Daniele Fazio, Cristianità n. 418 (2022)
Seguendo il filone aristotelico-tomistico nonché alcuni aspetti della spiritualità cristiana, si capisce come l’amicizia sia un fattore assolutamente fondamentale per la realizzazione dell’uomo in quanto essere naturale e in quanto persona chiamata alla santità (1). Sia per Aristotele (384/383-322 a.C.) sia, ovviamente, per san Tommaso d’Aquino (1225-1274) gli amici in difficoltà vanno aiutati. La presenza dell’amico nelle disgrazie è come un sollievo e, fa notare lo Stagirita, se il sofferente non vuole comunicare il suo dolore all’amico per non renderlo partecipe di un dispiacere, questi però ha il desiderio di parteciparvi e di lenire, per quanto possibile, le sue difficoltà già con la sola sua presenza (2). San Tommaso non solo recepisce la lezione di Aristotele, ma la sostiene e la supera con la Rivelazione, in quanto il credente deve saper gioire con chi gioisce e soffrire con chi soffre. Una verità di ordine naturale viene condivisa anche all’interno dei dettami della fede, diventando uno dei modus operandi all’interno del rapporto di amicizia. Una tale dinamica, nell’ottica cristiana, rientra nei criteri della misericordia: «Essendo la misericordia […] il compatimento della miseria altrui, uno è spinto ad avere misericordia di tale miseria dalla stessa ragione per cui se ne addolora. E siccome la tristezza, o dolore, ha per oggetto il male proprio, in tanto uno si addolora della miseria altrui in quanto la considera come propria. Ora, ciò avviene in due modi. Primo, per un legame di affetto: il che avviene con l’amore. Infatti chi ama, considerando l’amico un altro se stesso, reputa come proprio il suo male, e quindi se ne addolora come di un male proprio. Per questo il Filosofo [Ethic. 9, 4] mette tra i requisiti dell’amicizia “l’addolorarsi con l’amico”. E l’Apostolo [Rm 12, 15] comanda di “rallegrarsi con chi è nella gioia, e di piangere con chi è nel pianto”. Secondo, ciò può avvenire per un legame reale, in quanto il male di certe persone è talmente vicino da ricadere su di noi. E per questo motivo il Filosofo [Reth., l. cit.] insegna che gli uomini compatiscono i propri congiunti e i propri simili: in quanto pensano in base a ciò di potersi trovare a soffrire cose consimili. Ed è per questo che i vecchi e le persone sagge, i quali pensano di potersi trovare male, nonché i deboli e i paurosi, sono più portati alla misericordia. Invece gli altri, che si credono felici e così potenti da non poter subire alcun male, non sono così facili alla misericordia. Così dunque la menomazione è sempre un motivo di misericordia: o perché uno considera propria la menomazione altrui per il legame dell’amore, oppure per la possibilità di subire qualcosa di simile» (3).
La Sacra Scrittura è anch’essa costellata di esempi che illustrano la bellezza dell’amicizia. Nell’Antico Testamento si trova l’amicizia fra Rut e Noemi, fra Davide e Gionata, ed è commovente nel Nuovo Testamento il legame amicale che Gesù nutre nei confronti di Lazzaro e delle sue sorelle Marta e Maria (4). Ma ancora di più, Dio diventa amico dell’uomo: Abramo, colui che è ritenuto il padre nella fede, sia dall’ebraismo sia dal cristianesimo, è definito come l’amico di Dio (cfr. Is 41,8; Gc 2,23). I libri sapienziali — come il Siracide e i Proverbi — elogiano l’amicizia e ne stabiliscono i criteri e l’importanza. Fra di essi compare anche il Libro di Giobbe, che, per converso, ci pone innanzi un’esperienza d’amicizia che, in qualche modo, si trasforma in una sorta di tortura, forse senza colpa di alcuno. Nel testo si nota la tensione fra due poli irriducibili, quello profetico e quello sapienziale. Nei suoi quarantadue capitoli il libro dell’Antico Testamento mette a tema il mistero della sofferenza degli uomini e, in particolare, sottende una domanda: perché gli uomini giusti soffrono e gli empi no? Giobbe, uomo giusto e fedele, vive una condizione umanamente felice. Non può chiedere altro: vive nell’agiatezza e a lui fa corona una bella famiglia. Satana, a questo punto, sfida Dio chiedendo il permesso di tentare Giobbe, per vagliare se veramente quest’uomo gli sarà fedele anche nella disgrazia. Così Giobbe viene privato di ogni suo bene, materiale e famigliare, e vede morire uno dopo l’altro i figli. In più, un’unica, immensa piaga ricopre il suo corpo. Giobbe davanti a una tale sofferenza si produce in un atto estremo di pazienza, malgrado il suo smarrimento: «Di fronte all’inesplicabile, Giobbe prega. La sua dialettica è una preghiera instancabile, nutrita da una domanda assillante e irrisolta, che lo attanaglia nella carne e nell’anima. Ma quando l’interlocutore divino finalmente appare e si giustifica Giobbe tace: mette la mano sulla bocca (Gb 40,4)» (5). Si riesce così a giungere a una sorta di happy end: sconfitto Satana, Dio reintegra Giobbe nella sua agiatezza economica, donandogli altri figli. Egli morirà «vecchio e sazio di giorni» (Gb 42,17), esattamente come i patriarchi Abramo e Isacco (cfr. Gn 25, 8; 35,29).
All’interno del Libro una parte fondamentale è rappresentata dai dialoghi intrattenuti da Giobbe con gli amici e con la moglie. I tre amici sono accorsi alla notizia delle disgrazie del malcapitato per consolarlo e, dopo una settimana di penitenza, prendono l’uno dopo l’altro la parola. L’approccio, tuttavia, risulterà inopportuno e più che alleviare il male gli incontri si tradurranno in un’ulteriore tentazione per il paziente Giobbe (6). Il teologo Emil Fackenheim (1916-2003), in altro contesto, ha icasticamente scritto: «con tali amici, chi ha bisogno di nemici?» (7).
Essi sfilano l’uno dopo l’altro: Elifaz si presenta con moderazione, a causa della sua veneranda età, senza tralasciare una pungente severità; Zofar esprime una straordinaria impulsività, dovuta alla sua giovane età, mentre Bildad si rivela un sentenzioso, desideroso di mettere tutto in linea. A essi si aggiungono la moglie, che scoraggia Giobbe dalla fiducia testarda in Dio, consigliandolo, anzi, di congedarlo e di morire liberato, e un amico tardivo e improvviso, Eliu che, forse diplomaticamente, dà torto sia a Giobbe sia ai suoi amici, esprimendosi comunque con un’eloquenza verbosa nell’intento di difendere Dio dall’eventuale imputazione delle sofferenze del giusto. Ma proprio il suo discorso sarà interrotto da Dio, che uscirà dal proprio silenzio e non mancherà di rimproverare le architetture verbali degli amici di Giobbe. Il gioco di costoro è semplice: convincerlo che nei rapporti fra la creatura e il Creatore vi sia una sorta di regolamento di conti che va consumato. La sofferenza sarebbe legata a una colpa, da espiare tramite i castighi che vengono inflitti. La logica degli amici è proprio questa: sicuramente Giobbe per meritare questa sorte avrà compiuto dei peccati, e anche grandi, malgrado appaia un uomo buono. Essi credono di interpretare l’ottica di Dio, diventando i difensori della sua causa. Il loro duplice errore sta nell’aver voluto da un lato rinchiudere l’azione di Dio in una logica prettamente umana e, dall’altro lato, nell’aver ancora di più stressato l’amico, che pur erano andati a consolare. Non hanno visto più in lui l’uomo, ma il colpevole, e dunque la comunicazione fra loro non poteva che giungere a un cortocircuito. Dio, fra l’altro, resta sempre al di là di un mero rapporto paritetico. Egli ha posto il fondamento del mondo e la Sua relazione con esso non potrà mai essere fino in fondo afferrata dalla creatura. L’essenza delle cose è ineffabile e risiede in Colui che le ha poste in essere e che le governa. Il vero amico, sia degli uomini sia di Dio, se così posso esprimermi, è Giobbe, che, nonostante tutto, rinnova la sua fiducia nei confronti dell’Onnipotente e ottiene la reintegrazione dei propri beni, perché giunge a pregare per i suoi stessi amici importuni: «Dio ristabilì Giobbe nello stato di prima, avendo egli pregato per i suoi amici» (Gb 42,10) (8).
L’esperienza di Giobbe — uomo alieno dal male, non solo in relazione al turbine della sofferenza che lo ha colpito e quindi alle incalzanti domande che suscita nell’uomo di ogni tempo, ma anche in relazione al rapporto altrettanto sofferto e inopportuno con gli amici — ha permesso la fioritura di interessanti e a volte anche suggestive interpretazioni. Tali riflessioni spesso esulano anche da contesti strettamente esegetici e teologici e attraversano sentieri filosofici e letterari, fino a raggiungere l’immaginario popolare (9): è diventata, per esempio, proverbiale la «pazienza di Giobbe».
Fra le riflessioni più recenti su Giobbe e i suoi amici colpisce particolarmente, a questo proposito, un brevissimo dramma scritto dal filosofo francese Fabrice Hadjadj che emblematicamente viene intitolato Giobbe o la tortura degli amici (10). Siamo dinanzi a un Giobbe contemporaneo. In una stanza di ospedale vi è un uomo consapevole di stare per concludere, consumato dalla malattia, i propri giorni. La solitudine regna in quella stanza anonima, fino a quando, un mattino, riceve una serie di visite: gli amici, la moglie, una ragazza incontrata per caso prima del ricovero e un sacerdote. Tutti sfilano davanti al moderno Giobbe commiserandolo e ognuno offre la propria ricetta di liberazione. Il piccolo testo teatrale offre — se così possiamo esprimerci — una fenomenologia dell’amicizia inautentica.
Nella versione dello scrittore francese, Elifaz incarna l’ingenuo ottimista. Reputa quasi secondario il dramma della sofferenza di Giobbe e, quindi, secondo un mantra giovanilistico, invita l’amico a «pensare positivo» (11). È un soccorso psicologico che Elifaz vuole fornire, ma Giobbe, conscio dei propri dolori, risponde proponendo una dinamica dell’amicizia più profonda del semplicistico fiume di parole consolatorie. A volte il silenzio, la vicinanza, realizzano il bene nei confronti dell’altro più che le parole inutili: «Non potresti essere qui e basta? Tu mi saresti veramente d’aiuto amico mio, non cercando di venire in mio soccorso, ma stando qui, proprio qui, accanto, a tenermi la mano» (12). Ma Elifaz è troppo preso da sé, dalle sue mirabolanti teorie, e imperterrito continua snocciolando una serie di consigli sulla modulazione della respirazione, la danza dell’energia per eliminare i chakra, la meditazione trascendentale e l’agricoltura biologica. I rimpalli di consigli vacillano fino a portarlo alla fuga. Quando Giobbe, infatti, rivela che la sua malattia è contagiosa, Elifaz che fino ad allora era stato incapace di dare valore alla dimensione corporea di Giobbe, offrendo soluzioni di sollievo psicologiche, saluta in fretta adducendo la scusa di un appuntamento importante.
A lui subentra la moglie di Giobbe. Da molti anni — si intuisce — è stata lontana dal marito. Proprio la disgrazia del coniuge l’ha trasportata su altri lidi. Ma ora il senso di colpa, il rimorso, l’hanno costretta a venire in ospedale: «Come potevo stare con quell’altro quando il rumore del tuo martirio mi perseguitava sin da dentro l’oblio. Più stavo tranquilla e più avevo vergogna […]. Il mio stesso godimento era diventato il mio disgusto. E le sue braccia, le braccia di quell’altro, che pretendevano di essere tenere e protettive, non facevano che espormi di più ai colpi della mia coscienza. Ma ora sono qui» (13). Grazie a quelle parole, Giobbe dimentica per un momento il male del tradimento e rinfocola il legame. Sembra aver trovato finalmente un sostegno autentico, perché la moglie dimostra di soffrire come lui e lui soffre ancora di più per questo, traendone paradossalmente sollievo. Si invera così il rapporto autentico fra amici descritto da Aristotele e da san Tommaso, soprattutto nelle condizioni della disgrazia (14). A Giobbe basterebbero la sua presenza e una tale condivisione, ma la moglie è anche portatrice di una soluzione indolore e definitiva: «Questa puntura, mio amato attraverso l’abisso, questa puntura che ti porta la bella nel bosco e che ti farà dormire tanto, così tanto, mio bel principe. Che ti risveglierai in un altro mondo dove non c’è più dolore, né lacrime, né notte» (15). Ed ecco rivelata subito l’insidia. La moglie non va a consolare, ma a trovare la soluzione del suo rimorso: ed è subito eutanasia. Giobbe è un peso morale e, per non sostenerlo più, occorre eliminarlo. E allora viene orchestrato un falso pietismo: una dolce morte che libererebbe il malato dal dolore e la moglie dall’incombenza di assisterlo. Giobbe non è un masochista, ma è immerso nel suo stato. Non vuol dare incombenze a nessuno, ma neanche esser distolto dalla propria condizione attraverso una macchinazione ulteriore. Egli si è caricato sé stesso in un’ottica metafisica e spirituale: «non privarmi della felicità di urlare contro il Cielo. Non mi basteranno centomila agonie per ammirare il flagello che ha inventato per me con te» (16).
Cacciata la moglie, ecco giungere Bildad. Egli, nel dramma di Hadjadj, è il fratello di Giobbe. Non ha la presunzione di dare alcun aiuto immediato, ma vuole che il fratello cambi ottica. Dà una visione realistica ma al tempo stesso religiosa della sofferenza e vuole che il fratello rinneghi Dio, tanto in definitiva Egli non esiste. È il nichilista contemporaneo, che tuona: «ruggiamo contro questo Dio che ci ha fatto lo sgarbo di non esistere» (17). Anche Giobbe non nega il grido al cielo, ma ha una qualità diversa, tant’è che, se il timbro di voce dei due fratelli è simile, quanto espresso non può che essere abissalmente distante: da un lato la speranza in un fondamento buono, dall’altro la disperazione del non senso. Giobbe è immerso nel suo mistero: «Il mio pensiero, giustamente, è che il nostro pensiero non ha fondo, che non è mai al fondo delle sue pene, che siamo circondati da ogni parte da un mistero che ci schiaccia e ci sfugge» (18). È un abbandono fiducioso, quello del sofferente, che sopporta la situazione che non solo non può cambiare, ma neanche sa spiegare.
Nell’ordine della spiegazione e del calcolo giunge Zophar. Egli ammira Giobbe per la sua sopportazione, non lo biasima né lo conduce sulle vie del nichilismo e dell’eutanasia, ma nella sua saccenteria esplicita il motivo di questo dolore: esso non può che dipendere dall’ingiustizia praticata dall’amico sofferente: «Sì, tutte le maledizioni su di te, Giobbe — ti amo abbastanza da non aver paura di dirtelo — sono dovute alla tua ingiustizia, tutte le tue pene sono il verdetto di un giudice giusto» (19). Ecco il freddo calcolatore, che vuole rassicurare il malcapitato. Tutto è frutto di un calcolo e di una giustizia meramente umana. Da un lato, vi è il peso delle colpe di Giobbe, cui non possono non corrispondere le conseguenti pene. In questa logica la legge del contrappasso spiega tutto. Ma Giobbe insorge: «Io spero in un Salvatore, Zophar, non in un commercialista. Il mio Dio ci riscatta senza mercanteggiare. Il mio Dio perdona i peccati senza annotarli su un piccolo registro da speziale» (20). Nell’esperienza di Zophar si raccoglie la tematica del dialogo fra i tre amici del Giobbe originale, tutta rinchiusa in un calcolo che non sa più vedere l’amico in sé, bensì l’ordine della problematica che lo attanaglia, spostando su di essa l’attenzione e traducendosi in false consolazioni. Giustamente nei rapporti fra uomini l’aritmetica, piuttosto che la giustizia, non può che rappresentare una sola dimensione, e neanche la più importante nel loro incontro e, soprattutto, nel rapporto personale fra il Dio cristiano e le sue creature.
Del tutto nuovo rispetto alla tradizione è l’inserimento, da parte di Hadjadj, della tentazione carnale per Giobbe, proveniente da una ragazza sconosciuta. Il fare gentile e sensuale vorrebbe far dimenticare al vecchio e malato Giobbe la sua condizione attraverso una soluzione di piacere: «Non ostinarti nel tuo inferno. Può Sisifo rifiutare che la sua pietra si tramuti in Galatea? Può Tantalo respingere l’offerta del grappolo gustoso? Vieni a mietere sul mio corpo il primo e il secondo raccolto, mordi questa mela dove muore il rimorso, percorri contromano la strada della perdizione e ritrova il paradiso delle origini. Io sono tua. La mia dote è il tuo antidoto. Ho conservato pura la mia acqua per poterti dissetare» (21). Giobbe si turba, vacilla, quasi cede, ma il suo senso della realtà, il suo animo temprato dalla sofferenza, è lungimirante e capisce il tranello cui è sottoposto attraverso un volto amichevole e sensuale: «Quell’altra voleva addormentarmi nella morte, tu vuoi liquidarmi con l’“amore”, un amore come un impiastro che copre la ferita che la cancrena peggiora» (22).
Infine, l’ultimo della schiera: Elihu, un sacerdote che conosce l’animo di Giobbe. Non è lì per dare false consolazioni. Passa dall’amico e figlio spirituale perché ha dovuto sottoporsi in quella clinica ad esami diagnostici e reca con sé una busta che ancora deve aprire. Il dialogo scorre sereno, si tocca l’apice della reciprocità fin quando, esortato da Giobbe, l’interlocutore apre la busta delle analisi e il suo volto si muta, diviene pallido. L’esito sicuramente è nefasto. In questo momento giunge a compatire l’amico. Fugge dalla stanza — non sappiamo se disperato o meno — ma pronuncia queste parole: «Oh Giobbe, Giobbe, io sono il tuo confessore e ti domando perdono» (23).
In tutto il racconto del Giobbe moderno si fa presente una grande distanza, un’asimmetria fra il protagonista e i suoi amici. Ognuno è alla ricerca di un escamotage, la teoria dell’amico come alter ego viene completamente disattesa e si staglia un orizzonte di incomunicabilità. Davanti all’alterità di Giobbe, del suo personale mistero di sofferenza, l’amicizia viene messa alla prova e sembra che alla fine solo Dio, malgrado le teorie umane, si mostri realmente amico di Giobbe, donandogli la vera soluzione. Giobbe ha combattuto e adesso la gioia può giungere a Lui. La fiducia fra Dio e Giobbe, possiamo dire, ha rappresentato la reciprocità dell’amicizia. Dio, lasciandosi sfidare da Satana, ha avuto fiducia in Giobbe, nelle sue virtù di uomo buono, mentre Giobbe, in un orizzonte in cui ha subito l’eclissi di Dio, si è ostinatamente aggrappato, fidente, a Lui, nonostante la tentazione fuorviante degli amici. In fondo al tunnel delle sofferenze fisiche e morali e delle profferte di vie facili, egli ha rivisto la luce.
Resta così sempre aperta la domanda sul vero criterio dell’amicizia, che forse, più che nell’ordine della teoria, deve essere ricercato nelle pieghe dell’esperienza umana e della storia, non solo personale, ma anche sociale, quale contesto in cui gli uomini vivono. L’amicizia, allora, è un esercizio e può diventare virtù solo quando si lascia attraversare dal vasto ventaglio di opzioni che la vita presenta. Fra la teoria sull’amicizia e la sua effettiva pratica vi è un abisso che solo l’amore, inteso come caritas, può colmare.
Daniele Fazio
Note:
1) Cfr. il mio L’amicizia tra filosofia e spiritualità, in Cristianità, anno L, n. 416, luglio-agosto 2022, pp. 51-80.
2) «Per questo motivo sembra che si debbano prontamente chiamare gli amici a partecipare delle situazioni prospere (poiché è bello fare benefici), peritandosi invece a chiamarli a partecipare alle sventure, poiché bisogna metterli a parte dei nostri mali il meno possibile, donde il proverbio “mi basta la mia disgrazia”. Soprattutto bisogna chiamarli in aiuto quando, con loro piccolo disturbo, procureranno un grande vantaggio all’amico. Viceversa conviene senza dubbio recarsi dagli amici che si trovano in una disgrazia senza essere chiamati con premura (infatti è proprio di un amico fare del bene, soprattutto a coloro che sono nella necessità e che non lo hanno richiesto: è più bello e più piacevole per entrambe le parti); e con premura conviene recarsi per collaborare alle situazioni di benessere (anche per queste cose infatti c’è bisogno di amici), con tutta calma invece per partecipare al beneficio: non è bello essere bramosi di ricevere un vantaggio» (Aristotele, Etica Nicomachea, IX, 8, 1171 b 15-25, in Idem, Etiche. Etica Eudemea. Etica Nicomachea. Grande Etica, trad. it., con Introduzione di Francesco Adorno (1921-2010), UTET. Unione Tipografico-Editrice Torinese, Torino 1996).
3) Tommaso d’Aquino, Summa theologiae, II-IIæ q. 30, a. 2.
4) Al di là del testo sacro, la letteratura di ogni tempo ha illustrato esempi veramente compiuti di amicizia. Fra i tanti si ricordano quelli di Eurialo e Niso (Eneide di Publio Virgilio Marone [70-19 a.C.]); di Sherlock Holmes e di John Watson (Sherlock Holmes di sir Arthur Conan Doyle [1859-1930]); di Athos, Porthos e Aramis (I tre moschettieri di Alexandre Dumas padre [1802-1870]); di Pip e Herbert (Grandi speranze di Charles Dickens [1812-1870]); di Frodo e Sam (Il Signore degli Anelli di John Ronald Reuel Tolkien [1892-1973]); di Huckleberry Finn e Tom Sawyer (Le avventure di Tom Sawyer di Mark Twain [(pseudonimo di Samuel Langhorne Clemens; 1835-1910]); di Harry Potter e Ron Weasley (Harry Potter di Joanne Kathleen Rowling).
5) André Neher (1914-1988), L’essenza del profetismo, trad. it., Marietti 1820, Genova 1984, p. 272.
6) «Il penoso dialogo tra Giobbe e i suoi amici è un esempio di confronto tra la profezia e la sapienza. Alternandosi con una ostinazione scrupolosa, gli amici di Giobbe cercano di convincerlo che tutto è perfettamente chiaro, che lui, il suo lutto, la sua lebbra, il suo letamaio sono il prodotto di un’aritmetica divina; che Giobbe e il suo Dio sono pari, che non è il caso di discutere oltre, e che bisogna voltar pagina. Solo che Giobbe, col suo lutto, la sua lebbra, il suo letamaio si ostina a restarsene lì e a gridare allo scandalo» (ibid., p. 242).
7) Emil Ludwig Fackenheim, Un epitaffio per l’ebraismo tedesco. Da Halle a Gerusalemme, trad.it., Giuntina, Firenze 2010, p. 217.
8) «Dio dà ragione a Giobbe: egli, al contrario degli amici, ha parlato “giustamente” (42,7). E il poeta, che più volte prende delle parole del prologo e le trasforma in parole-chiave, anche qui, in una quadruplice insistente ripartizione, mostra Dio che chiama Giobbe suo “servo” come già aveva fatto in quel contrasto. Qui la parola appare nella sua verità» (Martin Buber [1878-1965], La fede dei profeti, trad. it., Marietti 1820, Genova 2002, p. 192).
9) Fra i riferimenti più significativi si può ricordare, sul versante filosofico, Immanuel Kant (1724-1804) nel tentativo di critica alla teodicea, mentre Friedrich von Schelling (1775-1854) e Georg Wilhelm Friedrich Hegel (1770-1831) assorbono la tematica posta da Giobbe nell’esperienza dialettica del male e quindi necessaria nel cammino dello spirito; Søren Kierkegaard (1813-1855) entra con il sofferente biblico in una sorta di stretta empatia; Emmanuel Lévinas (1906-1995), di fronte all’orrore dell’Olocausto, torna alla rassegnazione circa l’inspiegabilità del male e René Girard (1923-2015) ne fa l’emblema del capro espiatorio. Sul versante letterario, Albert Camus (1913-1960) lo raffronta alla categoria dell’assurdo; Franz Kafka (1883-1924), Philip Roth (1933-2018) e SamuelBeckett (1906-1989) vi troveranno ispirazione per scavare nell’interiorità sofferente dell’uomo moderno; e Mario Luzi (1914-2005), infine, ne farà un eroe moderno.
10) Cfr. Fabrice Hadjadj, Giobbe o la tortura degli amici, trad. it., Marietti 1820, Genova-Milano 2011.
11) Ibid., p. 36.
12) Ibidem.
13) Ibid., p. 44.
14) Cfr. il mio L’amicizia tra filosofia e spiritualità, cit.
15) F. Hadjadj, op. cit., p. 47.
16) Ibid., p. 49. Alla questione Papa Francesco ha dedicato catechesi e omelie: «Se uno si sente male perché ha fatto delle cose brutte — è un peccatore — quando prega il Padre Nostro già si sta avvicinando al Signore. A volte noi possiamo credere di non aver bisogno di nulla, di bastare a noi stessi e di vivere nell’autosufficienza più completa. A volte succede questo! Ma prima o poi questa illusione svanisce. L’essere umano è un’invocazione, che a volte diventa grido, spesso trattenuto. L’anima assomiglia a una terra arida, assetata, come dice il Salmo (cfr Sal 63,2). Tutti sperimentiamo, in un momento o nell’altro della nostra esistenza, il tempo della malinconia o della solitudine. La Bibbia non si vergogna di mostrare la condizione umana segnata dalla malattia, dalle ingiustizie, dal tradimento degli amici, o dalla minaccia dei nemici. A volte sembra che tutto crolli, che la vita vissuta finora sia stata vana. E in queste situazioni apparentemente senza sbocchi c’è un’unica via di uscita: il grido, la preghiera: “Signore, aiutami!”. La preghiera apre squarci di luce nelle tenebre più fitte. “Signore, aiutami!”. Questo apre la strada, apre il cammino» (Francesco, Catechesi sulla preghiera. 18. La preghiera di domanda, Udienza generale, 9-12-2020).
17) F. Hadjadj, op. cit., p. 52.
18) Ibid., p. 56.
19) Ibid., p. 61.
20) Ibid., p. 62.
21) Ibid., p. 73.
22) Ibid., p. 74.
23) Ibid., p. 82.