Mauro Ronco, Cristianità n. 259 (1996)
Diffusi comportamenti di pubblici ministeri che non applicano con rigore i princìpi dell’obbligatorietà dell’azione penale, arrogandosi talora la facoltà di scegliere fra reato e reato, e del suo necessario collegamento con la notitia criminis, operando anche in sua assenza, creano una situazione anomala. E la soluzione non sta nel separare i ruoli del pubblico ministero e del giudice, ma nel tornare al rispetto del dettato costituzionale.
Contro la separazione del ruolo del pubblico ministero da quello del giudice
1. Il problema
Un problema politico particolarmente urgente è costituito dall’individuazione del ruolo che il pubblico ministero svolge nell’ordinamento giuridico italiano, con la conseguente determinazione della disciplina normativa deputata a regolarne l’attività.
Nel dibattito corrente la trattazione del tema è di solito circoscritta al dilemma tra il mantenimento della situazione attuale, che vede il pubblico ministero e il giudice appartenere al medesimo ordine giudiziario, e il suo completo superamento, con la separazione del ruolo del pubblico ministero da quello del giudice. Altre soluzioni di riforma, meno radicali di quella sopra enunciata, come, per esempio, quella di separare non le carriere — e i ruoli —, bensì le funzioni, si collocano, per un verso, nello stesso solco di quella più radicale, e, per un altro verso, appaiono assai confuse, presentando il difetto di voler raggiungere il medesimo risultato della separazione con mezzi obliqui e indiretti.
Mi sembra che attualmente la corretta impostazione del problema — e, dunque, la sua soluzione — siano pregiudicate dal prepotente emergere di esigenze politiche assai importanti, ma che non debbono intorbidare la chiara determinazione dei princìpi. Soprattutto occorre evitare che, nella fretta di risolvere in modo apparentemente soddisfacente i problemi contingenti, vengano manomessi alcuni cardini essenziali che reggono l’esercizio della giurisdizione e i corretti rapporti tra i poteri dello Stato. Lasciarsi travolgere, invero, dall’emergenza politica significa non soltanto correre il rischio di sbagliare la soluzione, ma altresì di accrescere lo squilibrio — che si vorrebbe superare — tra gli organi del pubblico ministero, da un can- to, e il Governo e il Parlamento, dall’altro.
2. La situazione attuale
Se si esamina con obiettività l’assetto attuale dei rapporti politici e giudiziari, non può negarsi che gli organi della Procura della Repubblica, insediati capillarmente presso ogni Tribunale e ogni Pretura, manifestino la tendenza a invadere le prerogative di altri organi dello Stato, pretendendo di dettare le linee della politica criminale, nonché assumendo un ruolo censorio sulla vita politica e sociale, ovvero interdicendo e/o, correlativamente, promuovendo determinate proposte legislative. Con siffatti atteggiamenti, invero, in cui si sono distinte, tra le altre, soprattutto le Procure della Repubblica presso i Tribunali di Milano e di Palermo, si è rischiata — o addirittura realizzata — l’invasione da parte dei pubblici ministeri della sfera di competenza degli altri poteri.
Per comprendere la portata dell’invasione, vanno rilevati, sia pure in estrema sintesi, alcuni profili, che individuano con sufficiente precisione l’ambito dei poteri spettanti nell’ordinamento della Repubblica Italiana al pubblico ministero.
Il primo profilo riguarda il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale, non essendo previsto in capo a tale organo alcun potere discrezionale in ordine alla scelta tra i vari tipi di reato e i diversi tipi di autore perseguibili tramite l’esercizio dell’azione penale. Questo principio delimita e subordina il potere del pubblico ministero alla potestà del Parlamento, che resta arbitro di individuare, attraverso l’esercizio della funzione legislativa, le linee fondamentali della politica criminale dello Stato, la cui attuazione spetta poi agli organi dell’esecutivo, operanti sotto la direzione e il controllo del Governo.
Il secondo profilo riguarda il collegamento necessario dell’esercizio dell’azione penale con la notitia criminis, con la notizia di reato, nel senso che il pubblico ministero non ha un compito di prevenzione generale del crimine, bensì un compito esclusivo di accertare le responsabilità in capo agli autori dei crimini già commessi. Questo principio delimita il potere del pubblico ministero rispetto al potere del Governo e dei suoi organi esecutivi: l’informazione generica sull’esistenza e sull’operato delle fasce devianti della società, la politica di sicurezza e l’opera concreta di prevenzione del crimine spettano al Governo; al pubblico ministero spetta l’opera di investigazione a riguardo del crimine commesso, che scatta soltanto allorché l’informativa su un reato determinato è fornita, di norma per opera degli organi in cui si articola l’esecutivo, all’ autorità giudiziaria.
Se si tiene conto, nel loro significato giuridico integrale, dei due princìpi sovra menzionati, si comprende come e quanto siano distanti da essi la concreta realtà istituzionale e i rapporti attualmente intessuti tra i vari organi dello Stato.
Per quanto attiene all’obbligatorietà dell’esercizio dell’azione penale, le vicende portate all’attenzione dell’opinione pubblica negli anni 1990 — soprattutto nell’ambito dei procedimenti complessivamente etichettati sotto la sigla Mani Pulite — evidenziano che molti pubblici ministeri selezionano realmente le cause da trattare in funzione degli obiettivi da essi ritenuti rilevanti dal punto di vista della politica criminale. Si pensi — tra i vari esempi possibili — al trattamento riservato dalla Procura milanese al finanziamento occulto del Partito Comunista Italiano — e poi del Partito Democratico della Sinistra — rispetto al trattamento riservato al finanziamento occulto del Partito Socialista Italiano e della Democrazia Cristiana, nonché al trattamento riservato agli illeciti tributari, finanziari ed economici eventualmente addebitabili agli amministratori e ai dirigenti del gruppo Fininvest, rispetto al trattamento riservato agli amministratori e ai dirigenti di altri gruppi finanziari ed economici di rilevanza nazionale. Sotto il mantenimento formale del principio dell’obbligatorietà dell’azione penale corre in realtà una selezione mirata, intesa a perseguire determinati settori in modo privilegiato rispetto ad altri, con l’alterazione effettiva della par condicio al livello giudiziario, e poi a quelli politico, finanziario ed economico.
Molte ragioni, anche di carattere obiettivo, stanno all’origine di un siffatto fenomeno degenerativo: da un lato, la dilatazione ognora crescente della sfera dei comportamenti ricompresi legislativamente sotto la minaccia della sanzione penale rende sempre più necessaria una scelta a valle — nella fase applicativa — dei comportamenti che è concretamente possibile perseguire; da un altro lato, l’indifferenziazione normativa tra i vari tipi di illeciti, l’eliminazione delle pregiudiziali amministrative, la litigiosità crescente all’interno dei vari corpi amministrativi dello Stato, l’assenza di una consapevolezza civica adeguata tra molti impiegati e dirigenti della pubblica amministrazione, il rifiuto del rapporto gerarchico all’interno degli uffici e l’indisciplina e l’anarchia generalizzate hanno rovesciato sull’autorità giudiziaria penale il compito di dirimere tutta una serie di contrasti, di carattere prevalentemente amministrativo e civilistico, che soltanto marginalmente posseggono connotazioni penalistiche.
Orbene, avvalendosi di una siffatta confusione, gli organi del pubblico ministero — ravvisati ingenuamente da molti quasi come l’ultima istanza risolutiva di ogni contrasto politico e amministrativo — hanno imposto la regola del loro intervento e della loro selezione mirata nella risoluzione dei conflitti. Sì che, mentre nel sistema costituzionale il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale vuole rimarcare la subordinazione del pubblico ministero alla legge e, dunque, al Parlamento, nel sistema del diritto concretamente vivente tale principio costituisce esclusivamente l’involucro formale all’interno del quale tale organo seleziona occultamente — ma non per questo meno concretamente — gli obiettivi meritevoli di essere riprovati, aggrediti e azzerati.
Per quanto attiene, poi, al collegamento tra l’iniziativa dell’organo inquirente e la notitia criminis, va rilevato che quest’ultima, nell’ambito di un funzionamento fisiologico del sistema, è normalmente fornita al pubblico ministero dagli organi esecutivi dello Stato, che svolgono funzioni preventive e di tutela della società dall’aggressione criminale. Talora, evidentemente, la notitia criminis è presentata al pubblico ministero direttamente dalla persona offesa dal reato; talora è il pubblico ministero stesso che, indagando su determinati fatti già rimessi alla sua attenzione, si imbatte in nuove notitiae criminis, che costituiscono la base di ulteriori sviluppi investigativi. Di regola, tuttavia, la notitia criminis è fornita dagli organi dell’amministrazione attiva o di controllo, nonché, più frequentemente, dagli apparati dello Stato, che svolgono i compiti preventivi e di tutela della società dall’attività delittuosa. Le funzioni di informazione, di prevenzione criminale e di promozione della sicurezza pubblica spettano specificamente agli apparati amministrativi che attendono alla cura degli interessi della collettività e ai corpi di polizia — la Polizia di Stato, l’Arma dei Carabinieri, i Corpi della Guardia di Finanza, della Guardia Forestale e della Polizia Penitenziaria, con il corollario dei Servizi Segreti, militari e civili —, che garantiscono la sicurezza interna ed esterna dello Stato.
Il corretto rapporto tra potere governativo, da un lato, e ordine giudiziario, dall’altro lato, è segnato dalla distinzione, che deve essere rigorosamente rispettata, tra le sfere rispettive della prevenzione amministrativa e della repressione penale: né il Governo, con le sue molteplici articolazioni, deve ingerirsi nell’espletamento della funzione accertativa e punitiva del crimine; né l’autorità giudiziaria, pretendendo di dirigere e di controllare preventivamente l’operato di tutte le polizie e di tutti gli organi amministrativi, deve ingerirsi nell’amministrazione attiva e nell’espletamento dei compiti preventivi propri del Governo. Come un’amministrazione che volesse giudicare invaderebbe sfere di competenza giudiziaria, così organi giudiziari che svolgessero indagini meramente conoscitive in vista della prevenzione criminale invaderebbero sfere di competenza governative.
Il rispetto delle rispettive sfere è segnato dalla liceità e dalla contemporanea doverosità dell’iniziativa del pubblico ministero soltanto a partire dall’individuazione della notitia criminis: iniziative di tale organo, antecedenti al consolidarsi di una qualsivoglia notizia, ma intese a investigare indiscriminatamente sui comportamenti altrui onde ricercare possibili ed eventuali notitiae criminis, sono assolutamente illegittime e patologiche, siccome invasive di compiti che non spettano all’autorità giudiziaria, ma che sono propri degli organi amministrativi dello Stato, i quali debbono agire nel rispetto dei diritti fondamentali del cittadino. Diritti, infatti, che possono essere limitati, alla stregua dell’articolo 13 della Costituzione, soltanto dall’autorità giudiziaria e non dall’autorità amministrativa: e ciò non perché la prima sia astrattamente o effettivamente migliore della seconda, bensì perché la prima agisce nell’ambito rigoroso concernente l’esercizio della funzione repressiva penale, e la seconda nell’ambito più ampio e tendenzialmente illimitato della prevenzione e della promozione degli interessi sociali. Che se gli organi deputati all’esercizio della funzione giudiziaria dovessero travalicare i confini della propria sfera di attribuzioni e dedicarsi allo svolgimento di più ampi compiti di prevenzione e di promozione sociale, non è chi non veda come sarebbero non soltanto calpestate le regole inerenti alla divisione tra i poteri dello Stato, ma soprattutto messe in pericolo le libertà concrete dei cittadini.
Si può comprendere a questo punto quanto siano contrarie ai princìpi costituzionali le iniziative dei pubblici ministeri che, prima del concretizzarsi di notitiae criminis determinate in capo a specifiche persone, dispongano intercettazioni ambientali, sulla base del mero convincimento soggettivo che in un determinato ambiente — per esempio, quello costituito dai magistrati di un distretto o di una circoscrizione rivale, ovvero quello costituito dagli amministratori e dai dirigenti di una società commerciale che possiede un notevole peso nell’economia nazionale — possano consumarsi violazioni della legge penale. Allo stesso modo sono giuridicamente patologiche e gravemente lesive dei princìpi costituzionali le iniziative dei pubblici ministeri intese a costituire presso i propri uffici — anche in modo coperto o attraverso l’interfaccia apparente di propri collaboratori appartenenti al corpo della polizia giudiziaria — strutture confidenziali, costituite da pretesi «pentiti» — vuoi confidenti che sfuggono a ogni controllo, vuoi indagati che ottengono remunerazioni continuative in denaro o addirittura la promessa dell’impunità per il passato e per il futuro —, che svolgono un lavoro di provocazione negli ambienti ove si sospettano siano commesse illiceità, onde acquisire informazioni e costruire notitiae criminis, su cui esercitare poi l’iniziativa penale.
3. All’origine della situazione attuale
Gli abusi commessi su questo piano stanno ormai dilagando: le cause di ciò sono molteplici, e non tutte sono riferibili alla responsabilità dei pubblici ministeri. Mi preme qui sottolineare che all’origine degli abusi stanno due fenomeni che risalgono all’inizio degli anni ’70, possedenti caratteristiche assai diverse, ma che hanno contribuito a provocare i medesimi effetti.
Il primo fenomeno è costituito dal ruolo di supplenza che la magistratura italiana, nel suo complesso, ha esercitato nel debellare l’ondata terroristica e di illegalismo politico che si è abbattuta sul paese nel corso del decennio 1970-1980. L’incapacità delle forze politiche governative, soggiogate dalla cultura marxista e dalla posizione egemone del PCI, di far fronte, sul piano politico, al terrorismo di sinistra ha esaltato, per converso, la capacità dei pubblici ministeri, in specie, e degli organi giudiziari, in generale, di scoprire le trame terroristiche, di arrestare i principali organizzatori del terrore e di pronunciare importanti sentenze di condanna. Attraverso gli strumenti della cosiddetta legislazione dell’emergenza, tuttavia, si è creata una sorta di cultura giuridica che ha diffuso l’idea circa l’apparente normalità dell’intervento straordinario dell’ordine giudiziario nella vita civile e politica del paese.
Il secondo fenomeno è costituito dal ruolo di supplenza che — dietro la teorizzazione compiuta dai settori organizzati della sinistra comunista all’interno della magistratura — molteplici autorità giudiziarie — soprattutto pubblici ministeri e pretori — si sono attribuiti nella tutela degli interessi diffusi o degli interessi delle categorie più deboli all’interno della società italiana. Da questo punto di vista, talora sostituendosi all’inetto parassitismo della classe politica e dell’autorità amministrativa, tal’altra scavalcandole nelle loro competenze e abbattendone il residuo prestigio e la restante capacità operativa, la magistratura italiana, soprattutto rappresentata dalle forze più giovani e dinamiche, ha esercitato, peraltro in via meramente interdittiva e negativa, compiti la cui attuazione sarebbe spettata, in via promozionale e positiva, alle autorità amministrative dello Stato.
Se queste sono le cause originanti il dilagante abusivismo attuale, non vanno tuttavia dimenticati altri importanti fattori, di carattere culturale, politico e umano, che hanno moltiplicato la confusione dei ruoli e il disordine costituzionale, mettendo a rischio le libertà concrete dei cittadini.
Sul piano culturale conta soprattutto l’indiscriminato prevalere, nelle facoltà di giurisprudenza, di un esasperato tecnicismo giuridico, che esalta ossessivamente la funzione della norma a scapito del valore della giustizia, da cui si origina una sorta di rincorsa alla ricomprensione di ogni fatto umano sotto il tipo della fattispecie penale, quasi che fosse possibile e apprezzabile un controllo preventivo e generalizzato di tutta la vita sociale per opera dei procuratori penali. Prima di rifluire in iniziative e provvedimenti giudiziari, il panlegalismo culturale ha disteso tutta la sua influenza sull’operato del Parlamento, che si è dato cura di dilatare enormemente, negli ultimi quindici anni, l’apparato normativo sanzionatorio, nella prospettiva onnipervadente di un utopistico general-prevenzionismo penale. Sì che, mentre la soglia della decenza etica sul piano comportamentale si abbassava sempre più, col progredire dei fenomeni di disgregazione morale, sul piano legale venivano eretti molteplici sbarramenti giuridici postulanti, sotto la minaccia della sanzione, attitudini di contegno sempre più esigenti. La contraddizione che è venuta a crearsi dal contrasto tra il dilagare del vizio morale e l’esigenza etica di condotta, sottesa alla prescrizione legale, tende a risolversi esclusivamente per via giudiziaria, attraverso l’impatto esplosivo della coercizione procedimentale sulla libertà personale. Un siffatto dinamismo culturale è assai complesso e provoca effetti devastanti: per un verso non hanno spesso torto i procuratori penali, allorché sostengono di non svolgere altro compito se non quello di applicare la legge; per un altro verso hanno giusto titolo a lamentarsi coloro che — nel grande mare della corruzione dilagante — si vedono colpiti in violazione della par condicio e del principio di uguaglianza.
Sul piano politico può osservarsi che le iniziative dei procuratori della Repubblica, se pure non rispondono a un unico piano calcolato anticipatamente, come se un grande complotto avvolgesse in guisa di una rete tutta la vita nazionale, sono tuttavia spesso guidate dagli orientamenti investigativi maturati all’ombra dei raggruppamenti politico-ideologici che raccolgono l’ adesione attiva della maggioranza dei magistrati italiani. Se si pensa, poi, che ciascun raggruppamento intrattiene, nei suoi vertici più rappresentativi, relazioni importanti con le alte cariche dello Stato e con le diverse filière operanti all’interno dei partiti e delle istituzioni, e che il Consiglio Superiore della Magistratura, con la sua composizione, per una parte di scelta parlamentare e per l’altra parte di scelta elettiva ad opera dei magistrati organizzati su liste contrapposte, costituisce la camera di compensazione — mercé il suo enorme potere — di tutte le trame politiche soggiacenti, si comprende quanto esteso e incisivo sia diventato il potere della magistratura italiana e quanto decisiva sia la sua forza di pressione nei confronti delle altre istituzioni dello Stato.
Non vanno trascurati, infine, i fattori personali, che ingigantiscono gli avvenimenti anche più minuscoli e inducono a smarrire il senso della misura e il rispetto delle proporzioni. Molti pubblici ministeri, privi di ogni ancoraggio istituzionale, senza alcun rapporto gerarchico con i vertici dei loro uffici, senza una qualche investitura di tipo democratico o popolare, sedotti dal delirio di onnipotenza, costruiscono intorno a se stessi — mercé la disponibilità senza limiti degli apparati della polizia giudiziaria e con la strumentalizzazione accorta dei mezzi di comunicazione di massa — centri di potere incontrollabili, che agiscono eludendo le più elementari regole di competenza e le più essenziali esigenze di garanzia, nel perseguimento di piani politici oscuri e obliqui, di cui non rendono conto ad alcun referente istituzionale e — tantomeno — alla collettività organizzata nel corpo elettorale.
4. Una soluzione non risolutiva ma che peggiora la situazione
In una situazione siffatta v’è chi propone, in quasi tutti i settori dello schieramento politico parlamentare, la riforma dell’ordinamento giudiziario, con la separazione delle carriere e dei ruoli dei pubblici ministeri rispetto alle carriere e ai ruoli della magistratura giudicante. In una prospettiva similare, con maggior moderazione ma con più ambiguità, altri parlano non di una separazione delle carriere, bensì delle funzioni. Lo scopo di tutte le proposte è identico: abbattere il potere degli organi del pubblico ministero, riducendo il ruolo di tali organi a quello di una parte, parificata nelle facoltà alla parte che tutela gli interessi del privato coinvolto nel procedimento penale, erigendo uno steccato, concettuale e pratico, tra i pubblici ministeri e i giudici, nell’aspettativa che l’erezione di una siffatta barriera renderebbe più «terzo», più «neutrale», più «indipendente» il giudice rispetto alle pretese dell’inquirente.
Senonché, una proposta così concepita è concettualmente contraddittoria, siccome contraria ai princìpi fondamentali che reggono l’esercizio della giurisdizione e i rapporti tra i vari poteri dello Stato, nonché foriera di rischi — sul piano stesso del livello e dell’intensità dei poteri che si vorrebbero comprimere — più gravi di quelli che si corrono attualmente.
Sul piano dei princìpi, la separazione delle carriere, con il distacco dei pubblici ministeri dall’ordine giudiziario, porterebbe al riconoscimento istituzionale dell’esistenza di un potere autonomo, che non sarebbe di tipo giurisdizionale ovvero strettamente coordinato e funzionale rispetto a esso, la cui natura e i cui caratteri sarebbero oscuri e ambigui. Neppure tale potere, invero, potrebbe essere una branca o una diramazione del potere esecutivo o del potere parlamentare: se è vero, infatti, che molte proposte sono, più o meno sotterraneamente, motivate dall’intento di subordinare il pubblico ministero al potere del Governo, è anche vero che un tale esito sarebbe contrario alla civiltà giuridica italiana e alle esigenze più genuine che postulano un esercizio equo e indipendente dell’azione penale, al di fuori di ogni pressione o costrizione proveniente dal potere politico. Un tale esito, peraltro — la subordinazione istituzionale del pubblico ministero all’esecutivo —, sarebbe praticamente impossibile, perché contrario alla cultura giuridica e alla formazione pratica della totalità dei pubblici ministeri operanti nell’ordinamento istituzionale della Repubblica Italiana. Sì che l’eventuale separazione di tali organi dall’ordine giudiziario rischierebbe di dar origine a un potere autonomo, incontrollato e incontrollabile, destinato a svolgere, con l’avallo della legge, quei compiti di carattere general-preventivo e di impostazione e attuazione della politica criminale dello Stato, che oggi spettano istituzionalmente al Governo e in ordine ai quali oggi è generale la lagnanza circa l’ indebita loro appropriazione da parte dei pubblici ministeri.
Nella parte precedente di questo scritto si è visto che il punctum dolens dell’attuale prassi procedimentale sta proprio nella tracimazione dell’iniziativa dell’organo inquirente oltre il confine della notitia criminis, in una dilatazione di funzioni che lo induce a ricercare non le prove del reato già commesso, ma gli ambiti e le persone nei cui confronti accertare l’eventuale commissione di futuri reati. Qui si radicano, invero, l’invasione delle competenze spettanti alle articolazioni del potere esecutivo, la trasformazione del pubblico ministero in un organo di polizia, gli abusi investigativi, con la tendenziale onnipervadente limitazione preventiva e generalizzata dei diritti di libertà del cittadino, l’azzeramento della dignità e dell’autonomia della politica, nel disprezzo del diritto che essa possiede di assumere responsabilmente le decisioni necessarie o utili per il bene comune, e di attuarle in modo coerente e conseguente, senza gli ostacoli che un eventuale contro-potere giudiziario vuole astutamente e ostruzionisticamente frapporle.
Orbene, la separazione delle carriere dei pubblici ministeri rispetto a quelle dei magistrati giudicanti porterebbe proprio alla creazione di un super-potere informativo, investigativo e interdittivo, con competenze e attribuzioni vastissime, munito del controllo totalitario su tutti gli apparati di polizia, sottratto al controllo di qualsivoglia organo dello Stato e giuridicamente irresponsabile nei confronti del corpo elettorale. Sì che i rischi che si vorrebbero evitare sarebbero trasformati in danni sicuri e i poteri che si vorrebbero abbattere sarebbero accresciuti fino al parossismo. La soluzione, invero, dei problemi attuali sta nella presa d’atto, da parte della classe politica e dei pubblici ministeri, che l’esercizio dell’azione penale è strettamente e rigorosamente funzionale all’attuazione della finalità di giustizia, con riferimento a episodi determinati e specifici di patologia sociale, e non all’attuazione di finalità politico-preventive, che sostituiscano la leva della coercizione processuale all’indispensabile operosità amministrativa — sul piano informativo, investigativo e strettamente preventivo — degli organi appropriati appartenenti al potere esecutivo.
In realtà, più si distacca il pubblico ministero dal legame indissolubile che lo deve vincolare all’attuazione di una finalità concreta di giustizia, più vengono confusi i ruoli e più si accresce il potere incontrollabile di un organo impazzito nel contenitore vuoto di una politica assente. Accettare come salutare il rimedio proposto della separazione delle carriere significa disattendere l’insegnamento essenziale proveniente dalla serena constatazione della realtà storica: che, cioè, il potere dei pubblici ministeri non si è dilatato per virtù propria in attuazione di un complotto ordito da un gruppo determinato di persone, bensì a causa dell’assenza di poteri politici reali, effettivamente attenti alla cura del bene comune, per una sorta di dinamismo sociologico che porta al riempimento degli spazi vuoti da parte di quei poteri che si trovano in posizione di contiguità e di concorrenza rispetto ai poteri assenti o malati.
Mauro Ronco