Per vincere l’inverno demografico bisogna cambiare il proprio stile di vita. Non sarà facile né veloce, ma è l’unica strada. Gli aiuti economici servono ma non sono decisivi. Una riflessione intelligente apparsa su un quotidiano laicista
di Marco Invernizzi
Il mondo è pieno di problemi gravissimi, a cominciare da una guerra in corso alle porte dell’Europa, dopo l’invasione russa in Ucraina ormai quasi 18 mesi fa. E’ lecito sperare che la pace prima o poi si possa realizzare e bisogna pregare perché questo avvenga, anche sostenendo le iniziative in corso di Papa Francesco e della diplomazia della Santa Sede, avendo l’accortezza di non dimenticare che la pace senza giustizia non è pace e ogni iniziativa diplomatica non può mai portare alla giustificazione dell’aggressione e a consolidare una situazione di ingiustizia. “Meglio rossi che morti”: è uno slogan di tanti anni fa, che non vorremmo sentire ripetere, neppure nella versione nazionalista invece che comunista.
Ma c’è una malattia da cui l’Occidente non potrebbe liberarsi velocemente, anche se improvvisamente accadesse il miracolo della pace, o più realisticamente di una tregua d’armi. Questa malattia è il suicidio demografico, che continua in modo particolare in Italia, senza nessuna inversione di rotta all’orizzonte. Allora bisogna interrogarsi sulle origini di questa malattia, che riguarda la cultura dei nostri contemporanei, cioè le scelte esistenziali più importanti da parte dei giovani che oggi hanno dai 25 ai 40 anni, l’età in cui ragionevolmente ci si decide per il matrimonio o, comunque, per mettere al mondo un figlio.
I motivi per cui non si fa questa scelta non sono prevalentemente economici. Intendiamoci, onde non creare equivoci: ogni aiuto economico da parte delle istituzioni pubbliche (stato, regioni, comuni) a quei genitori che mettono al mondo un figlio va incoraggiato e apprezzato pubblicamente, perché in una certa misura aiuta a superare la crisi, così come dimostrano le province autonome di Trento e Bolzano, dove la percentuale di nascite per donna è migliorata anche grazie a politiche sulla natalità intelligenti e generose. Ed è importante anche solo il fatto che il dramma dell’inverno demografico venga ricordato dai governi, come fa meritoriamente quello italiano, perché costringe le persone quanto meno a riflettere. Tuttavia, è bene ricordare che il problema principale è su un altro piano, quello culturale, cioè quello per cui due giovani “decidono di decidere” di “dare la vita”, cioè di uscire da loro stessi, dal loro egoismo, per trasmettere la vita.
Ha colto bene questo punto la storica Lucetta Scaraffia su un quotidiano, La Stampa (29 giugno), che peraltro ha contribuito con la sua storia “laicistissima” a generare una mentalità anti-natalista. E infatti Scaraffia comincia ricordando che «chi parla a favore delle nascite deve subire il sospetto di essere considerato un fascista o come minimo un super cattolico conservatore», perché esiste tutta una cultura che si adopera a proteggere le minoranze lgbtq, le specie animali in via di estinzione, il sacrosanto diritto della creazione di essere rispettata e non manipolata, ma poco o niente per ricordare che un Paese senza figli è un Paese che sta morendo e che «con le culle vuote non può esserci ripresa economica».
Scaraffia ricorda gli intellettuali del Club di Roma, che negli anni ‘60 del secolo scorso lanciarono il libro di Paul Erlich The population bomb, che in pochi anni riuscì a fare credere che «la crescita demografica» fosse «come un cancro che non solo avrebbe ridotto in povertà i paesi ricchi, ma avrebbe distrutto l’intero pianeta».
Questo atteggiamento di fronte alla vita è dilagato per oltre mezzo secolo e ha convinto due generazioni. Sarà cosa lunga e difficile cambiare mentalità, e come tutte le conversioni all’inizio sarà dolorosa. Lucetta Scaraffia lo ricorda molto lucidamente: «… è molto difficile cambiare una tendenza così radicata nell’ultimo mezzo secolo e così sostenuta dai media come via maestra per la felicità». E tuttavia è l’unica strada che può impedire veramente “la morte della patria” e può restituire la felicità, quella vera, a chi avrà il coraggio di seguire la strada della vita.
C’è un ultimo aspetto ricordato dall’articolo di Lucetta Scaraffia: nessuno chiede scusa «per l’abbaglio preso in passato (…) nessuno che avanzi il sospetto che il progresso ha anche una faccia negativa, forse persino distruttiva». E’ vero, ogni conversione prevede un’accusa dei propri errori, perché sia efficace e aiuti ad aprire gli occhi a chi ci guarda. E’ veramente strano che oggi, diventati una società di vecchi e davanti al rischio che le pensioni degli anziani potrebbero, un domani non troppo lontano, non essere più pagate per mancanza di giovani, molti comincino a svegliarsi dal sogno progressista post-1968 senza mettere in discussione quel modello culturale, che ha portato alla catastrofe. Non sarebbe soltanto giusto, ma necessario per invertire veramente la rotta verso una società più umana, più felice, e più feconda…
Lunedì, 3 luglio 2023