, popolo siciliano, talmente attaccato alla vita, popolo che ama la vita, che dà la vita, non può vivere sempre sotto la pressione di una civiltà contraria, civiltà della morte. Qui ci vuole civiltà della vita! Nel nome di questo Cristo, crocifisso e risorto, di questo Cristo che è vita, via verità e vita, lo dico ai responsabili, lo dico ai responsabili: convertitevi! Una volta verrà il giudizio di Dio» (14).
«Dal peccato, che allontana da Dio, scaturisce una logica coercitiva severa ed intransigente. Dalla violazione del precetto divino “derivano inclinazioni perverse, che ottenebrano la coscienza e alterano la concreta valutazione del bene e del male” (Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1865). Quando questa tremenda progressione dell’inganno si estende sino a diventare espressione di vita collettiva, si realizza quel “peccato sociale” che, impossessandosi degli organismi e delle strutture, scatena terribili potenze oppressive ed occulte. Si hanno, allora, quelle forme di criminalità organizzata che mortificano e spezzano le coscienze, togliendo a tutti la serenità ed umiliando la speranza. È a tali sfide violente e mafiose che deve rispondere con umile fortezza il vostro impegno di fede. I credenti sono chiamati a “visitare”, seguendo Maria, la società e tutti i suoi ambiti con la fermezza e l’audacia della profezia evangelica, per ricondurre a Dio l’ordine temporale nel quale ogni essere creato vive, il suo ambiente umano e sociale» (15).
La questione mafiosa diventa, allora, anche un problema di fede, la cui soluzione radicale è solo nel rimettere al centro Dio.
L’operazione di Giovanni Paolo II ha anche l’effetto di disvelare la fallacia dell’antimafia marxista, dal momento che quest’ultima è espressione di quella stessa matrice culturale relativistica, nemica della verità, che è il brodo di cultura e il propellente della diffusione della mentalità mafiosa, soprattutto fra le giovani generazioni.
Il richiamo al giudizio di Dio, infine, infligge un duro colpo anche alla «mitizzazione»del mafioso, «degradato» al rango di maledetto dalla divinità, di «peccatore manifesto» (16).
La reazione della mafia a tale radicale e profondo cambio di atteggiamento, tale da minare alle radici l’attecchimento della mentalità e del costume mafioso, non si fa attendere: don Pino Puglisi (1937-1993) è il primo sacerdote che pagherà con il sangue l’anatema pronunciato nei confronti dei mafiosi e le chiese vengono a essere individuate come bersaglio di attentati dinamitardi, per mandare un chiaro messaggio a quel Papa colpevole di aver pronunciato l’anatema contro i mafiosi (17).
2.2 La mafia come ostacolo per la nuova evangelizzazione
La mafia, in definitiva, viene vista dal Papa polacco come un ostacolo per la nuova evangelizzazione in Sicilia. «Come, poi, non condividere le vostre apprensioni per l’espandersi della criminalità organizzata di stampo mafioso, sempre più seminatrice di vittime e delitti? Tale piaga sociale rappresenta una seria minaccia non solo alla società civile, ma anche alla missione della Chiesa, giacché mina dall’interno la coscienza etica e la cultura cristiana del popolo siciliano» (18).
Forse non è un caso se, proprio a Palermo, Giovanni Paolo II terrà nel 1995 il noto discorso sulla fine della Cristianità. «Ora però non è più possibile farsi illusioni, troppo evidenti essendo divenuti i segni della scristianizzazione nonché dello smarrimento dei valori umani e morali fondamentali. In realtà tali valori, che pur scaturiscono dalla legge morale inscritta nel cuore di ogni uomo, ben difficilmente si mantengono, nel vissuto quotidiano, nella cultura e nella società, quando vien meno o si indebolisce la radice della fede in Dio e in Gesù Cristo. Perciò, mentre poniamo rispettosamente questo interrogativo a chi — pur non condividendo la nostra fede, ma essendo spesso verso di essa attento e sensibile — è sinceramente sollecito del bene dell’uomo e del futuro della nazione, ci sentiamo anche noi stessi fortemente interpellati. […]
«Da questa città di Palermo e da questa terra di Sicilia non posso poi non ricordare a tutta la diletta nazione italiana, ai governanti e ai responsabili ai vari livelli come a tutta la popolazione, che la cosiddetta “questione meridionale”, fattasi in quest’ultimo periodo forse ancora più grave specialmente a causa della realtà drammatica della disoccupazione, soprattutto giovanile, è veramente una questione primaria di tutta la nazione. Certo, spetta alle genti del Sud essere le protagoniste del proprio riscatto, ma questo non dispensa dal dovere della solidarietà l’intera nazione. Come non riconoscere, del resto, che la gente del meridione, in tanti suoi esponenti, viene da tempo riproponendo le ragioni di una cultura della moralità, della legalità, della solidarietà, che sta progressivamente scalzando alla radice la mala pianta della criminalità organizzata? Io non posso non ripetere, a questo proposito, il grido che mi è uscito dal cuore ad Agrigento, nella Valle dei Templi: “Non uccidere”. Nessun uomo, nessuna associazione umana, nessuna mafia può cambiare e calpestare il diritto alla vita, questo diritto santissimo di Dio.
«Sappiamo che all’uomo ferito dal peccato non è possibile costruire nella storia un ordine sociale perfetto e definitivo. Ma sappiamo anche che la grazia opera nel cuore di tutti gli uomini di buona volontà. Gli sforzi per costruire un mondo migliore sono accompagnati dalla benedizione di Dio. Apriamo dunque il cuore alla speranza! Cristo, Signore della storia e redentore dell’uomo, non cessa di camminare con noi, affiancando i nostri passi incerti con la potenza del suo amore. A lui si aprano i nostri spiriti. Non abbiano paura di Lui e del suo messaggio le istituzioni private e pubbliche. Il suo Vangelo contiene orientamenti di vita personale e sociale in grado di salvaguardare la dignità dell’uomo e di promuovere la prosperità e la pace.
«Per questo, per un atteggiamento di sincero rispetto e dialogo verso quanti non hanno la nostra stessa fede, ci è doveroso ricordare a tutti che lo Stato di diritto, una genuina democrazia, ed anche una ben ordinata economia di mercato, non possono prosperare se non facendo riferimento a ciò che è dovuto all’uomo perché è uomo, quindi a principi di verità e a criteri morali oggettivi, e non già a quel relativismo che talvolta si pretende alleato della democrazia, mentre in realtà ne è un insidioso nemico» (19).
In Sicilia la civiltà cristiana, seppur negli aspetti spesso solo formali di una società feudale che si era protratta fino alla metà del secolo XIX, si era come di colpo eclissata, lasciando sul terreno un’umanità priva di qualsiasi punto di riferimento, facile preda di surrogati dell’antico ordine e dei valori immutabili.
Si fa evidente, perciò, la necessità di avviare una ricostruzione che parta dalle fondamenta, dai praeambula fidei, cioè dall’umano e dal bene comune.
Il rispetto della vita e della dignità dell’uomo assume in Sicilia, agli occhi del Papa polacco, un’evidenza drammatica, tale da condurre a riconsiderare i termini stessi del martirio cristiano.
3. Martiri della giustizia
La drammaticità della situazione siciliana viene colta da Giovanni Paolo II in tutta la sua ineludibilità, nel momento in cui apprende dell’assassinio di Rosario Livatino (1952-1990), e si eleva a occasione per importanti pronunciamenti magisteriali che vanno ben oltre i confini dell’isola e della stessa questione mafiosa.
Tale questione, come si è detto, era già presente nel magistero del Papa e in modo assolutamente originale rispetto alle impostazioni passate e presenti.
Tuttavia, la tragica fine di Livatino induce il Pontefice, con chiarezza magisteriale, ad attribuire i caratteri del martirio al sacrificio della propria vita fatto in nome della giustizia.
È una riflessione che troverà compimento nell’enciclica Veritatis splendor, del 1993, laddove stabilirà che il martirio deve essere riconosciuto anche alla testimonianza dell’inviolabilità dell’ordine morale voluto da Cristo.
«Il rapporto tra fede e morale splende in tutto il suo fulgore nel rispetto incondizionato che si deve alle esigenze insopprimibili della dignità personale di ogni uomo, a quelle esigenze difese dalle norme morali che proibiscono senza eccezioni gli atti intrinsecamente cattivi. L’universalità e l’immutabilità della norma morale manifestano e, nello stesso tempo, si pongono a tutela della dignità personale, ossia dell’inviolabilità dell’uomo, sul cui volto brilla lo splendore di Dio (cf Gn 9,5-6)» (20).
«Il martirio è infine un segno preclaro della santità della Chiesa: la fedeltà alla legge santa di Dio, testimoniata con la morte, è annuncio solenne e impegno missionario usque ad sanguinem perché lo splendore della verità morale non sia offuscato nel costume e nella mentalità delle persone e della società. Una simile testimonianza offre un contributo di straordinario valore perché, non solo nella società civile ma anche all’interno delle stesse comunità ecclesiali, non si precipiti nella crisi più pericolosa che può affliggere l’uomo: la confusione del bene e del male, che rende impossibile costruire e conservare l’ordine morale dei singoli e delle comunità. I martiri, e più ampiamente tutti i santi nella Chiesa, con l’esempio eloquente e affascinante di una vita totalmente trasfigurata dallo splendore della verità morale, illuminano ogni epoca della storia risvegliandone il senso morale. Dando piena testimonianza al bene, essi sono un vivente rimprovero a quanti trasgrediscono la legge (cf Sap 2, 12) e fanno risuonare con permanente attualità le parole del profeta: «Guai a coloro che chiamano bene il male e male il bene, che cambiano le tenebre in luce e la luce in tenebre, che cambiano l’amaro in dolce e il dolce in amaro (Is 5,20)» (21).
Già in precedenza, in occasione della canonizzazione di padre Massimiliano Maria Kolbe (1894-1941), Giovanni Paolo II aveva dimostrato di riconsiderare i termini del martirio cristiano alla luce delle mutate contingenze storiche. «Come sempre, quando proclama la santità dei suoi figli e delle sue figlie, così anche in questo caso, essa cerca di agire con tutta la precisione e la responsabilità dovute, penetrando in tutti gli aspetti della vita e della morte del Servo di Dio.
«Tuttavia, la Chiesa deve, al tempo stesso, stare attenta, leggendo il segno della santità dato da Dio nel suo Servo terreno, di non lasciar sfuggire la sua piena eloquenza e il suo significato definitivo.
«E perciò, nel giudicare la causa del beato Massimiliano Kolbe si dovettero — già dopo la beatificazione — prendere in considerazione molteplici voci del Popolo di Dio, e soprattutto dei nostri fratelli nell’Episcopato, sia della Polonia come pure della Germania, che chiedevano di proclamare Massimiliano Kolbe santo “come martire”.
«Di fronte all’eloquenza della vita e della morte del beato Massimiliano, non si può non riconoscere ciò che pare costituisca il principale ed essenziale contenuto del segno dato da Dio alla Chiesa e al mondo nella sua morte.
«Non costituisce questa morte affrontata spontaneamente, per amore all’uomo, un particolare compimento delle parole di Cristo?
«Non rende essa Massimiliano particolarmente simile a Cristo, Modello di tutti i Martiri, che dà la propria vita sulla Croce per i fratelli?
«Non possiede proprio una tale morte una particolare, penetrante eloquenza per la nostra epoca?
«Non costituisce essa una testimonianza particolarmente autentica della Chiesa nel mondo contemporaneo?
«E perciò, in virtù della mia apostolica autorità ho decretato che Massimiliano Maria Kolbe, il quale, in seguito alla Beatificazione, era venerato come Confessore, venga d’ora in poi venerato “anche come Martire”!» (22).
La nozione di martirio non cambia, ma viene ampliata, in considerazione della condizione storica da fine-cristianità, in cui i cristiani non vengono più messi alla prova quanto alla fede in Cristo, ma nell’osservanza della legge morale e delle virtù. Sicché, la difesa di quei principi e delle virtù, vissute come indispensabili strumenti per rimanere saldi nella fede, fino al sacrificio della vita, è il modo, oggi, per testimoniare l’amore verso Cristo e verso il prossimo.
Come è stato puntualmente osservato, «la discernibilità del martirio in età contemporanea è resa difficile poiché di regola non viene più offerta ai cristiani una scelta tra apostasia o morte […], ma vengono semplicemente uccisi perché con la loro vita hanno dimostrato di essere coerenti con le istanze evangeliche, nella pratica della fede e delle virtù cristiane, particolarmente della carità» (23).
Poste tali premesse, ne discende che anche la giustizia, cioè il dare a ciascuno il suo, innanzitutto la dignità che spetta a ciascun uomo, si inscrive a pieno titolo nel novero delle componenti irrinunciabili per vivere una vita di fede.
Come per santa Maria Goretti (1890-1902) la difesa della castità appariva irrinunciabile per non dispiacere a Gesù, così la difesa del giusto, per il cristiano, può assumere le stesse caratteristiche di doverosità. E lo stesso odium fidei va messo in relazione non alla professione di fede in quanto tale, ma alla vita vissuta in coerenza con la professione di fede (24).
4. Uno scenario di santità possibile: la «piccola via»di Alleanza Cattolica
Spesso il fondatore di Alleanza Cattolica, Giovanni Cantoni (1938-2020), ha insistito nel presentare la militanza nell’associazione come la piccola via offerta ai militanti — sull’esempio dell’insegnamento di santa Teresina di Lisieux (1873-1897) — per guadagnare la santità.
La vocazione spesa in Alleanza Cattolica si inserisce, infatti, a pieno titolo, grazie anche al magistero di san Giovanni Paolo II, nella testimonianza richiesta al laico nell’ora presente.
«L’evangelizzazione è la sfida più forte ed esaltante che la Chiesa è chiamata ad affrontare sin dalla sua origine. In realtà, a porre questa sfida non sono tanto le situazioni sociali e culturali che essa incontra lungo la storia, quanto il mandato di Gesù Cristo risorto, che definisce la ragione stessa dell’esistenza della Chiesa: “Andate in tutto il mondo e predicate il Vangelo ad ogni creatura” (Mc 16,15).
«Il momento però che stiamo vivendo, almeno presso numerose popolazioni, è piuttosto quello di una formidabile provocazione alla “nuova evangelizzazione”, ossia all’annuncio del Vangelo sempre nuovo e sempre portatore di novità, una evangelizzazione che dev’essere “nuova nel suo ardore, nei suoi metodi e nella sua espressione”. La scristianizzazione, che pesa su interi popoli e comunità un tempo già ricchi di fede e di vita cristiana, comporta non solo la perdita della fede o comunque la sua insignificanza per la vita, ma anche, e necessariamente, un declino o un oscuramento del senso morale: e questo sia per il dissolversi della consapevolezza dell’originalità della morale evangelica, sia per l’eclissi degli stessi principi e valori etici fondamentali. Le tendenze soggettiviste, relativiste e utilitariste, oggi ampiamente diffuse, si presentano non semplicemente come posizioni pragmatiche, come dati di costume, ma come concezioni consolidate dal punto di vista teoretico che rivendicano una loro piena legittimità culturale e sociale.
«L’evangelizzazione — e pertanto la “nuova evangelizzazione” — comporta anche l’annuncio e la proposta morale. Gesù stesso, proprio predicando il Regno di Dio e il suo amore salvifico, ha rivolto l’appello alla fede e alla conversione (cf Mc 1,15). E Pietro, con gli altri Apostoli, annunciando la risurrezione di Gesù di Nazaret dai morti, propone una vita nuova da vivere, una “via” da seguire per essere discepoli del Risorto (cf At 2,37- 41; 3,17-20).
«Come e ancor più che per le verità di fede, la nuova evangelizzazione che propone i fondamenti e i contenuti della morale cristiana manifesta la sua autenticità, e nello stesso tempo sprigiona tutta la sua forza missionaria, quando si compie attraverso il dono non solo della parola annunciata, ma anche di quella vissuta. In particolare, è la vita di santità, che risplende in tanti membri del Popolo di Dio, umili e spesso nascosti agli occhi degli uomini, a costituire la via più semplice e affascinante sulla quale è dato di percepire immediatamente la bellezza della verità, la forza liberante dell’amore di Dio, il valore della fedeltà incondizionata a tutte le esigenze della legge del Signore, anche nelle circostanze più difficili» (25).
La fedeltà incondizionata a tutte le esigenze della legge del Signore richiede la riforma personale di vita e la perseveranza.
Tuttavia, a tale ascesi individuale deve accompagnarsi anche un’ascesi sociale, indispensabile perché si avvii e si radichi la nuova evangelizzazione e si inizi a costruire la nuova Cristianità.
Proprio sul versante dell’ascesi sociale, e, segnatamente, nell’apprestare tutto quel che occorre per la scalata — insegnando a intrecciare quelle «foglie di fico» necessarie perché il novello Adamo possa iniziare a rivestirsi —, e nella difesa da chi vuole impedire la risalita, si situa l’apostolato di Alleanza Cattolica.
Un’attività di formazione, paziente e accurata, rivolta soprattutto a chi dovrà guidare quell’ascesa. «I capi non s’improvvisano, soprattutto in epoca di crisi. Trascurare il compito di preparare nei tempi lunghi e con severità d’impegno gli uomini che dovranno risolverla, significa abbandonare alla deriva il corso delle vicende storiche» (26).
Note:
1) Il primo atto di denuncia pubblica risale al 1964 ed è la lettera pastorale che il cardinale Ernesto Ruffini (1888-1967), arcivescovo di Palermo, indirizza al clero siciliano; in tale atto, però, la mafia viene considerata come fenomeno delinquenziale comune e non come organizzazione criminale. Solo nell’omelia tenuta dal card. Salvatore Pappalardo (1918-2006) in occasione dei funerali del prefetto Carlo Alberto Dalla Chiesa (1920-1982), nel 1982, può identificarsi l’inizio di un nuovo atteggiamento nei confronti del fenomeno mafioso.
2) Il rapporto, più che con l’organizzazione — che si muoveva in un contesto, elitario, di segretezza, proprio delle associazioni segrete di fine Ottocento, dalle quali mutuava codici e rituali di iniziazione — era con i singoli «uomini d’onore», che colmavano i vuoti, di gestione della forza e di mediazione con le autorità statuali, lasciati dall’aristocrazia isolana, inurbatasi e fattasi distante dalle comunità locali.
3) «La Chiesa scelse la via dell’“intransigenza” nei confronti dello Stato liberale e questa via, pur nella duttilità tipica dell’intransigenza cattolica […], la condusse al rifiuto dell’assunzione in proprio dei problemi che le autorità dello Stato si trovavano a dover affrontare. Per lungo tempo la Chiesa ebbe un atteggiamento di polemico disinteresse per il buon funzionamento dello Stato, la moralità della politica, l’osservanza delle leggi, la formazione di un diffuso senso civico» (Mons. Cataldo Naro [1951-2006], Il silenzio della Chiesa siciliana sulla mafia: una questione storiografica, in Salvatore Barone (a cura di), Martiri per la giustizia. Testimonianza cristiana fino all’effusione del sangue nella Sicilia d’oggi. Atti del seminario di studio tenuto a San Cataldo (Caltanissetta) il 12 febbraio 1994, Sciascia, Caltanissetta-Roma 1994, pp. 103-131 [p. 122]).
4) «Prima dell’unificazione nazionale ed ancora fino al primo concilio plenario siculo del 1920 in Sicilia prevaleva il modello della parrocchia-comunia: la cura pastorale in ciascun comune […] era affidata non ad uno o più parroci ma ad un gruppo di sacerdoti, componenti la comunia, che in solidum avevano la responsabilità dell’unica parrocchia dell’abitato. Secondo le tavole di fondazione delle comunie potevano farne parte solo sacerdoti “indigeni”, cioè del luogo. […] Ed anche per questo il cattolicesimo aveva in Sicilia un’importante caratterizzazione “municipale”. Il clero era molto radicato nell’ambiente locale e legato ad esso da molteplici legami familiari. Risultava piuttosto difficile a questo clero […] maturare atteggiamenti critici e di aperta condanna verso comportamenti, quali anche quelli violenti della mafia, in cui fossero implicati parenti o conoscenti o, al contrario, da cui potessero derivare minacce dirette e immediate verso familiari e amici» (ibid., p. 125).
5) Così si esprime il teologo Cosimo Scordato: «La distorsione di fattori come la gerarchia, l’obbedienza, la sopportazione, il silenzio favoriscono l’attecchire dell’organizzazione mafiosa» (cit. in Sandro Magister, A colpi di scomunica. I rapporti fra clero siciliano e Cosa nostra, in L’Espresso, anno XXXIX, n. 6, 14-2-1993, p. 85).
6) «Nella storia delle interpretazioni della mafia, della lotta contro di essa, ritorna ciclicamente l’idea secondo la quale il “moderno” (la riforma agraria, l’industrializzazione, la scolarità, lo sviluppo di più liberi costumi sessuali) dovrebbe ipso facto distruggere il fenomeno assieme al suo brodo di cultura […]. Molti pensarono che la mafia sarebbe scomparsa quando nei paesi del desolato entroterra siciliano si fosse sentito il fischio della locomotiva, non immaginando che se ne sarebbe ancora parlato dopo il fischio della locomotiva, il boom del jet, il bip del computer» (Salvatore Lupo, Storia della mafia dalle origini ai giorni nostri, nuova edizione riveduta e ampliata, Donzelli, Roma 1996, p. 19).
7) Bartolomeo Sorge, La mafia può essere sconfitta, in Il Progetto, anno VII, n. 40, 1987, p. 46.
8) Secondo tale impostazione, che vede un nesso inscindibile fra tradizione cattolica siciliana e mentalità mafiosa, «l’esistenza della mafia pone una questione ecclesiologica e non solo ecclesiale: nel senso che per la Chiesa siciliana si tratta non solo di assumere un atteggiamento di netto rifiuto della mafia ma anche di procedere ad un ripensamento critico degli elementi della ecclesiologia cattolica (societas perfecta, gerarchia, etc.) assunti, pur in maniera distorta, dalla cultura mafiosa» (C. Naro, op. cit., p. 117).
9) Si consideri che dal 1981 al 1983, solo a Palermo, si registrarono ben seicento omicidi per mano mafiosa.
10) «Paradossalmente […], nonostante l’apertura della chiesa al mondo, maturata soprattutto durante l’ultimo concilio, e nonostante l’impegno dei cristiani in campo sociale, la sfiducia nei confronti della chiesa anziché diminuire sembra essere aumentata. Anche la chiesa siciliana […], negli anni caldi di denuncia alla mafia e di manifesta sensibilità sociale ha sperimentato una certa ininfluenza nel campo dell’inculturazione della fede e il rifiuto sociale» (Giuseppe Anzalone, Vivere e morire in Cristo. Testimonianza cristiana fino al martirio, in Idem, Etica della tenerezza. Stile di vita cristiana di fronte al fenomeno mafioso, Centro Studi Cammarata, San Cataldo (Caltanissetta) 1998, p. 99).
11) Giovanni Paolo II, Omelia nella Messa sul lungomare dedicato a San Vito a Mare nel corso della sua visita pastorale in Sicilia (8/10-5-1993), Mazara del Vallo (Trapani), 8-5-1993.
12) Idem, Ai vescovi siciliani in visita «ad limina Apostolorum», 22-9-1986.
13) Idem, Discorso ai lavoratori nello stabilimento industriale dell’Amaro Averna a Caltanissetta nel corso della sua visita pastorale in Sicilia (8/10-5-1993), 10-5-1993.
14) Idem, Concelebrazione eucaristica nella Valle dei Templi ad Agrigento nel corso della sua visita pastorale in Sicilia (8/10-5-1993), 9-5-1993.
15) Idem, Incontro con la cittadinanza a Trapani nel corso della sua visita pastorale in Sicilia (8/10-5-1993), 8-5-1993.
16) «Ora, se, nell’attuale prassi pastorale, il divorziato risposato è escluso dalla partecipazione ai sacramenti, a maggior ragione dovrebbe esserlo un mafioso che appartiene ad un’organizzazione criminale che corrompe la chiesa e la società. Sul piano concettuale, il mafioso è, dunque, un “peccatore manifesto” che agisce nell’alveo della comunità cristiana — oltre che in quella sociale — con la stessa capacità dirompente e corruttrice del “lievito vecchio” nella pasta» (G. Anzalone, op. cit., p. 149).
17)Una «sbrasata» (uno sconfinamento, una sbruffonata),così venne definito, da boss vicini a Bernardo Provenzano (1933-2016) nel corso di una conversazione intercettata, l’anatema pronunciato da Giovanni Paolo II nella Valle dei Templi (cit. in Francesco Deliziosi, Pino Puglisi, il prete che fece tremare la mafia con un sorriso, Rizzoli, Milano 2013, p. 234). Collaboratori di giustizia hanno, inoltre, riferito che in quel periodo del 1993 i fratelli Benedetto, Filippo, Giuseppe e Nunzia Graviano facevano discorsi accaniti contro la Chiesa.
18) Giovanni Paolo II, Ai vescovi siciliani in visita «ad limina Apostolorum», 22-11-1991.
19) Idem, Discorso alla Chiesa italiana per la celebrazione del III Convegno ecclesiale, 23-11-1995.
20) Cfr. Idem, Lettera enciclica «Veritatis splendor» circa alcune questioni fondamentali dell’insegnamento morale della Chiesa, 6-8-1993, n. 90.
21) Ibid., n. 93.
22) Idem, Omelia per la canonizzazione di Massimiliano Maria Kolbe, 10-10-1982.
23) Valentina Ciciliot, I martiri della lotta alla mafia nell’insegnamento di Giovanni Paolo II, in L’immaginario devoto tra mafie e antimafia, a cura di Tommaso Caliò e Lucia Ceci, 2 voll., Viella, Roma 2017, vol. I, Riti, culti e santi, pp. 233-243 (p. 239).
24) «Se il termine odium fidei non significa necessariamente che il persecutore odia Dio o la Chiesa, ma che piuttosto pretende dal martire un atto che questi non può o non vuole fare a motivo della sua fede, e se il concetto di fede può essere al punto ampliato da includere un numero sempre più ampio di espressioni cristiane, allora sarebbe utile domandarsi quanto ancora possa valere il termine stesso» (ibid., p. 242).
25) Giovanni Paolo II, Lettera enciclica «Veritatis splendor» circa alcune questioni fondamentali dell’insegnamento morale della Chiesa, cit., nn. 106-107.
26) Idem, Discorso alla famiglia dell’Istituto Borromeo a Pavia, 3-11-1984.