Stefano Nitoglia, Cristianità n. 418 (2022)
Dal mese di settembre di quest’anno l’Iran, l’antica, favolosa, Persia dei tappeti volanti e delle Mille e una notte, è nuovamente scosso dalle proteste contro il regime teocratico degli ayatollah. «Marg bar Khamenei», «Marg bar dictator» («morte a Khamenei», la guida suprema islamica, «morte al dittatore»: entrambi gli slogan sono in lingua farsi) si sente risuonare nelle piazze di centinaia di città iraniane. Sono soprattutto le donne iraniane — ma sarebbe preferibile la vecchia denominazione «persiane», che deriva da «Persia», l’antico nome della grande nazione, ponte fra l’Oriente e l’Occidente — a guidare coraggiosamente le proteste, che hanno coinvolto centinaia di città, anche quelle più tradizionaliste come Mashad e Qom, sedi di importanti santuari sciiti e di scuole coraniche, e sono arrivate fino alla capitale Teheran.
Questa volta la causa dello scoppio delle sommosse è stata l’uccisione, da parte della «polizia morale», di Mahsa Amini, una ventiduenne originaria di Saqqez, nel Kurdistan iraniano, arrestata e torturata fino alla morte, il 13 settembre scorso a Teheran, perché indossava in maniera inappropriata l’hijab, il velo islamico che deve coprire interamente il capo delle donne.
Le proteste continuano ancora, nonostante la feroce repressione degli apparati di sicurezza iraniani. Si parla, fino ad ora, di circa 440 morti fra i manifestanti, 56 fra gli agenti di polizia, ventimila arresti e 28 condanne a morte comminate, nonché del blocco dei conti correnti bancari per le donne che non indossano il velo.
Fra i motivi delle proteste vi sono certamente quelli economici, con il caro-vita causato dalle sanzioni statunitensi, ma non solo quelli: l’episodio di Mahsa Amini lo dimostra. Le contestazioni sono legate anche all’insofferenza della popolazione, soprattutto femminile, nei confronti delle rigide regole della morale islamica, molto formalista e farisaica.
Non è la prima volta che il regime teocratico viene contestato da quando, nel febbraio del 1979, l’ayatollah Khomeynī (Ruḥollāh Moṣṭafāvī Mōsavī Khomeynī, 1902-1989) ha preso il potere rovesciando la giovane monarchia Pahalavi, costringendo alla fuga il secondo e ultimo Scià della dinastia, Mohammad Reza Pahalavi (1919-1980), e fondando la «Repubblica islamica», una novità assoluta — e contestata perfino da numerosi altri ayatollah — nel mondo musulmano sciita.
Lo sciismo, infatti, nella sua versione tradizionale ha sempre avuto un pregiudizio negativo nei confronti della politica, che si sarebbe come guastata dal momento dell’«occultamento» del dodicesimo imam Muḥammad al-Mahdī (869-940), che dovrebbe durare fino al suo ritorno epifanico alla fine dei tempi nella veste del Mahdī, appunto. Nell’attesa dell’epifania dell’ultimo imam, secondo la dottrina sciita tradizionale, nessun potere politico è pienamente legittimo.
Questa concezione è stata completamente stravolta dalla rivoluzione iraniana khomeynista del 1979, allorquando Khomeynī ha imposto la teoria del velāyat-e faqih (tutela del giureconsulto), da lui elaborata nel corso della sua lunga vita, che comporta un intervento diretto della gerarchia religiosa sciita nella politica. Con quali risultati lo stiamo vedendo.
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La recrudescenza delle proteste è l’occasione per tornare su una fase ambigua della crisi iraniana del 1979.
«Non ti illudere, Badrì, sono a conoscenza di un accordo segreto fra Stati Uniti e Unione Sovietica in base al quale l’America abbandonerà al suo destino lo Scià e l’Iran lascerà l’Occidente per entrare a far parte dei Paesi non allineati». Così rispondeva, alla fine del 1977, il dottor Djavad Said († 1979), presidente del Majilis, la Camera bassa iraniana, nonché ultimo segretario generale del partito unico Rastakhiz («Partito della Rinascita»), a Badrozzaman (detta Badrì) Zandi (1925-2016), capo del cerimoniale del Majilis, che si rallegrava con lui della potenza raggiunta dall’allora bastione dell’Occidente in Medio Oriente.
Lo raccontò a chi scrive — che ne prese allora buona nota — la stessa Badrì Zandi, agli inizi del 1979, appena dopo lo scoppio della rivoluzione khomeynista. Seguii con molta attenzione, anche per questioni familiari, gli avvenimenti iraniani, i cui ricordi affiorano vividi nella mia memoria ora, quando le proteste scuotono nuovamente l’Iran e il sangue di tanti giovani bagna questa antica terra. La rivoluzione khomeynista ha contribuito in maniera determinante a rilanciare l’islamismo fondamentalista nel mondo e merita, quindi, di essere ricordata.
Poco dopo il colloquio fra i due, ci sarebbe stato il brindisi del 31 dicembre 1977 al palazzo reale di Teheran fra lo Scià Mohammad Reza Pahalavi e il presidente degli Stati Uniti James «Jimmy» Earl Carter Jr., durante il quale Carter definì l’Iran «un’isola di stabilità nel Medio Oriente» (1). L’Iran sembrava allora veramente al suo apogeo. Ma il fuoco covava sotto la cenere. Il 7 gennaio 1978, dopo appena una settimana dal brindisi di Capodanno, il regime faceva pubblicare su Ettela’at, uno dei più antichi quotidiani persiani, un articolo intitolato «L’imam e il colonialismo rosso e nero», in cui si accusava Khomeyni di essere un agente al soldo dei britannici. Un clamoroso passo falso che scatenò le proteste dei fanatici islamici.
Da allora vi fu un crescendo di violenze, che culminò con l’esilio dello Scià, il 16 gennaio 1979, il rientro in patria di Khomeyni, il 21 gennaio, e l’inizio della sanguinosa Rivoluzione da questi guidata. Molti esponenti del precedente regime furono arrestati e giustiziati. Fra questi, uno dei primi fu proprio Djavad Said, arrestato nel febbraio del 1979 e fucilato insieme ad altri venti esponenti del regime dello Scià dalle Guardie della Rivoluzione a Teheran l’8 maggio successivo, dopo un processo sommario (2). Iniziava così, nel terrore e nel sangue, il regime teocratico iraniano (3).
L’Iran prima della rivoluzione fondamentalista. La Persia sciita dei Safavidi
Fino all’alba del secolo XVI la Persia, come si chiamava l’Iran prima del cambiamento della denominazione decretato nel 1935 dall’allora Scià Reza Pahalavi (1878-1944), il fondatore della dinastia, per rivendicare il passato preislamico della grande nazione mediorientale («Iran» significa, infatti, «paese degli ariani»), apparteneva all’area dell’islam sunnita, la corrente maggioritaria dell’islam.
In quel periodo il Paese delle Mille e una notte venne conquistato dalla tribù di etnia turca dei Qizilbas safavidi, che nel 1501 diedero inizio alla dinastia Safavide, sul trono fino al 1722. Agli inizi del secolo XVII, con Abbas I (1557-1629), scià di Persia dal 1587, l’islam sciita duodecimano — uno dei tre filoni in cui si articola quella confessione — divenne religione di Stato, segnando un punto di svolta storicamente decisivo.
La differenza tra islam sciita e islam sunnita è fondata, oltre che su questioni legate alla legittimità o meno dei successori del fondatore dell’islam, Maometto (570 ca.-632), anche su diverse interpretazioni della storia, della teologia e della legge islamiche, nonché su un difforme elemento temperamentale di fede e devozione (4).
Quando Maometto morì, i suoi compagni scelsero come successore, o califfo, il suocero e amico intimo Abu Bakr (573-634). Fra loro, però, un piccolo gruppo riteneva che fosse più qualificato il cugino e genero Alì ibn Abi Talib (599-661), che del fondatore della religione islamica aveva sposato la figlia, Fatima bin Muhammad, detta «la Luminosa» (605-633).
Prevalse il primo orientamento e i dissidenti, incluso Alì, accettarono la leadership di Abu Bakr. A questi succedettero poi Omar ibn al-Khaṭṭāb (589 ca.-644), Othman ibn Affan (574-656) e, infine, Alì. Questi quattro, secondo i sunniti, sono i cosiddetti «califfi ben guidati» o «Rashidun», la cui epoca rappresenta, sempre per i sunniti, l’età dell’oro dell’islam, anche se di un oro macchiato di sangue dato che, a parte il primo, morirono tutti di morte violenta per mano musulmana. L’assassinio di Alì, però, scatenò la contestazione dei suoi seguaci contro la scelta dei primi tre successori di Maometto: essi ritengono tutt’ora, infatti, che solo la nomina di Alì sia legittima. Nacque così il «partito di Alì», in arabo shīʿat ʿAlī, da cui la denominazione di scia e di sciiti.
Gli sciiti, da allora, riconoscono come califfi legittimi, chiamati imam, soltanto i discendenti di Alì. All’interno della confessione sciita alcuni ritengono che il dodicesimo imam, Muhammad ibn Hasan detto «al-Muntasar», cioè «l’atteso», o «al-Mahdi», cioè «il Guidato» (868-941), sia celato misteriosamente agli occhi degli uomini — in «occultamento minore» dall’874 e in «occultamento maggiore» dal 941 — fino a quando ricomparirà alla fine del mondo per instaurare il regno della Giustizia e della Verità che precede il Giudizio. Nasce, in tal modo, il filone degli «sciiti dei dodici imam», altrimenti detti «sciiti duodecimani», imperniato sulla teologia dell’«imam nascosto».
Se l’imam è occultato ma presente, qualsiasi altro potere è dunque illegittimo poiché usurpa la sola, autentica, autorità esistente. In assenza dell’imam nascosto, ogni assunzione diretta del governo da parte delle gerarchie religiose è ritenuta inutile (5).
Mentre nell’islam sunnita si crea la coincidenza fra potere politico e potere religioso, la shi’ah è caratterizzata dalla concezione dell’imam, decisamente diversa da quella del califfo sunnita. Se nel sunnismo, infatti, l’imam è semplicemente colui che dirige la preghiera, per gli sciiti l’imam, che deve appartenere alla famiglia di Alì, è il vero e proprio capo della comunità islamica e l’assiste, o in lui risiede, a seconda delle varie tendenze, la presenza divina, la qual cosa lo rende infallibile. A differenza del califfo della tradizione sunnita, che è un semplice garante della prassi religiosa, l’imam sciita è dotato di un potere di magistero vivente (ta’lim). Per gli sciiti i religiosi sono quelli che possono avere l’ultima parola, nessun altro. Nasce, in tal modo, una gerarchia religiosa molto potente — ignota nel mondo sunnita —, che è quella che governa l’Iran attuale.
La nuova teoria della «tutela del giureconsulto»
La vacanza politica di quella che potremmo definire l’autorità spirituale iraniana dura fino all’avvento al potere di Khomeyni, il quale, invece, con la teoria della «tutela del giureconsulto» (velāyat-e faqih), impone una vera e propria rivoluzione nel mondo sciita (6). Ribaltando, come detto, la tradizione fino allora imperante, egli sostiene, infatti, che la funzione propria degli ulema, i dottori nella legge islamica, siano mullah o, meglio, ayatollah, può essere svolta nel modo appropriato solo se essi governano.
Non tutti gli sciiti accettano però la nuova teoria. Il maggiore oppositore di essa è stato il Grande Ayatollah — cioè il massimo esponente della gerarchia religiosa sciita persiana — Abol-Qasem Al-Koi (1899-1992), secondo cui il velāyat-e faqih è un’innovazione senz’alcun supporto teologico (7). Con la presa del potere da parte di Khomeyni, che assume il titolo di «Guida suprema della Rivoluzione Islamica» — ma che, particolare non privo di interesse, non era un Grande Ayatollah, o marja’ al-taqlid, ma solo un ayatollah (8) — e la feroce, sanguinosa, repressione di ogni dissidenza che ne segue, la paura zittisce la gerarchia religiosa contraria al nuovo indirizzo, soprattutto dopo che, con un gesto senza precedenti, il despota priva delle funzioni di Grande Ayatollah Muhammad Kazem Shariatmadari (1905-1986), un affronto che neppure gli Scià avevano mai nemmeno immaginato.
Sta di fatto che da allora, seppur con numerose resistenze, la teoria della «tutela del giureconsulto» è divenuta, se così si può dire, il principio fondamentale della nuova costituzione iraniana; e fino a quando essa resisterà alle critiche, è difficile che la situazione politica di quella che un tempo fu la Persia possa cambiare. Proprio questo nuovo impegno politico dell’islam sciita, a partire dalla rivoluzione khomeynista del 1979, ha inserito un ulteriore elemento di turbolenza nello scacchiere mediorientale.
I riscontri alle parole del dottor Said
A questo punto occorre domandarsi se vi siano dei riscontri oggettivi sul «complotto» fra Stati Uniti d’America (USA) e Unione Sovietica (URSS) ai danni dell’Iran, di cui parlava l’importante esponente politico persiano. Possibile che gli USA o, meglio, la sua amministrazione dell’epoca, avessero veramente deciso di abbandonare l’Iran?
Lasciamo la parola allo Scià: «Qualche mese più tardi — scrive alla metà del 1978 — ebbi l’occasione di incontrare il mio amico [Nelson Aldrich] Rockefeller [1908-1979]. “È forse concepibile”, gli chiesi a bruciapelo, “che gli americani e i russi si siano spartiti il mondo?”. “Certamente no”, mi rispose. Poi aggiunse: “Che io sappia, almeno …”» (9).
Alla fine di novembre del 1978 la Pravda, organo ufficiale del Partito Comunista sovietico, pubblicava un minaccioso articolo nel quale, commentando la situazione interna dell’Iran, si affermava: «Deve essere chiaro che qualsiasi intervento, a fortiori un intervento militare negli affari dell’Iran, Stato direttamente limitrofo dell’Urss, sarebbe considerato come un attacco agli interessi della sua sicurezza» (10). «Il 7 dicembre gli Stati Uniti fecero sapere, con una dichiarazione ufficiale, “che non sarebbero intervenuti, in alcun modo, in Iran”» (11).
«Oggi posso dire che da molte settimane, pensavo che il gioco era fatto, e che i dadi erano truccati», commenta lo Scià, che prosegue: «Da molto tempo, da circa due anni, trovavo l’atteggiamento di certi americani inquietante. Sapevo che alcuni di essi erano contrari al nostro programma militare; dichiaravano a chi voleva ascoltarli che i tecnici chiamati in qualità di esperti e di istruttori per l’impiego dei nuovi materiali di armamento avrebbero potuto servire come ostaggi ai russi» (12).
Alcuni episodi significativi
Questo atteggiamento è ben significato da almeno tre episodi.
Il primo. Prima dello scoppio dei disordini, Georges Lambrakis, primo segretario presso l’ambasciata degli Stati Uniti in Iran, rivela confidenzialmente al senatore Mohammed Ali Massoudi, il quale a sua volta ne parla al monarca: «Presto ci sarà in Iran un nuovo regime» (13).
Il secondo. Nei primi giorni del gennaio del 1979 il generale statunitense Robert Ernest Huyser (1924-1997), allora comandante in seconda dell’Organizzazione del Trattato del Nord-Atlantico (NATO), si reca a Teheran senza chiedere udienza allo Scià, a differenza di quanto in precedenza aveva sempre fatto, per prendere contatto con Mehdi Bazargan (1907-1995), uno dei fondatori del Movimento di Liberazione Iraniano e presidente del primo governo provvisorio costituito da Khomeyni (5 febbraio 1979), al fine di «liquidare il governo dello Scià» (14), preparare la transizione verso il governo Bazargan (15) e «neutralizzare l’esercito iraniano» (16).
Il terzo. Nel corso del processo subito nell’aprile del 1979, il generale Rabii (Amir Hossein Rabii, 1931-1979), comandante in capo dell’aviazione iraniana, fucilato il 9 aprile di quell’anno, «[…] avrebbe dichiarato ai suoi giudici: “Il generale Huyser ha gettato il sovrano fuori dal Paese come un topo morto”» (17).
Il ruolo del presidente Carter
Secondo il giornalista Alberto Negri un ruolo importante in questa nuova strategia americana fu giocato da Jimmy Carter, vincitore delle elezioni americane del 1976, che aveva fatto dei cosiddetti «diritti umani» la parte fondamentale del suo programma elettorale e che esercitò pressioni sullo Scià affinché allentasse la repressione e iniziasse un programma di liberalizzazione del regime, cosa che l’autocrate effettivamente fece (18).
«Gli Stati Uniti — scrive Negri — erano la potenza che sosteneva lo shah ma l’amministrazione Carter accettò, consapevolmente, che la dinastia Palhevi affondasse» (19). A riprova di ciò Negri cita Ebrahim Yazdi (1931-2017) (20): «I contatti tra noi, il gruppo di Khomeini e Carter risalivano a diversi mesi prima che lo shah se ne andasse da Teheran nel gennaio 1979. Fu Carter — racconta Yazdi — a chiedere a Khomeini di accettare il governo del premier monarchico Shapour Bakhtiar» (21).
Nella sua opera Negri sostanzialmente conferma quanto affermato dallo Scià sul ruolo avuto nella sua destituzione dall’amministrazione statunitense, tramite William Healy Sullivan (1922-2013), ambasciatore in Iran dal 1977 al 1979, e il generale Huyser. «Molti si domandano, giustamente, come mai le forze armate più potenti del Medio Oriente non fecero nulla per frenare la rivoluzione. Nell’inverno del ‘78, dopo le carneficine dei mesi precedenti, la monarchia decise di non usare l’esercito e l’opzione militare venne esclusa già negli incontri dell’ottobre 1978 tra l’ambasciatore Usa Sullivan, lo shah e il generale Oveissi [Gholam-Ali Oveissi, 1918-1984], comandante in capo. Inoltre, l’alto ufficiale americano Robert Huyser, inviato a Teheran nel gennaio 1979 per capire cosa fare con i generali delle forze armate, prese contatti con l’opposizione per verificare la possibilità di una coalizione tra militari e Khomeini. […] Washington non solo aveva abbandonato lo shah ma stava facendo la stessa cosa con il primo ministro Bakhtiar nominato da Mohammad Reza. E in seguito l’amministrazione Carter non fece nulla — se mai fosse stata in grado — per sostenere il governo del moderato Bazargan, che pure contava un folto manipolo di ministri “americani”» (22).
La crescita della potenza militare ed economica dell’Iran imperiale
Va detto che, in fin dei conti, l’Iran, con il suo glorioso passato imperiale, del quale è stato sempre molto orgoglioso, e con una lunga storia di invasioni, che gli hanno inculcato una mentalità contraria alle ingerenze straniere, non si è mai sentito alleato degli Stati Uniti (23).
Mohammad Reza Pahalavi, soprattutto negli ultimi anni del suo regno, vagheggiava un Iran attore geopolitico primario nell’area del Golfo Persico, pensando a un Oceano Indiano libero dalle superpotenze. In questa chiave, avvalendosi dei proventi derivati dall’aumento del prezzo del petrolio, il monarca avviò un processo di modernizzazione e un programma di potenziamento militare allo scopo di trasformarsi in «grande potenza» nella regione e di realizzare un più saldo controllo sul Golfo (24).
Secondo i suoi programmi (25), nel 1982 gli effettivi dell’esercito persiano dovevano passare da 540.000 uomini a 760.000, con 1.500 Leoni dell’Iran, carri armati con cannone da 120 mm., al telemetro a laser e nuova corazzatura; 800 carri armati inglesi Chieftain, a motore potenziato e con lo stesso cannone ed elementi di tiro dei Leoni dell’Iran; 460 carri armati americani M-60, con cannone da 105 a giroscopio; 400 carri armati americani M-47 Patton, con cannone da 90 mm sostituibile con uno da 105; 250 carri armati inglesi Scorpion da ricognizione; oltre a un migliaio di mezzi blindati e 2.000 autoblindo. I reparti di artiglieria dovevano avere la stessa potenza di fuoco di quelli della NATO
L’aviazione contava di avere 78 F-14 dotati di missili Phoenix, 250 F-4 Phantom tecnologicamente aggiornati, oltre 100 F-5 E, un centinaio di F-15, 160 F-16 (tutti velivoli di produzione statunitense), svariate centinaia di elicotteri, diversi missili antiaerei SAM-2 di fabbricazione sovietica, missili terra-aria AGM-65 Maverick, missili anti-carro BGM-71 Tow supersonici a laser, superiori a quelli americani, e lanciarazzi teleguidati FGM-77 Dragon, di portata doppia rispetto a quelli allora utilizzati.
Le previsioni sulla marina contemplavano 4 incrociatori da 8.000 tonnellate, 12 cacciatorpediniere da 3.000 tonnellate, 12 motocannoniere missilistiche francesi Combattante II, 12 sottomarini, 50 elicotteri, una flotta di mezzi per il trasporto truppe, navi cisterna, navi appoggio, aerei da ricognizione a largo raggio Lockheed P-3 Orion.
«Questa marina da guerra — scrive lo Scià — avrebbe potuto non soltanto incrociare nel Golfo, ma arrivare ai confini dell’Oceano Indiano […]. Nel 1982, le nostre forze armate convenzionali sarebbero state tra le prime nel mondo e perfettamente in grado di garantire la salvaguardia dei nostri interessi nel Golfo Persico, ma anche di contribuire al mantenimento della stabilità e della pace nell’Oceano Indiano» (26).
Le responsabilità dello Scià nella crisi
Se l’ipotesi descritta dall’uomo politico persiano di un patto segreto USA-URSS ai danni dell’Iran fosse vera, quali potrebbero essere i motivi che avrebbero indotto l’amministrazione Carter a lanciarsi in questo gioco pericoloso, che ha finito per ritorcersi contro di essa?
Lotta di potere all’interno dell’amministrazione statunitense? L’intenzione di creare aree di caos in zone strategicamente sensibili, perché, come si dice, nel torbido si pesca meglio? Voglia di esportare la democrazia in ogni angolo del mondo? Timore della crescita della potenza economica e militare dell’Iran in una zona delicata e strategica? Ingenuità? O un po’ di tutto questo?
A questo punto, prima di affrontare il problema, va fatta una premessa necessaria. Va detto, cioè, che anche lo Scià ha pesanti responsabilità nella crisi dell’Iran imperiale. Con la sua dissennata politica di modernizzazione forzata, che prendeva ad esempio gli aspetti deteriori del mondo moderno occidentale; con una politica economica confiscatoria della proprietà rurale; con la distruzione dei corpi sociali intermedi, soprattutto tribali, per costruire uno Stato accentratore e autoritario; con una corruzione morale abbastanza diffusa; con tutto ciò lo Scià ha posto le basi per la sua caduta.
Il padre dello Scià era Reżā Shāh (1878-1944), pastore del Mazanderan, regione a nord-est di Teheran, il quale, nonostante le sue modeste origini, entrato nell’esercito ne aveva scalato le gerarchie fino a diventare ministro della Guerra sotto la dinastia Qajar, per poi abbatterla con un colpo di Stato nel 1925. Era divenuto così Scià di Persia con il nome di Reza Pahalavi e aveva dato inizio alla omonima dinastia, non senza prima aver vagheggiato di abolire la monarchia per dar vita a una repubblica presidenziale sull’esempio di quella di Mustafa Kemal Pacha, detto Atatűrk («padre dei Turchi», 1881-1938), in Turchia.
Reza Pahalavi avviò un’energica politica di «modernizzazione» e di laicizzazione della Persia, disancorandola dalle proprie origini culturali e religiose. Industrializzò il Paese a scapito dell’agricoltura e favorì il fenomeno del trasferimento della popolazione dalle campagne verso le grandi città, soprattutto la capitale Teheran. Nel 1928 promulgò una nuova legislazione sul modello francese, in cui il potere statale e quello religioso erano rigorosamente separati. Nel 1929 abolì gli abiti tradizionali persiani e proibì il velo per le donne.
Questa politica provocò la crescente opposizione da parte della gerarchia sciita guidata dall’ayatollah Seyyed Hasan Modarres (1878 ca.-1939), fino all’arresto e alla successiva uccisione in carcere del giureconsulto. Reza Pahalavi fu costretto all’abdicazione e all’esilio nel 1941 dal Regno Unito e dall’Unione Sovietica, che avevano invaso il Paese temendo una possibile alleanza dello Scià con la Germania nazionalsocialista, cui avrebbe potuto mettere a disposizione le sue ingenti riserve petrolifere.
A Reza Pahalavi succedette il figlio, Mohammad Reza Pahalavi, che proseguì e intensificò la politica del padre, perfezionando la creazione di uno Stato autoritario e accentrato, combattendo spietatamente le autonomie tribali e schierando decisamente il Paese nel campo occidentale.
Negli anni 1960 lanciò la cosiddetta «Rivoluzione bianca», fondata su diciannove «princìpi», fra i quali la modernizzazione del sistema scolastico; un nuovo sistema sanitario, mediante la creazione di un «Esercito dell’Igiene»; la riforma agraria, con la confisca di molte delle grandi proprietà della gerarchia sciita e delle grandi famiglie principesche iraniane; la nazionalizzazione delle foreste e dei pascoli; la partecipazione degli operai agli utili d’impresa e la vendita agli stessi fino al 49% delle azioni delle grandi unità produttive; la nazionalizzazione di tutte le risorse idriche; il controllo centralizzato dei prezzi; e, infine, il controllo e il blocco degli affitti e dei prezzi delle unità immobiliari (27).
Insomma, si trattava di una specie di socialismo nazionale illuminato, che, unito alla politica di laicizzazione forzata e di lotta alle grandi tribù, gli alienò le simpatie di queste ultime, dei religiosi e della classe commerciale, i cosiddetti «bazarì», la potente corporazione dei commercianti del bazar, che hanno sempre avuto un ruolo importante in ogni rivoluzione in Iran, come quella cosiddetta «costituzionale» del 1906.
A ciò si aggiungeva l’influenza degli intellettuali religiosi sciiti e dell’alta borghesia, stanca del legame con le compagnie occidentali, che limitavano il commercio del petrolio, nonché, fattore non trascurabile, quella dei giovani che, con le borse di studio concesse loro dallo Scià, andavano a studiare nelle università occidentali, dove assorbivano il pensiero dominante marxista e relativista, importando in patria alla fine degli studi.
Fra gli altri importanti elementi causa della crisi del 1979 va segnalato, ancora, lo scollamento, giunto fino alla contrapposizione violenta, fra l’élite iraniana occidentalizzata e amorale, che seguiva l’«american way of life» e che abitava nei quartieri eleganti a nord di Teheran facendo largo uso di oppio, e i ceti suburbani, poveri e religiosi, che abitavano nei quartieri popolari della Teheran sud, i cosiddetti mostazafin, «senza scarpe» (28).
E, infine, il revival, con toni spesso da operetta, dell’antica civiltà iranica pre-islamica della monarchia achemenide — basti pensare alla fastosa cerimonia dell’incoronazione dello Scià, nel 1967, e alle celebrazioni, altrettanto fastose e con aspetti tendenti al kitsch, dei duemilacinquecento anni della monarchia persiana svoltesi, fra le rovine di Persepoli e sulla tomba di Ciro II «il Grande» (590-530 a.C.), a Pasargadae nel 1971 —, la diffusione della massoneria (molti alti dignitari dell’establishment iraniano erano massoni), la vita piuttosto movimentata dell’ultimo Scià, che amava frequentare il jet set internazionale.
Questo fu il terreno, l’humus, nel quale vennero coltivati i germi della rivoluzione fondamentalista islamica.
Gli USA hanno veramente abbandonato lo Scià?
Sulla base delle informazioni disponibili non è dato sapere quali motivi potrebbero aver indotto l’amministrazione statunitense ad abbandonare lo Scià: si possono fare soltanto delle ipotesi.
Una di queste è che l’aumento della potenza militare ed economica iraniana e la volontà di rivendicare una propria autonomia in un’area geo-politica economicamente e strategicamente nevralgica, potessero impensierire gli americani. Va anche detto che, se vi erano buoni motivi per temere la crescita di potenza dell’Iran, ve n’erano altrettanti per mantenere un alleato potente in una zona strategica anche in versione anti-URSS.
All’inizio degli anni 1970 l’Iran costringe le compagnie petrolifere a superare il vecchio accordo del 1954 basato sul «50/50» — il 50% dei profitti al Paese produttore e l’altro 50% alle compagnie estrattrici — e a ottenere il 55% dei profitti in suo favore. Poi, riesce ad ottenere, con le Conferenze di Teheran (febbraio 1971), di Tripoli in Libano (aprile 1971) e di Ginevra (gennaio 1972) dell’OPEC, l’Organizzazione dei Paesi Produttori di Petrolio, di cui l’Iran è uno dei fondatori, anche un notevole aumento del prezzo del petrolio e la sua indicizzazione.
Nel 1973, allo scadere dell’accordo internazionale stipulato nel 1954, lo Scià, riprendendo il vecchio progetto dell’antico primo ministro di suo padre, Mohammad Mossadeq (1882-1967), espropria le compagnie straniere e ridà alla NIOC, la National Iranian Oil Company, la compagnia petrolifera statale iraniana, il pieno controllo dell’industria petrolifera del Paese. In quell’anno l’Iran è ormai divenuto il quarto Paese produttore di petrolio e il secondo esportatore.
Federico Petroni, «[…] a riprova di come le strade delle due potenze avessero iniziato a separarsi già prima dell’avvento di Khomeini» (29), ricorda, inoltre che, quando, il 6 marzo 1975, Mohammad Reza Pahalavi firmò i cosiddetti Accordi di Algeri con l’Iraq di Saddam Hussein (Ṣaddām Ḥusayn ʿAbd al-Majīd al-Tikrītī, 1937-2006), che ponevano fine alla secolare questione dei confini tra i due Stati, individuati finalmente nel fiume Shatt al-’Arab, senza avvertire gli americani, questi cominciarono a pensare seriamente di contenere l’Iran (30) e suggerirono all’Arabia Saudita di aumentare la produzione petrolifera in modo da abbassare il prezzo del petrolio e mettere in difficoltà le casse di Teheran.
I rapporti Stati Uniti-Iran iniziano a guastarsi nei primi anni 1970? È esistito veramente il patto segreto USA-URSS denunciato da Djavad Said? Sono quelle sopra esposte le possibili ragioni della crisi dell’Iran imperiale e della caduta dello Scià? Al momento sono solo delle ipotesi.
Venendo a oggi
L’Iran è nel caos più completo e sull’orlo di una guerra civile. Non è dato sapere, però, chi vi sia dietro alle manifestazioni, se, cioè, siano spontanee oppure dirette da qualcuno, anche dall’estero, oppure vi sia un centro direttivo in Iran e da chi sia composto. Si parla degli Stati Uniti, che soffierebbero sul fuoco per mettere in difficoltà l’Iran, dato che appoggia la Russia. Ma ciò non tiene conto del ruolo svolto dagli Stati Uniti nella rivoluzione del 1979 contro lo Scià, come si è detto. Anche ora non farebbe comodo all’America, o meglio ad alcuni settori dell’Amministrazione statunitense, un Iran liberato dalla teocrazia islamica, che lo ha portato sull’orlo della bancarotta e che potrebbe finalmente rinascere.
Quale sarà la sorte del Paese, importante ponte fra l’Oriente e l’Occidente, una volta fiorente, attualmente non è facile prevedere. Si scrollerà dalle spalle la teocrazia islamica e si avvierà verso una politica di pace e di riconoscimento delle libertà dei cittadini, anche di quella religiosa, oppure, una volta schiacciate le proteste, assisteremo a un giro di vite in senso ancora più teocratico? Oppure potrebbe anche sprofondare nel caos della IV Rivoluzione anarchica, delineata nel saggio Rivoluzione e Contro-Rivoluzione di Plinio Corrêa de Oliveira (1908-1995) (31), una rivoluzione in interiore homine, con l’atrofia del pensiero razionale e lo scatenamento delle passioni? Oppure, ancora, ipotesi del tutto opposta, alla fine dei torbidi potrebbe essere restaurata la monarchia? In quel caso l’interrogativo è: perpetuerà gli errori del passato, con un’occidentalizzazione forzata che non tenga conto dell’antico patrimonio culturale della Persia, imponendo i «valori» dell’America di celluloide hollywoodiana, tanto per semplificare? O vi sarà una nuova repubblica, non più islamica?
Poiché il quadro non è chiaro, è ancora presto per dirlo.
Expectans expectavi.
Stefano Nitoglia
Note:
1) Cfr. Andrea Cortellari, Relazioni Usa-Iran, in il Giornale, 28-09-2013.
2) Cfr. Mohammad Reza Pahlavi, Risposta alla storia. Il testamento politico e morale dello Scià, trad. it., Editoriale Nuova, Milano 1980, p. 281.
3) Sul valore della deterrenza, teorizzata chiaramente dal Corano, e sul «terrorismo islamico», cfr. Giovanni Cantoni (1938-2020), Aspetti in ombra della legge sociale dell’islam. Per una critica della vulgata «islamicamente corretta» Centro Studi sulla Cooperazione «A. Cammarata», San Cataldo (Caltanissetta) 2000.
4) Cfr. Vali R[eza]. Nasr, La rivincita sciita. Iran, Iraq, Libano. La nuova mezzaluna, trad. it., prefazione di Farian Sabahi, Università Bocconi Editore, Milano 2007, p. 4.
5) La teologia imamita, che impone di fatto agli sciiti l’obbedienza al potere mondano fino al ritorno del Mahdi, finisce allora per relativizzare l’importanza del governante. Come scrive il sociologo dell’islam Renzo Guolo, «la credenza nell’Imam Nascosto, che ciascun fedele deve conoscere pena la morte nell’incoscienza di Dio, fonda, dunque, l’estraneità della tradizione sciita nei confronti del Politico» (Renzo Guolo, La Via dell’Imam. L’Iran da Khomeini a Ahmadinejad, Laterza, Roma-Bari 2007, p. 20).
6) Cfr. Hamid Enayat (1932-1982), Iran: Khumayni’s Concept of the «Guardianship of the Jurisconsult», in James P. Piscatori (a cura di), Islam in the Political Process, Cambridge University Press, New York 1983, pp. 160-180. I due autori, uno iraniano, l’altro statunitense, sono entrambi politologi.
7) Cfr. V. R. Nasr, op. cit., p. 91.
8) Gli elementi più anziani della gerarchia religiosa sciita sono fonte di emulazione o marja’ al-taqlid e si contano sulle punte delle dita. Normalmente risiedono a Najaf, in Iraq, o a Qom, in Iran. Con l’eccezione del Grande Ayatollah Muhammad Hussein Boroujerdi Seyyed Hossein Borujerdi (1875-1961), non vi è mai stato un supremo ayatollah universalmente accettato. Cfr. ibid., p. 39.
9) M. Reza Pahlavi, op. cit., p. 263.
10) Ibid., p. 264.
11) Ibid.,p. 263.
12) Ibid.,p. 262.
13) Ibid.,p. 265.
14) Robert Dreyfuss, Hostages to Khomeini, New Benjamin Franklin House, New York 1980, p. 127
15) Cfr. Kambiz Fatahi, Are the generals betraying the shah?, nel sito web <http://www.bbc.com/persian/iran/2016/06/160611_l13_shah_betrayed> (gli indirizzi Internet dell’intero articolo sono stati consultati il 30-12-2022).
16) M. Reza Pahlavi, op. cit., p. 266.
17) Ibid., p. 267.
18) Cfr. Alberto Negri, Il turbante e la corona, Tropea, Milano 2008, p. 116.
19) Ibid., p. 213.
20) Ebrahim Yazdi, fondatore dell’organizzazione paramilitare chiamata Guardie della Rivoluzione, consigliere di Khomeini nel periodo dell’esilio a Neauphle-le Château, nei pressi di Parigi, nonché vicepresidente del Consiglio e ministro ad interim degli Affari esteri nel governo Bazargan, viene definito dallo Scià «personaggio singolare che andava e veniva con un passaporto americano» (M. Reza Pahlavi, op. cit., p. 277).
21) Ibid., p. 213.
22) Ibid., pp. 213-214.
23) Cfr. Federico Petroni, L’odio innegoziabile degli Stati Uniti per la Repubblica islamica, in Limes. Rivista italiana di geo-politica, anno XXV, n. 7, luglio 2018, pp. 87-97 (p. 89).
24) «Dopo la guerra arabo-israeliana dell’ottobre del 1973 l’Iran non partecipò all’embargo sul petrolio decretato contro gli Stati Uniti, l’Europa e il Giappone. Al tempo stesso approfittò della situazione per rialzare i prezzi del petrolio. Con questi proventi avviò poi un processo di modernizzazione e un programma di potenziamento militare allo scopo di trasformarsi in “grande potenza” nella regione e di realizzare un più saldo controllo sul Golfo Persico» (cfr. voce Storia dell’Iran, in Storia digitale Zanichelli, nel sito web <https://dizionaripiu.zanichelli.it/storiadigitale/p/percorso/275/storia-delliran>).
25) Cfr. M. Reza Pahlavi, op. cit., pp. 177-180.
26) Ibid., pp. 180-181.
27) Cfr. ibid., pp. 93-97.
28) All’epoca, nei quartieri settentrionali di Teheran era possibile «[…] osservare graziose ragazze che sfilavano per le strade, vestite in espliciti abiti occidentali, da sole o con le amiche, che ostentavano la loro libertà, ricchezza e bellezza e, da un certo punto di vista, la loro immoralità e il disinteresse per la religione» (Michael G. [eorge] A. [ndrew] Axworthy (1962-2019), Iran rivoluzionario. Una storia della repubblica islamica, trad. it., LEG. Libreria Editrice Goriziana, Gorizia 2017, p. 108).
29) F. Petroni, op. cit., p. 90.
30) Cfr. ibidem.
31) Cfr. Plinio Corrêa de Oliveira, Rivoluzione e Contro-Rivoluzione. Edizione del cinquantenario (1959-2009) con materiali della “fabbrica” del testo e documenti integrativi, trad. it., presentazione e cura di G. Cantoni, SugarCo, Milano 2009, parte III, Rivoluzione e Contro-Rivoluzione vent’anni dopo, cap. 3, La IV Rivoluzione nascente, pp.177-186.