Giovanni Cantoni, Cristianità n. 264 (1997)
Articolo anticipato, senza note e con il titolo redazionale Berisha, il male minore, in Secolo d’Italia. Quotidiano di Alleanza Nazionale, anno XLVI, n. 66, 19-3-1997, pp. 1 e 14.
Marzo 1997, guardando oltre il Canale d’Otranto: qualche considerazione sul passato e sul presente della crisi albanese
Ancora una volta l’albero nasconde la foresta: l’esodo di albanesi dall’Albania e le difficoltà della loro accoglienza in Italia — fatti e problemi reali — non devono occultare le cause che li producono.
Nel paese europeo più povero, con alle spalle secoli di dominazione ottomana, ha infierito per circa mezzo secolo un regime socialcomunista se non ignoto in Occidente, Italia compresa, per certo non adeguatamente noto, nel quale, a ridosso dell’implosione del sistema imperiale socialcomunista, una nomenklatura di seconda fila — la seconda fila della nomenklatura? — ha sostituito la precedente. Facendo riferimento esclusivamente alla periferia di tale sistema imperiale, in Albania il tutto si è svolto senza la precisione teutonica con cui la successione si è realizzata nella Repubblica Popolare Tedesca e nella germanizzata Cecoslovacchia, però anche senza le «difficoltà» incontrate da tale processo per breve tempo in Romania e in via di cronicizzazione nella ex Jugoslavia. Ma il mondo socialcomunista albanese non era esterno al sistema imperiale sovietico? A vista così pareva e così si è fatto e si fa credere: concretamente, rimane il collegamento fra il crollo del sistema nell’una e nell’altra realtà, il che suggerisce — per dire il meno — un legame fra esse, anche se evidentemente non palese.
Comunque, «gli albanesi hanno conquistato la libertà». E la libertà si è attivata in un mondo caratterizzato da una forbice mostruosa fra il reale, il punto di partenza, e l’ideale, il sogno: un sogno più italiano che albanese, alimentato dalla ricezione dei mass media appunto italiani. Prescindendo da considerazioni di carattere morale, se la stessa condizione italiana non è descritta neppure mediamente dall’immagine italiana, la discrepanza fra la condizione albanese e l’immagine italiana è abissale. Quindi la libertà si è attivata con le maggiori tensioni e divergenze immaginabili fra le possibilità e le aspirazioni. La ripresa doveva rispettare la sequenza naturale: mettere in moto il settore primario, su cui innestare il secondario, quindi il terziario, finalmente quella sorta di terziario avanzato costituito dalla vita finanziaria. Non dico che non sia stato fatto nulla dalla nomenklatura salita al potere: sarebbe assolutamente ingiusto; dico che i governati hanno desiderato e i governanti hanno forse immaginato di poter saltare passaggi, cioè di poter impiegare in borsa il bimbo solo perché vi lavora un vicino di casa con un appetibile stato sociale, e perché il bimbo stesso ha mostrato di appassionarsi al gioco del monopoli.
Così, i grandi-bimbi sono stati truffati da piccoli «gatti e volpi» — quelli grandi impazzano nel bacino del Danubio e altrove —, seppellendo i loro poveri zecchini nella speranza di vederne crescere la pianta, in un terreno in cui non cresce neppure l’erba, dopo che è stato reso arido e infecondo dalla costruzione di sei-settecentomila bunker — uno ogni quattro-cinque abitanti — per resistere all’attacco sempre imminente dei «capitalisti». Così, quando l’operazione dei piccoli «gatti e volpi» ha raggiunto il suo punto culminante, cioè ha esaurito i pinocchio e non ha più potuto pagare tassi necessariamente sempre maggiori — per essere sempre più attraenti — con i sacrifici di nuovi pinocchio, i pinocchio sono scesi in piazza. E con loro la vecchia nomenklatura e i suoi clientes — rancorosa ed esasperata dagli insuccessi elettorali, non sempre formalmente indiscutibili, comunque sostanziali —, la criminalità organizzata con referenti internazionali, turchi e italiani, e quella locale, favorita — nella misura della sua sopravvivenza — dalla struttura sociale a famiglia allargata, a clan, sopravvissuta a secoli di tempeste soprattutto, dove del caso, grazie alla protezione delle montagne. Sia detto di passaggio: meriterebbe di essere illustrata la differenza radicale fra criminalità organizzata che si dà alla politica e spezzoni di mondo politico che si danno a pratiche criminali — la mafia italiana e quella russa non hanno la stessa origine — come pure di venire svolta l’analogia non piccola fra la struttura sociale albanese e quella afghana, in quanto feconda di non pochi spunti interpretativi.
Così, in rivolta contro le fradice strutture statuali, il corpo sociale le ha sfasciate e si è sfasciato. E il corpo sociale sfasciato sta fuoriuscendo dove maggiore è stato lo sventramento, nella parte meridionale del paese. Si badi bene: fugge dalla parte meridionale del paese, non da quella settentrionale, perché fugge i rivoltosi, le bande, comuniste e criminali, e non il regime guidato da Sali Berisha.
Eccolo, finalmente, il nome del capro espiatorio su cui si scarica — con il contributo orientato e orientante dei mass media — e in cui trova una presunta unità ogni sforzo interpretativo di una realtà complessa, sia nello spazio che nel tempo. Ebbene, provo a farmi capire con analogie. Comincio con un’analogia italica: tutti sanno — dovrebbero sapere — che nel 1956, all’epoca della rivolta ungherese e della repressione socialcomunista, nel Partito Socialista Italiano si manifestò, fra altre, una linea detta «carrista», in quanto giustificazionista della repressione operata dai carri armati sovietici. Pochi colgono in quella lotta interna al partito socialista la preistoria, il prologo del craxismo, che operò con successo la de-ideologizzazione di tale forza politica, trasformando dei nemici della proprietà privata, dei «ladri ideologici», in amici della propria proprietà privata, in operatori — con altri e di diversa provenienza — di Tangentopoli. Ebbene, credo che Berisha tolleri l’analogia con Bettino Craxi: non so se anche un’analogia personale, certo un’analogia tipica, relativa all’opera oggettivamente realizzata o almeno avviata. Domanda: in un mondo che offre soltanto l’alternativa fra «carristi» e craxiani, con chi schierarsi, sia all’interno che all’estero?
Sempre in analogia, ricordo uno scritto — pubblicato a Città di Messico a metà degli anni 1980 —, insieme confessione e testimonianza, dell’imprenditore nicaraguense Jaime Morales Carazo, il cui titolo riprendeva una sorta di detto apparentemente sapienziale, di slogan corrente in Nicaragua e fra gli emigrati dal piccolo paese centroamericano in pendenza della dittatura di Anastasio Somoza: ¡Mejor que Somoza cualquier cosa!, «Qualunque cosa è meglio di Somoza!». Così pareva prima del 1979, ma non era così: perché poi, cacciato e assassinato Somoza, sono venuti i sandinisti: e il sottotitolo recita Revolución nicaragüense y sandinismo: la otra cara de la moneda, «Rivoluzione nicaraguense e sandinismo, l’altra faccia della moneta» (1).
Credo che di queste lezioni, dell’altra faccia della medaglia si debba tener conto, sia in Albania che all’estero, per fronteggiare l’accesso febbrile che ha scosso e sta sconvolgendo e radicalmente dissociando una società per certo bisognosa di altro, aizzandola a prodursi in una sorta di saturnali: infatti, se tali non sono le uccisioni di avversari non precisamente qualificati né i saccheggi delle poche ricchezze in via di costituzione — grazie anche all’imprenditoria italiana —, tali sono nella sostanza i saccheggi delle molte miserie, che cambiano proprietario di fatto e vengono semplicemente allocate in modo diverso e in spregio a qualsiasi legalità.
Ripeto, il riferimento deve essere a Berisha o a qualcuno della sua cordata, nel caso egli sia stato reso intollerabile dall’aggressione massmediatica; infatti, si tratta di una cordata che passa attraverso l’inesperienza e la superficialità, per certo colpevoli, ma che porta alla libertà, condizione — non causa — di ogni possibile miglioramento. No, non confondo Berisha con Giorgio Castriota — per gli ottomani Iscanderbeg, quindi italianizzato in Scanderbeg —, che è morto nel 1468, così come non ho mai confuso, a suo tempo, Ronald Wilson Reagan con Goffredo di Buglione. Ricordo soltanto che Scanderbeg, prima di convertirsi al cristianesimo e di meritare la qualifica, da parte di più di un Pontefice dell’epoca, di athleta Christi, aveva comandato le truppe ottomane contro serbi e ungheresi. E credo oggetto di almeno legittima previsione il fatto che, stando le cose come le ho descritte, chiunque venga dopo Berisha sia esposto al rischio di cadere negli errori da lui già commessi, impedendo alla classe dirigente attuale, che non ha dato straordinaria prova di sé, di far fruttare almeno la sua breve esperienza. Con danni enormi anche per i governati e non piccoli per partner internazionali, fra cui primeggia, per ragioni geografiche, la Repubblica Italiana.
Giovanni Cantoni
Note:
(1) Cfr. JAIME MORALES CARAZO, ¡Mejor que Somoza culaquier cosa! Revolución nicaraguense y sandinismo: la otra cara de la moneda, Compañía Editorial Continental, Città di Messico 1986.