Giovanni Cantoni, Cristianità n. 261-262 (1997)
Articolo anticipato, senza note e con il titolo redazionale Conflitto immaginario, in Secolo d’Italia. Quotidiano di Alleanza Nazionale, anno XLVI, n. 22, 26-1-1997, p. 16.
Vita economica, capitalismo e dottrina sociale della Chiesa
La discussione è cominciata sul Corriere della Sera del 15 gennaio 1997 con una (presunta) dimostrazione del Perché il capitalista non può dirsi cattolico ed è finita — dopo diversi interventi — sullo stesso quotidiano del 22 con un perentorio: No signori, il vero imprenditore non è un buon Samaritano: autore di entrambi gli interventi il filosofo Emanuele Severino (6), mosso dalla constatazione che «l’instabilità della situazione politica italiana è in buona parte dovuta a questo equivoco, dove gli interlocutori intendono in modo del tutto diverso le stesse parole — “capitalismo”, “bene della società”» (7); e intenzionato — non si sa se per amore della verità, conformemente alla sua professione di filosofo, oppure per reprimere l’errore, conformemente al suo tono in parte da primo della classe e in parte da inquisitore laicista — a «[…] difendere il capitalismo dai capitalisti e il cattolicesimo dai cattolici» (8) provando la tesi secondo cui «[…] il capitalismo è essenzialmente inconciliabile con la dottrina sociale della Chiesa» (9).
Questo il nerbo della prova: «Il capitalismo è quello che è, perché ha come scopo l’incremento del profitto. Lo scopo di una certa azione definisce infatti l’essenza stessa di tale azione. Che cosa accade, dunque, se si distoglie il capitalismo (l’azione capitalista) dal suo scopo e lo si fa diventare — come appunto propone la Chiesa — un semplice mezzo per promuovere il bene della società? Accade che non solo il guadagno viene limitato (giacché il mezzo è subordinato allo scopo e quindi è sempre limitato dalla necessità di non limitare lo scopo), ma addirittura che il capitalismo non è più capitalismo. Muore. Sollecitando il capitalismo ad avere come scopo (s’intende come scopo primario) il bene della società e non il profitto, la Chiesa propone al capitalismo di morire» (10).
Si tratta di tesi ribadita nella replica: «Lo scopo di un’ azione […] definisce l’azione. […]
«Perseguendo il profitto — assumendolo cioè come scopo primario —, la produzione capitalistica soddisfa di certo i bisogni. […] Se il produttore non porta al mercato merci che soddisfano i bisogni della gente, è difficile che la gente compri.
«Ma, appunto, il venditore in quanto venditore, non vende per soddisfare i bisogni del prossimo, ma soddisfa i bisogni del prossimo per vendere. Nel primo caso (dove non c’è un venditore, ma un benefattore), lo scopo è la soddisfazione dei bisogni; nel secondo è la vendita e il profitto» (11). E ancora: «[…] se a un’azione viene assegnato uno scopo diverso da quello a cui era ordinata, l’azione cambia senso, natura, costituzione; e un’impresa che produce per distribuire equamente o cristianamente ricchezze agisce in modo essenzialmente diverso da un’ impresa che produca per l’incremento del profitto: anche se apparentemente essa sembra mettere in atto le stesse procedure tecnologiche, amministrative e organizzative di questo secondo tipo d’impresa» (12).
Trascuro molte notazioni possibili, a partire da quella — oggettivamente scandalosa da parte di chi voleva portare chiarezza — costituita dalla riduzione del capitalismo a un’azione, premessa del confronto istituito con una morale, quella rappresentata dalla dottrina sociale della Chiesa. Ma vengo a quest’ultima, appunto a una morale. Benché nella sua prospettiva vi siano anche comportamenti giudicati in sé negativi — ricordo la denuncia dell’«intrinseca perversità» del comunismo ateo da parte di Papa Pio XI (13) —, si può dire che essa intende regolare comportamenti, nel merito della cui natura non entra: il reale non è fatto dalla morale, ma la morale viene ricavata sostanzialmente dal reale, ex ipsa natura rei, pena la caduta nel moralismo, nell’estrinsecismo morale, cioè nell’enunciazione di una regola estranea alla realtà regolata. Perciò la dottrina sociale della Chiesa, che è dottrina sociale naturale e cristiana, parte dall’uomo concreto e si interessa dell’uomo concreto, singolarmente considerato e/o in società, anche quando ne tratta in modo astratto, conformemente allo stadio di «tecnologia del pensiero» di cui si serve. E concepisce la vita economica dell’uomo come intesa al soddisfacimento di bisogni appunto economici. Nella prospettiva di questo soddisfacimento non fa l’esame delle intenzioni che lo producono — de internis nec Ecclesia —, ma dei risultati, degli esiti, sia relativamente a chi opera per il soddisfacimento dei bisogni altrui che a chi soddisfa i propri bisogni, sia per chi vende sia per chi compera, cioè per tutti, dal momento che nessun essere umano si esaurisce in uno dei due ruoli, in quanto tutti siamo a diverso titolo venditori e compratori. A chi vende, la morale sociale cattolica non chiede di essere un filantropo, un benefattore, in quanto venditore, né chiede lo sia chi compera in quanto compratore: chiede anzitutto che si possa comperare e vendere, che viga un regime di libertà di compravendita, che non vi sia chi riconosca la legittimità, quando non la stessa esistenza, dei bisogni solamente sulla base del loro possibile, contingente, soddisfacimento, come accade in ogni regime economico socialista. Rispettosa della cosiddetta «autonomia delle realtà terrene» (14), la morale sociale cattolica non intende intervenire né nella vendita né nella compera, a meno che non si qualifichino come «proposte mortali» per la vendita e per la compera il richiamo alla loro natura e la denuncia del loro eventuale debordamento, cioè l’uso del potere contrattuale — sia esso del venditore o del compratore — non per offrire e per ottenere un buon prodotto, ma per conseguire scopi di potere eterogenei rispetto alla vita economica. Poiché per certo, nella prospettiva del Magistero ecclesiastico all’origine della dottrina sociale della Chiesa, la vita economica, come ogni altro aspetto del vivere umano, si realizza nella storia in pendenza di peccato originale, non di perfezione paradisiaca, non si può considerare «proposta mortale» per la vita economica il richiamo del fatto che essa, nel suo regime post peccatum, produce anche situazioni difficili, non automatica armonia; quindi abbisogna di correttivi metaeconomici e paraeconomici, cioè l’intervento dello Stato, il cui fine strutturale è il bene comune e che rappresenta la comune responsabilità — la responsabilità di tutti —, e del volontariato sociale, il cui fine volontario è lo stesso bene comune e attraverso il quale si esprime la capacità di dono di ciascuno. Ma, in entrambe le ipotesi, si deve trattare di interventi non intesi a togliere slancio alla vita economica mossa dal profitto, quello del venditore come quello del compratore, ma dalle conseguenze non direttamente volute e quindi sgradite di tale slancio. Perciò non si chiede all’imprenditore in quanto imprenditore di essere un buon samaritano, né pubblico né privato, ma di non pretendere che, per accrescere la tensione della concorrenza, questa si debba svolgere senza regole e senza provvidenze per fronteggiare i danni ai soggetti più deboli che vi prendono parte e agli stessi strumenti: non è forse questo il senso dell’attenzione ecologica?
Se vi è stata — e vi è stata — una stagione in cui, nel mondo cattolico, qualcuno, nella prospettiva di evitare le conseguenze sgradite della vita economica, ha flirtato quando non apertamente tifato per la morte della vita economica, cioè per il socialismo, il fallimento dichiarato del socialismo realizzato sembra aver prodotto sufficiente resipiscenza perché questi atteggiamenti siano abbandonati, almeno per il momento. Mentre non pare abbandonato, se non addirittura esaltato, l’atteggiamento di chi — i cosiddetti «poteri forti» — non intende semplicemente e lecitamente guadagnare di più, ma guadagnare di più per aver più potere e per creare condizioni di mercato nelle quali il profitto e il potere si espandano a dismisura e si confondano in una spirale sempre più vorticosa e vertiginosa.
Almeno un testo di riferimento. Papa Giovanni Paolo II è a Vero- na, il 17 aprile 1988, e parla al mondo del lavoro, nell’Agricenter della Fiera: «[…] il solo criterio del profitto non basta — afferma —, soprattutto quando fosse eretto a criterio assoluto: “Guadagnare” di più per “possedere” di più, e non soltanto oggetti tangibili, ma partecipazioni finanziarie che consentono nuove forme di proprietà sempre più larghe e sempre più dominatrici. Non che il mirare ad un profitto sia cosa di per sé ingiusta. Un’impresa non potrebbe farne a meno. La ricerca ragionevole del profitto, del resto, è in rapporto col diritto di “iniziativa economica”, che ho difeso nell’Enciclica [Sollicitudo rei socialis nel ventesimo anniversario della Populorum progressio, del 30-12-1987, n. 15] […]. Quel che intendo dire è che, per essere giusto, il profitto deve essere sottoposto a criteri morali, in particolare a quelli connessi col principio di solidarietà» (15). Ma — dirà qualcuno — è la conferma della tesi del professor Severino. Sì, se è realistica la definizione di capitalismo da lui proposta: un comportamento che non solo ha per certo uno scopo primario, quindi gode di una relativa autonomia, ma si vuole ontonomo, assoluto in sé e che pretende anche a una sorta di primato fra le attività umane. Diversamente acquistano rilievo i problemi di convivenza — per così dire — dell’attività economica con le altre attività umane, e la sua compatibilità con la dottrina sociale della Chiesa.
Convengo con il professor Emanuele Severino sul fatto che l’instabilità politica italiana è in buona parte dovuta all’equivoco costituito da una inadeguata lettura dei due termini; perciò mi sembra che il suo contributo al riguardo sia stato tale da fallire lo scopo pacificatorio in esso implicito. Ma — credo direbbe lo stesso filosofo — non avrebbe potuto essere diversamente, dal momento che il mezzo per conseguire la pacificazione, che nel caso è una chiarificazione, si è rivelato anch’esso sostanzialmente inadeguato, in quanto consistente in un’irrealistica descrizione sia del capitalismo, sia delle esigenze morali di cui si fa paladina la Chiesa cattolica: infatti, come è possibile conseguire il fine se si sbaglia il mezzo?
Note:
(6) Cfr. EMANUELE SEVERINO, Perché il capitalista non può dirsi cattolico, in Corriere della Sera, 15-1-1997; e IDEM, No signori, il vero imprenditore non è un buon Samaritano, ibid., 22-1-1997.
(7) IDEM, Perché il capitalista non può dirsi cattolico, cit.
(8) Ibidem.
(9) Ibidem.
(10) Ibidem.
(11) IDEM, No signori, il vero imprenditore non è un buon Samaritano, cit.
(12) Ibidem.
(13) Cfr. PIO XI, Enciclica Divini Redemptoris sul comunismo ateo, del 19-3-1937, n. 58, in Enchiridion delle Encicliche. 5. Pio XI (1922-1939), Edizioni Dehoniane, Bologna 1995, pp. 1129-1205 (pp. 1184-1185).
(14) Cfr. CONCILIO ECUMENICO VATICANO II, Costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et spes, n. 36.
(15 ) GIOVANNI PAOLO II, Discorso al mondo del lavoro nell’Agricenter della Fiera di Verona, del 17-4-1988, n. 4, in Insegnamenti di Giovanni Paolo II, vol. XI, 1, pp. 936-942 (pp. 938-939).