Marco Invernizzi, Cristianità n. 419 (2023)
Introduzione
Il conservatorismo non è un’ideologia (1). Penso sia questo il punto di partenza per cercare nella storia dell’Italia moderna chi è stato conservatore e perché. Così come chi appartiene alla scuola contro-rivoluzionaria, il conservatore non ha un’idea astratta e soggettiva sull’uomo e sul mondo e non cerca di realizzarla attraverso la conquista del potere, imponendola al popolo, spesso con la violenza, come avvenne con la Rivoluzione del 1789, prima in Francia e poi negli altri Paesi europei, e come poi è avvenuto nel 1917 in Russia con il colpo di Stato che ha portato al potere il partito comunista bolscevico.
Il conservatore, come il contro-rivoluzionario, non ha idee precostituite ma ricava la propria visione dell’uomo e del mondo dalla realtà, cioè dalla natura e dalla Rivelazione, se è credente, ossia dall’intervento di Dio nella vita dell’uomo attraverso la Creazione e, come Provvidenza, nella storia (2): egli è essenzialmente un «coltivatore» e un «custode» dell’ordine della creazione che si trova davanti e che non ha creato lui.
Per il conservatore esiste un ordine divino che si può evincere e contemplare nella Creazione, un ordine che è buono in sé perché nasce da un atto d’amore dell’Essere verso le creature, perché Dio vuole la felicità degli uomini. Si tratta di «conservare» questo ordine, difendendolo anche dalla debolezza e dalla confusione degli uomini feriti dalla colpa originale, visibile anche da chiunque osservi la cattiveria presente in abbondanza e in permanenza nella storia umana.
Il conservatore, dunque, è il contrario dello gnostico, che vuole «rifare» l’uomo e il mondo secondo un proprio progetto, pensando che Dio si sia sbagliato nel creare l’uomo e il mondo così come sono nella realtà.
Nell’epoca moderna lo gnostico antico è diventato il rivoluzionario, l’attore di quel processo che in Europa ha creato le ideologie per sostituire, dopo averle abbattute, le istituzioni create o valorizzate dall’opera evangelizzatrice della Chiesa cattolica: l’autorità della Chiesa stessa, messa in discussione dalla Riforma; l’autorità politica, attaccata dalla Rivoluzione del 1789; l’assetto economico e sociale, fondato sulla proprietà privata e sui corpi intermedi, in primis la famiglia, messo in discussione dal marxismo; infine, l’uomo, ridotto gradualmente a creatura senza più protezioni, senza patria, senza famiglia, senza proprietà, pronto per essere «lavorato» dallo Stato e/o dal «pensiero unico» (3). Così, dal 1968, l’uomo è diventato l’oggetto di una nuova, e intenzionalmente definitiva, aggressione culturale, una rivoluzione «ultima» perché non mira, come le precedenti, ad abbattere le istituzioni, ma a mutare l’uomo stesso, minando la sua identità più profonda (4).
Il conservatore non può essere pensato a prescindere da questa storia. Pur non essendo un’ideologia, è difficile pensare il conservatorismo prima delle ideologie. Certo, esiste un atteggiamento di fondo che un credente può cogliere nel modo di essere e di combattere attribuito dalla cosmogonia cristiana a san Michele arcangelo, che lancia il grido «Quis ut Deus?», «Chi come Dio?» contro l’angelo ribelle, Lucifero, per difendere e conservare l’ordine voluto da Dio. Così come sono conservatori Manlio Torquato Severino Boezio (480 ca.-524) o Flavio Magno Aurelio Cassiodoro (490 ca.-580 ca.), che vogliono conservare nel mondo nuovo che sta nascendo dalla fine dell’epoca antica le grandi verità del pensiero classico.
Tuttavia, soltanto nell’epoca delle ideologie la parola «conservatorismo» prende corpo, si palesa, anche se soprattutto nei Paesi anglosassoni: essa appare già durante la Rivoluzione francese grazie alla penna del deputato inglese — anglicano e whig, cioè non conservatore — Edmund Burke (1729-1797). In Europa e in Italia il modo di attuarsi del conflitto fra la Rivoluzione e chi le si oppone è stato diverso. Il grande evento spartiacque è la Rivoluzione francese, nel 1789. Era da almeno un secolo che l’Illuminismo aveva lavorato sul corpo sociale della Francia e degli altri Paesi europei, e il 1789 fu lo sbocco di questo lavorio sulla società.
Tuttavia, sarebbe un errore ritenere i conservatori semplicemente come degli innamorati del mondo pre-rivoluzionario o come dei sostenitori della società precedente in ogni nuova fase del processo rivoluzionario. Conservare non significa non vedere i limiti del cosiddetto Antico Regime e neppure essere sostenitori a spada tratta della società liberale di fronte alla sfida del socialismo. Il conservatore constata che la Rivoluzione è un processo e ogni sua fase allontana sempre di più la società dai princìpi che stanno a cuore a chi crede nei valori eterni, metafisici, che l’uomo e lo Stato non creano ma trovano (5). Ma per conservare i princìpi fondamentali bisogna continuamente migliorare, riformare, adattare alle nuove situazioni: insomma, chi vuole essere un conservatore deve costruire un futuro migliore senza imbalsamare il passato.
Questo è un punto molto importante perché, secondo un’errata concezione, conservatori sarebbero i liberali verso i socialisti, i socialisti riformisti rispetto ai comunisti, questi ultimi addirittura rispetto agli anarchici. Quando nell’agosto 1991 vi fu il tentativo di riportare la Russia nelle mani dei vecchi comunisti sovietici, questi ultimi vennero definiti «conservatori» rispetto a chi cercava di portare l’Unione Sovietica definitivamente fuori dal comunismo. Così, però, si genera confusione e non si coglie l’essenza di un atteggiamento conservatore di fronte alla storia che muta continuamente.
Le insorgenze
Nella Penisola italiana le idee della Rivoluzione francese arrivano con l’Armée d’Italie,vittoriosa sul Regno sardo nella Guerra delle Alpi (1792-1796) (6). All’irruzione delle idee rivoluzionarie si oppongono in armi gli insorgenti, i contro-rivoluzionari popolari dell’epoca. In che senso possono essere definiti conservatori? Certo, gl’insorgenti non volevano accettare la violenza con cui degli stranieri imponevano loro tasse esagerate e la leva obbligatoria per una guerra di cui nulla comprendevano, ma resistevano anche perché erano fedeli alla religione che professavano da secoli e che i loro nemici, i «giacobini», i partigiani della Francia rivoluzionaria, detestavano. Si trattava di popolani e contadini e non di intellettuali capaci di elaborare culturalmente questo rifiuto. È così inverosimile pensare che non si sarebbero opposti a riforme capaci di migliorare il loro stato di vita e anche a forme politiche diverse da quelle sperimentate? Insomma, ciò che volevano conservare erano i valori fondanti una certa civiltà, non necessariamente le sue forme.
Gli insorgenti perirono a migliaia e vennero sconfitti, ma la loro testimonianza non fu inutile. Se oggi abbiamo una certa idea di come le rivoluzioni siano state imposte ai popoli da minoranze estranee al loro comune sentire, lo dobbiamo soprattutto all’opposizione popolare manifestatasi in tutti quei Paesi europei dove gli eserciti di Napoleone Bonaparte (1769-1821) avevano cercato di imporre con la violenza la nuova ideologia e un nuovo modo di vivere. Purtroppo, le loro battaglie non sono state riprese, se non dove hanno trovato intellettuali e una classe politica disposti a valorizzare il loro sacrificio, come per esempio in Tirolo nel caso di Andreas Hofer (1767-1810). Altrove, come in Italia, la loro testimonianza è stata sotterrata dalla storiografia ufficiale, sia quella liberale sia quella nazionalista-fascista, sia dalle culture crociana e marxista, dominanti nel secondo dopoguerra. Per chi ha scritto la storia d’Italia gl’insorgenti erano retrogradi, poco importanti, e rappresentavano un fenomeno al quale non era bene dare troppo rilievo perché avrebbe offuscato il mito del Risorgimento (7).
Gli insorgenti erano conservatori? È difficile attribuire un significato culturale a una rivolta popolare, che fallì anche perché non ebbe classi dirigenti che vollero guidarla. Certamente, se il conservatorismo non è un’ideologia ma un insieme di giudizi sulla realtà, quindi una cultura, essi sono morti per conservare quei princìpi nei quali erano cresciuti, anzitutto la libertà di appartenere a una cultura e a una civiltà.
La Restaurazione
Il 9 giugno 1815 si concluse il Congresso di Vienna, apertosi il 1° novembre 1814. Vi parteciparono i Paesi che avevano sconfitto Napoleone dopo un lungo ventennio di guerre quasi ininterrotte — Russia, Austria, Prussia, Regno Unito —, che stipularono fra loro un trattato, detto la Santa Alleanza, di mutuo sostegno in caso di rivoluzione, cui dal 1818 aderì anche la Francia, tornata sotto la sovranità dei Borbone dopo l’esilio napoleonico. Non vi aderirono Regno Unito, Impero Ottomano e Santa Sede. Il Congresso riportò solo parzialmente le divisioni territoriali allo stato precedente il 1815 e non ripristinò i princìpi fondamentali del bene comune su cui si fondava l’Antico Regime. Giova leggere e riflettere su queste considerazioni di uno studioso marxista, Giorgio Candeloro (1909-1988): «Il nome di Restaurazione, con cui si indica comunemente il periodo 1815-1830, non deve essere interpretato nel senso di un ritorno puro e semplice all’antico regime: questo giudizio semplicistico, che non vale per la sistemazione dinastica e territoriale dell’Europa allora fissata, neppure vale per la struttura interna della maggior parte degli Stati europei. È necessario distinguere bene l’effettiva realtà storica di quel periodo dalle aspirazioni degli scrittori reazionari più estremi come Joseph de Maistre [1753-1821] e Louis de Bonald [1754-1840], ad un ritorno della società alla struttura assolutistico-feudale prerivoluzionaria e preilluministica. In realtà, quasi ovunque dopo il 1815 rimasero in vigore nel campo amministrativo, legislativo, finanziario e militare numerose leggi, metodi e usanze di origine rivoluzionaria o napoleonica; in molti Stati rimase in servizio una parte notevole del personale amministrativo, militare e diplomatico che aveva servito Napoleone, mentre quasi tutti gli statisti che allora dominarono la politica europea, a cominciare dallo stesso [Klemens Wenzel von] Metternich[-Winneburg-Beilstein; 1773-1859], furono uomini formatisi nell’età dell’assolutismo illuminato, non molto sensibili alla nuova cultura romantica e ai miti medioevalistici dei pubblicisti reazionari» (8).
Dopo la sconfitta, però, i rivoluzionari non scomparvero e si riorganizzarono. Lo fecero in due modi. Innanzitutto dando vita a società segrete cospirative, in particolare la Società dei Sublimi Maestri Perfetti, fondata ad Alessandria da Filippo Buonarroti (1761-1837) nel 1818 — che accolse gli «estremisti» sconfitti durante la Rivoluzione francese, come i seguaci di Francois-Nöel «Gracchus» Babeuf (1760-1797) —, con cui il primo «rivoluzionario di professione» cercò di tenere insieme e di controllare le altre società segrete che operavano in Italia e in Europa. All’interno di questo filone rivoluzionario, la cui tattica era basata su ripetuti tentativi insurrezionali e su una costante azione di propaganda nel corpo sociale, si svolsero anche le iniziative eversive patrocinate dalla massoneria, che riemerse ufficialmente tuttavia solo nel 1859 perché troppo compromessa con il regime napoleonico, e dalla Carboneria, che svolse un’azione importante soprattutto nel Mezzogiorno d’Italia (9).
L’altro modo in cui venne portato avanti il processo rivoluzionario in Italia, oltre a quello settario, fu attraverso la mancata epurazione delle classi dirigenti compromesse con Napoleone, che non smisero di tramare, cercando, e spesso riuscendovi, di rimanere al potere, e infiltrando i governi restaurati. Erano gli eredi di quell’assolutismo illuminato e riformatore che aveva caratterizzato il Settecento, che pure aveva combattuto le frange estreme della Rivoluzione, ma ne condivideva almeno in parte alcuni presupposti ideologici. Questa fase della storia europea, il dispotismo o assolutismo illuminato, ha svolto un’importante funzione nella prospettiva rivoluzionaria, non solo sul piano civile ma anche su quello ecclesiastico, alleandosi con le correnti giansenistiche. Il tentativo di portare la rivoluzione nella Chiesa attraverso il rigorismo dei giansenisti (10) fallì, soprattutto per la reazione della maggioranza dei vescovi e del popolo, particolarmente forte nel Granducato di Toscana, mentre le riforme volute dall’imperatore Giuseppe II d’Asburgo-Lorena (1741-1790) lasciarono un segno nella società, anche se furono poi in parte ritirate. Così scrive uno dei maggiori storici del Settecento: «La valanga giuseppina spazza gli ultimi residui delle autonomie e dei particolarismi, segna la fine della supremazia patrizia, stringe nel suo sforzo accentrato il ducato nella rete di una bene organizzata burocrazia. Come in Austria, così in Lombardia, il nuovo Stato di Giuseppe II estende la sua sorveglianza ad ogni settore, dall’educazione alla beneficenza, invade violentemente il campo ecclesiastico, in una grande offensiva dello Stato contro la Chiesa, dell’illuminismo contro il cattolicesimo» (11).
Lo stesso principe di Metternich — che possiamo definire in un certo senso conservatore, perché dedicò tutta la vita alla lotta contro la Rivoluzione e alla conservazione della monarchia asburgica, che servì ininterrottamente per tutta la vita — culturalmente era un illuminista.
Questo passaggio ci permette di individuare almeno due modi di essere conservatori in quel frangente storico. Quello di chi si limitava, proprio come Metternich, a un conservatorismo delle istituzioni e quello di chi riteneva doveroso andare in profondità e riportare alla luce quei princìpi fondamentali del bene comune che neanche i vincitori di Napoleone indossavano: quest’ultimo, il conservatorismo dei princìpi perenni, può essere definito come il conservatorismo autentico.
Il Risorgimento, il movimento cattolico e la «Destra storica»
Secondo la vulgata ufficiale il Risorgimento è stato attuato da due correnti ideologico-politiche, una «moderata», facente capo a Camillo Benso conte di Cavour (1810-1861) e alla Corona dei Savoia, e una «repubblicana», facente capo a Giuseppe Mazzini (1805-1872), considerata estremista perché metteva in questione la monarchia e perché in qualche modo ereditava tutto il lavorio ideologico delle società segrete del primo Ottocento.
Come si sa, vinse la prima e Cavour viene identificato fra i quattro «padri della patria» — insieme a re Vittorio Emanuele II (1812-1878), Giuseppe Garibaldi (1807-1882) e Mazzini —, come il vero tessitore del processo che sfociò nell’Unità del 1861 e, da alcuni, viene considerato un «conservatore», così come «conservatrice» è ritenuta la Destra storica che guidò il Paese fino al 1876.
Ma i conservatori autentici erano stati sconfitti e, dopo l’unità d’Italia, erano usciti dalla politica attiva. L’ultimo di essi era stato Clemente Solaro della Margarita (1792-1869), ministro degli Esteri del re Carlo Alberto di Savoia (1798-1849) prima della svolta liberale di quest’ultimo (12). All’interno della componente che «unificò l’Italia» avvenne un semplice scontro di potere fra uomini diversi riconducibili alla Destra e alla Sinistra storiche, cioè liberali, parzialmente in conflitto su questioni anche di un certo rilievo, come il regionalismo della prima e lo statalismo della seconda, ma la visione del mondo di Cavour e della Destra storica si può definire conservatrice solo in senso relativo o «posizionale».
In realtà, i conservatori veri c’erano e si trovavano in quello che venne definito il «movimento cattolico», la vera rappresentanza del «Paese reale» contro quello «legale». Con la prima espressione si indica la maggioranza della popolazione, ancora profondamente legata alla Chiesa; con la seconda, la minoranza al potere, che controllava i cosiddetti «poteri forti», cioè la monarchia, l’esercito, il parlamento, la burocrazia. I primi erano conservatori nel senso che volevano conservare all’Italia, unificata da forze ostili alla Chiesa, quei princìpi perenni alle radici della civiltà italiana, basati sulla natura umana e sul cristianesimo. Erano conservatori perché volevano conservare la struttura gerarchica della Chiesa fondata sul Primato di Pietro, così come era stata voluta dal suo Fondatore, e quindi rifiutavano ogni falso riformismo che pretendesse di mettere in discussione tale assetto. Per questo, dopo l’annessione forzata di Roma al Regno d’Italia con la Breccia di Porta Pia nel 1870, questi cattolici conservatori scelsero di stringersi attorno al Papa prigioniero in Vaticano, decidendo di non partecipare alle elezioni nazionali in segno di protesta — il cosiddetto «non expedit» —, anche perché, fino alle elezioni politiche del 1913, gli italiani ammessi al voto erano una esigua minoranza selezionata su base censitaria e le classi alte erano prevalentemente su posizioni liberali. Sempre del liberalismo rifiutavano la versione «cattolico-liberale», mirante a una riforma della Chiesa che eliminasse il Primato di Pietro così come proclamato dal Concilio Vaticano I (1869-1870), pochi giorni prima dell’ingresso dell’esercito italiano in Roma. La riforma della Chiesa in senso liberale era stato il «sogno» del giansenismo nel Settecento ed era stata portata avanti da diversi cattolici liberali nell’Ottocento: per alcuni si trattava di un’idea di derivazione protestante, per altri di un tentativo di conciliare il liberalismo, ideologia nata dalla Rivoluzione francese, con un cristianesimo che prescindesse dal magistero dei Pontefici, mentre per altri ancora era semplicemente il tentativo di unire monarchia e Papato nella comune difesa contro l’avanzata del socialismo. Il cattolicesimo liberale era contrario al dispotismo o all’assolutismo delle monarchie nazionali e dell’impero asburgico e desiderava una costituzione per frenare la deriva verso il dispotismo. Questa era, per esempio, la posizione del beato Antonio Rosmini Serbati (1797-1855), profondamente avverso al liberalismo filosofico, ma favorevole a una soluzione politica della situazione italiana che salvaguardasse la libertas Ecclesiae. Sulle stesse posizioni di assoluta fedeltà alla Chiesa e contemporaneamente conservatrici in politica era il beato Contardo Ferrini (1859-1902) (13), grande studioso del diritto e per un certo tempo della sua breve vita consigliere comunale di Milano, eletto in una lista di cattolici conservatori provenienti da diverse esperienze politiche.
Estremamente minoritari anche all’interno del mondo cattolico di allora, i cattolici liberali, dopo il breve successo del «neo-guelfismo» dell’abate Vincenzo Gioberti (1801-1852), non avranno un’influenza molto significativa all’interno del processo risorgimentale, che si svolse attorno alle due correnti menzionate, quella monarchica liberale e quella mazziniana.
Si può così affermare che nell’Italia unita gli unici autentici conservatori erano i cattolici cosiddetti «intransigenti», che rifiutavano la fine violenta del potere temporale del Papa. Essi, riuniti nell’Opera dei Congressi (1874-1904), da cui germinerà la UECI, l’Unione Elettorale Cattolica Italiana, avevano il sostegno della popolazione e della gerarchia ecclesiastica, ma non avevano un vero e proprio progetto politico che non fosse l’organizzazione del «Paese reale». Non erano più legittimisti in senso proprio, né filo-borbonici né «austriacanti», cioè incondizionatamente alleati con l’Impero austriaco, del quale non avevano condiviso il regalismo che «legava» la Chiesa, limitandone la libertà, sebbene dopo il 1848 venisse ristabilita un’alleanza fra Chiesa e Impero asburgico grazie alla stipula di un Concordato molto più rispettoso degli interessi ecclesiastici. Il movimento cattolico dopo il 1870 diventa in stragrande maggioranza «intransigente», concentrandosi sulla libertà del Papa prigioniero e cercando di riunire i cattolici italiani dei diversi Stati, che fra loro non si conoscevano, attraverso l’organizzazione di congressi nazionale annuali, da cui prese nome il loro organismo nazionale, l’Opera dei Congressi (14).
Questo aspetto — il dedicarsi all’organizzazione del «Paese reale» contro quello «legale» — non va sottovalutato. Esso ha permesso la nascita di centinaia di opere d’impronta cattolica: banche, società operaie e di mutuo soccorso, casse rurali, leghe, in generale un tessuto sociale nuovo che sarebbe durato per decenni. Per altro verso, la scelta del non expedit impedirà di elaborare un progetto politico e una strategia di partecipazione all’esercizio del potere.
Il «Patto Gentiloni» e la Grande Guerra
Il primo gesto politico rilevante compiuto dal mondo cattolico all’interno delle istituzioni deve attendere la vigilia della Grande Guerra. Nel 1913 viene stipulato il cosiddetto «Patto Gentiloni», dal nome del presidente della UECI Vincenzo Ottorino Gentiloni (1865-1916), che aveva organizzato l’intervento dei cattolici in occasione delle elezioni politiche di quell’anno negoziando con il presidente del Consiglio, Giovanni Giolitti (1842-1928), il voto cattolico in cambio del rispetto da parte degli eletti di alcuni princìpi essenziali della dottrina cristiana, il cosiddetto «eptalogo», sette punti irrinunciabili (15). L’accordo porta all’elezione di 228 deputati e determina la sconfitta del movimento socialista. Ma attorno a questa mossa — che di fatto sbloccava il non expedit — non esisteva un progetto politico più ampio. Con lo scoppio della Prima Guerra Mondiale e l’ingresso in essa dell’Italia, nel 1915, tutto cambia (16).
Dal 1861 alla Prima Guerra Mondiale in Italia non vi fu un partito conservatore. L’unico tentativo concreto prese corpo nel 1879 con le riunioni nella casa romana del conte umbro Paolo Campello della Spina (1829-1917), dove si trovarono da febbraio ad aprile rappresentanti del movimento conciliatorista, cioè coloro che auspicavano la nascita di un partito conservatore che difendesse insieme gli interessi della Chiesa e della monarchia. Ma il progetto non riscosse un vero placet da parte della Santa Sede, dove da poco regnava Leone XIII (1878-1903), e il tentativo fallì (17).
La guerra ha rappresentato un vero e proprio spartiacque nella storia moderna, secondo soltanto alla Rivoluzione francese. Le sue conseguenze furono enormi da tanti punti di vista, in primis per le conseguenze che provocò sulla salute mentale di decine di milioni di combattenti tornati dal fronte feriti o disturbati a causa dei tanti anni trascorsi nelle trincee fra i peggiori disagi, aspettando letteralmente la morte, senza dimenticare le conseguenze sulle famiglie, a cui la guerra tolse padri e mariti, fratelli e parenti (18). Oltre agli enormi danni arrecati dal conflitto alle condizioni di vita delle popolazioni coinvolte, vi furono conseguenze culturali, politiche ed economiche. La Grande Guerra segna l’inizio della cosiddetta «nazionalizzazione delle masse», che diventano le principali protagoniste della storia (19). Dopo il conflitto l’Europa, e in particolare l’Italia, passa da una società contadina, molto statica, a una società completamente diversa. I giovani contadini partiti per il fronte tornarono trasformati e sempre più disaffezionati dallo Stato a causa delle ingiustizie patite negli anni della guerra di trincea e i giovani borghesi rientrarono con prospettive politiche e culturali nuove, più influenzati dalle ideologie. Nascono così i partiti di massa: il liberalismo, il nazionalismo, il socialismo, che non sono più professati soltanto da minoranze ma, appunto, diventano ideologie di massa. Nel 1919 nascono a Milano i Fasci di Combattimento, primi nuclei di quel fascismo che andrà al governo in soli tre anni, sotto la guida dell’ex socialista massimalista e direttore dell’Avanti! Benito Mussolini (1883-1945). Nel 1921 sorge a Livorno il Partito Comunista d’Italia, costola del Partito Socialista Italiano, dal quale si stacca sposando le tesi della III Internazionale comunista, nata a Mosca dopo la cosiddetta Rivoluzione d’Ottobre, che nel 1917 aveva portato al potere in Russia il partito bolscevico di Vladimir Il’ič Ul’janov «Lenin» (1870-1924).
Sempre nel 1919 nasce a Roma il Partito Popolare Italiano (PPI), fondato da don Luigi Sturzo (1871-1959) con il tacito avallo della Santa Sede. Esso rappresenta una svolta importante nella storia del movimento cattolico perché, con la partecipazione dei «popolari» alle elezioni, segna l’ingresso definitivo dei cattolici nelle istituzioni del Regno d’Italia e il superamento del non expedit. Il partito non vuole un programma bollato come «conservatore» bensì un programma definito «democratico», nel senso che contesta all’Italia liberale al governo di essere una minoranza alla guida di un popolo che non rappresenta. Il PPI ha un programma fondato sul decentramento, sulla denuncia dello statalismo, sull’equità sociale, accantonando di fatto il tema della Questione Romana, e privilegia la Questione Sociale, sollevata dal partito socialista, che utilizzava in chiave rivoluzionaria la povertà dei contadini e degli operai del tempo, vittime delle prime conseguenze negative della rivoluzione industriale.
In ogni caso, il PPI, che aveva un programma di riforme sociali e di allargamento dell’area di governo, si trova di fatto a rappresentare anche quel mondo conservatore, composto soprattutto da cattolici, che lotta contro l’estremismo dei socialisti e contro il netto rifiuto di una parte dei liberali di allearsi contro i «rossi», i socialisti, con i «neri», come definivano i «clericali», cioè i cattolici.
La difficoltà dei popolari a indossare questo ruolo di lotta anti-socialista e anti-comunista durante il «biennio rosso» (1920-1921) favorisce l’avanzata del movimento fascista, che si «smarca» rapidamente dalle posizioni rivoluzionarie e di sinistra del 1919 per diventare il punto di riferimento della lotta contro socialisti e comunisti, una lotta politica ma anche fisica, che si svolge nelle piazze e nelle campagne, oltre che nelle fabbriche.
In questi primi anni successivi alla fine del conflitto i conservatori rappresentano la grande maggioranza dell’elettorato che votava per il PPI, nonostante don Sturzo avesse esplicitamente rifiutato la qualifica di conservatore per il suo partito. Eppure, il suo elettorato è lo stesso che nel 1913 aveva portato in Parlamento 228 deputati «gentilonizzati», come spregiativamente erano stati definiti coloro che avevano votato i candidati cosiddetti «clerico-moderati» in virtù del Patto Gentiloni. Si trattava di un elettorato anzitutto «conservatore dei valori», che contestava l’Italia liberale perché aveva emarginato la Chiesa da ogni ruolo pubblico, e rappresentava idealmente la stessa «opposizione cattolica» allo Stato unitario, identificatasi nell’Opera dei Congressi. Ma era anche costituito da quei conservatori che si opponevano all’avanzata del movimento socialista, diventato partito nel 1892, contestavano la linea dei cattolici democratico-cristiani e preferivano allearsi con i socialisti pur di sconfiggere quei liberali che avevano perseguitato o estromesso la Chiesa. Erano, altresì, conservatori che avevano poco a che fare con quei politici liberali, come Antonio Salandra (1853-1931) e Sidney Sonnino (1847-1922), artefici dell’ingresso in guerra dell’Italia nel 1915, che invece alcuni studiosi definiscono tali.
La Grande Guerra è un’occasione proficua per distinguere i conservatori autentici, quelli legati ai princìpi perenni, da chi vuole semplicemente evitare un male peggiore. Chi è veramente conservatore intuisce la portata rivoluzionaria e l’ispirazione massonica del conflitto, voluto non solo per Trento e per Trieste, ma anche per distruggere gli Imperi Centrali, in particolare quello asburgico, e per depauperare della propria cultura e destrutturare una società ancora cristiana, limitando l’influenza internazionale della Chiesa. Sono soprattutto i cattolici «conservatori» a rendersene conto, seguendo le indicazioni del magistero pontificio sulla «inutile strage» (20): essi sono per la neutralità e per il non-intervento, anche perché ideologicamente ostili a quel nazionalismo che con la guerra avrebbe diviso episcopati e fedeli delle diverse nazioni in guerra fra loro. Il conflitto mondiale sarà una vera e propria tragedia per uomini e famiglie, ma anche per l’Europa intera come «continente culturale», che ne uscirà ridimensionata quanto a importanza nel mondo, divisa e piena di quel rancore nazionalista che sarà all’origine della Seconda Guerra Mondiale, vent’anni dopo. Se lo capiscono i conservatori, non altrettanto si può dire per i cattolici di altro orientamento, come lo stesso don Sturzo, incredibilmente favorevole all’intervento in guerra dell’Italia in chiave anti-tedesca. Come lui si comportavano tanti cattolici democratici, in qualche modo infatuati dal nazionalismo dilagante e da un comprensibile astio verso il nazionalismo tedesco, ma poco attenti alle preoccupazioni dei Papi: san Pio X (1903-1914), che muore il 20 agosto 1914 addolorato dall’inizio di quello che chiamava il «guerrone» (21), e Benedetto XV (1914-1922), il Pontefice che si prodigò in ogni modo perché la guerra terminasse.
L’«ala destra» del PPI e il fascismo
Suo malgrado, dunque, il PPI rappresenta l’involucro politico dentro il quale si accasano i conservatori, accanto ai «progressisti» che avevano scelto il programma democratico-cristiano di don Sturzo: «Alla proposta di Sturzo di creare un nuovo soggetto politico con chiaro programma progressista — scrive lo storico gesuita padre Giovanni Sale — aderì con grande slancio gran parte del mondo cattolico, sia quello di ascendenza democratico-cristiana — nel quale Sturzo stesso aveva militato, pur senza far proprie le posizioni di Romolo Murri in campo culturale e religioso — sia quello più sensibile a proposte di mediazione in campo politico, cioè i clerico-moderati di filiazione giolittiana, o i cosiddetti “conservatori nazionali” ultimi epigoni del cattolicesimo liberale (e quindi di ascendenza “conciliatorista”), nonché i vecchi “intransigenti” di provata “fede papalina” che avevano militato nell’Opera dei Congressi, soppressa nel 1903 da Pio X» (22). Nel PPI si costituisce la cosiddetta «ala destra», per opera di quei cattolici intransigenti che avevano animato l’Opera dei Congressi e poi la UECI e l’Unione Popolare, creati in seguito alla riforma delle organizzazioni cattoliche voluta da Papa san Pio X (23). Alcuni di questi «popolari» in occasione delle elezioni politiche del 1924 entrano nel cosiddetto «listone», che riuniva fascisti e conservatori di diverse provenienze. Questa coalizione, vincente in quelle elezioni, getta nel 1925 le basi della costruzione dello Stato autoritario e della messa fuori legge di tutti i partiti, escluso il Partito Nazionale Fascista.
La vita del PPI è molto travagliata. Al suo interno vi sono diverse correnti che contestano la linea di don Sturzo, fra cui gli ex intransingenti, che vengono definiti l’«ala destra», e quelli che non gradiscono l’aconfessionalità del partito, in particolare i fondatori dell’Università Cattolica, padre Agostino Gemelli O.F.M. (1878-1959) e monsignor Francesco Olgiati (1886-1962) (24). Di fronte alla crescita del movimento fascista il PPI si divide fra chi percepisce il pericolo di tale ascesa per il futuro della libertà e della democrazia nel Paese e chi, invece, vorrebbe collaborare nella battaglia anti-socialcomunista condotta dal fascismo. La Santa Sede abbandona però il PPI e sceglie la strada della collaborazione con il fascismo, culminata nel Trattato del Laterano e nel Concordato del 1929, che sanano la «ferita» del Risorgimento e della Breccia di Porta Pia, ma pongono la parola fine alla presenza politica dei cattolici nella vita pubblica italiana (25).
Così i conservatori cattolici sopravvivono dentro le pieghe del Regime ma diventano irrilevanti: il fascismo, infatti, pur mettendo la sordina alle prospettive rivoluzionarie delle origini non rinuncia a voler tenere insieme, proprio come in un fascio, posizioni ideologiche diverse e contradditorie.
Dopo la Seconda Guerra Mondiale: il referendum istituzionale e il 18 aprile 1948.
Come spiega lo storico Renzo De Felice (1929-1996), il regime fascista, nella sua durata ventennale ebbe un largo consenso, che durò almeno fino alle leggi razziali del 1938 e all’ingresso in guerra a fianco della Germania nel 1940. Non si trattava di un consenso ideologico: il regime veniva apprezzato dai più non perché volesse costruire l’«uomo nuovo», ma perché garantiva all’uomo «normale» una vita «normale».
Si può dire che quello che sostenne il regime fra il 1925 e il 1938 fosse un consenso di tipo «conservatore»? Fra i sostenitori non ideologici del fascismo vi erano coloro che temevano il socialcomunismo e le forze politiche che lo avrebbero potuto sostenere o comunque non combattere in modo adeguato. Costoro erano conservatori nel senso che ritenevano che la maggior parte dei princìpi perenni, fondamentali per il bene comune, come quelli sostenuti in particolare dal Magistero della Chiesa, fossero difesi più dal regime dittatoriale che dal sistema parlamentare fondato sui partiti, che il fascismo aveva cominciato a smantellare dopo il 1925.
Questi conservatori erano comunque poco rappresentati nelle élite del regime, mentre istanze conservatrici erano forti nel popolo. La maggior parte degli italiani accettò il fascismo senza particolare entusiasmo — se non forse perché affascinati dalla persona di Mussolini —, ma con una certa gratitudine perché l’Italia conobbe un periodo di pacificazione, di ordine, di tranquillità e anche di sviluppo economico, accrescendo il proprio prestigio nel mondo. Si potrebbe dire che era fondata l’accusa dei fascisti intransigenti al regime di essersi imborghesito, ma proprio questo ampio consenso permise a Mussolini di governare. Forse ai sostenitori di orientamento cattolico del fascismo può rimproverarsi di aver trascurato due princìpi fondamentali della dottrina sociale della Chiesa, già allora notevolmente ricca: da una parte, la regalità anche sociale di Cristo, che comportava il dovere di cercare di costruire una civiltà ispirata ai valori evangelici e al diritto naturale, e, dall’altra, il valore della libertà, anche politica, che il fascismo invece rifiutava.
In questo senso si può dire che la grande maggioranza dei consensi cosiddetti conservatori al fascismo esprimevano un consenso interessato, una sorta di accettazione del fatto compiuto perché garantiva una vita pacificata dopo decenni caratterizzati prima dal conflitto contro la Chiesa e poi dalla lotta fra le diverse fazioni ideologiche. Forse l’unico tentativo di operare culturalmente dentro il regime per cercare di «convertirlo» fu quello operato da padre Gemelli e dal gruppo di intellettuali dell’Università Cattolica, dove il francescano, da laico noto scienziato, voleva formare una nuova classe dirigente, il cui pensiero di fondo avrebbe dovuto superare il predominio culturale della filosofia idealistica radicale e secolaristica gentiliana nelle strutture educative del regime. Il tentativo gemelliano non riuscì, ma non riuscì neppure l’analogo tentativo di cristianizzare il regime svolto a livello nazionale dalla Chiesa italiana, a parte l’importante risultato del Concordato del 1929. Da questa data si esaurì la presenza pubblica — quella raccolta attorno al periodico fiesolano Fede e ragione — dell’ultima pattuglia di cattolici «conservatori dei princìpi», anti-liberali e anti-socialisti, di fatto costretti a chiudere di fronte alla scelta della Chiesa italiana e della Santa Sede, dove regnava Papa Pio XI (1922-1939), di attuare un compromesso con il regime, che significava rinunciare o comunque mettere in secondo piano il giudizio negativo sulle modalità con cui era stato realizzato il Risorgimento italiano (26). Come i conservatori, anche gli altri cattolici, sia quelli che avevano fiancheggiato il fascismo nella sua ascesa al potere, sia l’«ala destra» del PPI, sia i cosiddetti clerico-fascisti, persero ogni rilevanza pubblica. Anche altri cattolici, di diverso orientamento culturale, come don Sturzo e Alcide de Gasperi (1881-1954), entrambi provenienti dal PPI, vengono emarginati: il primo costretto all’esilio dalle scelte della Santa Sede, il secondo condannato a quattro anni di prigione dal regime e poi protetto dal Vaticano, che gli offre un posto di bibliotecario nella Biblioteca Apostolica nella neonata Città del Vaticano, ma lo costringe al silenzio fino alla caduta del regime.
In sostanza, come è stato opportunamente notato, il fascismo non soltanto ebbe a nuocere alle ideologie che perseguitò apertamente, ma soprattutto danneggiò quella che potremmo definire una presenza pubblica culturale e politica dei cattolici attorno alla dottrina sociale della Chiesa e ogni presenza di conservatorismo organizzato nel nostro Paese (27).
Questo quadro cambiò radicalmente con la fine della guerra, nel 1945. Durante gli anni della guerra civile svoltasi nell’Italia centro-settentrionale (1943-1945), come spiega De Felice, fra il «rosso» e il «nero» in lotta fra loro esistette una larga maggioranza di uomini e di donne che lo storico reatino denomina «zona grigia», cioè neutrale e attendista, che non partecipò alla guerra civile, se non indirettamente, e così salvò il Paese, gettando le basi della sua rinascita (28). Dopo lo sfacelo dell’8 settembre 1943, che per alcuni segnò la «morte della patria» (29), entro questa «zona grigia» assunsero un ruolo direttivo, da un punto di vista morale e non solo, i tanti vescovi e parroci distribuiti su tutto il territorio nazionale. Toccherà a loro rimarginare le ferite provocate dall’odio fra le due minoranze in lotta, la fascista e l’anti-fascista, proteggere i ricercati di entrambi i fronti e, prima e più dei partiti nel frattempo ricostituitisi, indicare al popolo italiano la via della rinascita e i valori di riferimento. La principale opposizione organizzata al fascismo che operò in parallelo contro questa prospettiva fu il Partito Comunista, i cui dirigenti tornarono dall’esilio o uscirono dalla prigionia dopo il 25 luglio 1943, ritrovando le cellule comuniste rimaste sempre operative nella clandestinità, uomini e donne che si erano persino ritagliati spazi autonomi dentro le organizzazioni culturali fasciste (30).
Così, dopo la guerra, l’Italia si divise in due mondi contrapposti: da un lato, il mondo cattolico, guidato dal venerabile Papa Pio XI e dai vescovi italiani, con la Democrazia Cristiana (DC), il partito post-popolare, che raggruppava le varie anime storiche del movimento cattolico, come principale espressione politica; e dall’altro lato il Fronte Popolare, espressione dell’accordo fra il Partito Socialista Italiano (PSI), il Partito Comunista Italiano (PCI) e le sinistre repubblicane radicali, come il Partito d’Azione (PdA).
La prima occasione di conflitto fra le due Italie è il referendum istituzionale del 1946. Gran parte dell’Italia era stata lacerata dalla guerra civile, a cui era seguita la riorganizzazione dei partiti politici, ma la grande maggioranza della popolazione aveva ben altro a cui pensare, dovendo ricostruire un Paese distrutto e confuso.
Tuttavia, due anni dopo, il 18 aprile 1948, in occasione delle elezioni generali, la scelta politica di «tutti» i conservatori appare con maggiore evidenza (31). Iniziata la Guerra Fredda (1947-1991), su esplicita sollecitazione dell’amministrazione degli Stati Uniti d’America (USA), come condizione perché arrivassero in Italia gli aiuti economici indispensabili per far uscire il Paese dalla crisi, l’alleanza governativa fra tutte le forze politiche antifasciste si era interrotta. Il 18 aprile la DC si presenta da sola contro il Fronte Popolare delle sinistre, ma riceve il supporto esplicito e senza riserve di tutto il mondo cattolico organizzato, quindi anche dei non democristiani, a cominciare dallo stesso Papa Pio XII. Tuttavia, la DC non era ancora il partito onnipotente sviluppatosi dopo il 1954, ma raggruppava notabili provenienti dal vecchio PPI, uomini dell’Azione Cattolica e dell’Università Cattolica e della Federazione Universitaria dei Cattolici Italiani (FUCI), da dove provenivano i cosiddetti «professorini», che avrebbero animato la sinistra del partito: Giuseppe Dossetti (1913-1996), Amintore Fanfani (1909-1999), il servo di Dio Giuseppe Lazzati (1909-1986), futuro rettore dell’Università Cattolica. Il vicepresidente dell’Azione Cattolica, Luigi Gedda (1902-2000), era anche il fondatore e l’animatore principale dei Comitati Civici, organismi di azione civica e culturale nati in pochi giorni per volontà di Pio XII allo scopo di fungere da raccordo fra il mondo cattolico organizzato e la DC e di supportarne l’azione elettorale e politica, imprimendole un forte anticomunismo. È proprio la mobilitazione dei Comitati Civici, insieme a quella di tutta la Chiesa italiana, a fare arrivare alla DC quasi cinque milioni di voti in più rispetto a quelli ottenuti in occasione delle elezioni per l’Assemblea Costituente, svoltesi nel 1946 insieme al referendum istituzionale (32).
Dopo la clamorosa vittoria elettorale del 18 aprile 1948, e data la nuova situazione internazionale che vedeva il mondo spartito in due blocchi, quello della libertà a guida statunitense e quello comunista, guidato dall’Unione Sovietica, alla Democrazia Cristiana dovranno fare riferimento obbligatoriamente tutti i conservatori, sia quelli che volevano preservare l’Italia dal socialcomunismo e conservare nelle leggi anzitutto i princìpi fondamentali del bene comune, ricostruendo l’Italia attorno alle sue radici occidentali e cristiane, sia quelli più legati a interessi politici ed economici, che ritenevano, indipendentemente dalla fede, che per restare libera l’Italia dovesse essere strettamente legata all’alleanza con gli Stati Uniti.
Per tutto il corso della Prima Repubblica, fino alla caduta del Muro di Berlino nel 1989 e alla fine della DC dopo la tempesta giudiziaria passata sotto il nome di Tangentopoli all’inizio degli anni 1990, i conservatori voteranno in massa per la DC, a esclusione dei monarchici, dei reduci della «parte sbagliata» della guerra civile, dei cattolici eredi fedeli dell’intransigentismo, che, non fidandosi dell’anti-comunismo della DC, preferiranno votare per il Movimento Sociale Italiano (MSI), partito neo-fascista e nazionalista. Diversi cattolici conservatori avrebbero voluto la costituzione di un partito — il cosiddetto «partito romano» (33) — alternativo alla DC, sempre più rivelatasi un «meccanismo» politico che raccoglieva voti conservatori per attuare politiche di sinistra. Il «partito romano» non nacque, soprattutto perché Pio XII temeva che la fine dell’unità politica dei cattolici nella DC avrebbe favorito le sinistre, costringendo il presidente della Repubblica ad affidare la formazione del governo a un partito di maggioranza relativa diverso dalla DC.
Forse la battaglia conservatrice venne persa anzitutto sul piano culturale, dove sarebbe stato più facile dimostrare la necessità di difendere quei princìpi fondamentali del bene comune che la società stava perdendo prima ancora della classe politica. In effetti, nel 1960 — lo stesso anno in cui, con le violenze di piazza scatenate a Genova nel luglio, il PCI riesce a emergere dalla crisi politica in cui il 18 aprile e la sanguinosa repressione sovietica dell’insurrezione anti-comunista ungherese del 1956 lo avevano confinato e a riprendere la marcia di avvicinamento all’area del governo —, i vescovi italiani scrissero un testo profetico, una lettera collettiva sul laicismo, identificato come il nemico che stava penetrando dentro il corpo della società senza che qualcuno facesse alcunché di adeguato per cercare di fermarlo (34).
Per chi votano i conservatori?
Abbiamo visto che esiste un mondo conservatore anche nell’Italia del dopoguerra, un mondo maggioritario composto da tutti coloro che «sfuggono» alle reti ben organizzate del PCI e all’influenza, molto forte sul piano della cultura, del cosiddetto mondo «azionista», composto da quegli intellettuali che avevano costituito il Partito d’Azione alla caduta del fascismo con lo scopo di «modernizzare» l’Italia, combattendo più il «clericalismo» della Chiesa che il marxismo dogmatico del PCI. Il PdA fallisce politicamente perché composto da intellettuali senza una base sociale, ma riesce a influenzare strati importanti del mondo della cultura e della scienza, magistrati, giornalisti (35).
Il mondo conservatore nell’Italia del dopoguerra ha due importanti punti di riferimento, la Chiesa e gli Stati Uniti, e due nemici altrettanto importanti, il partito comunista più forte dell’Occidente e il laicismo. Nonostante l’acuta analisi pubblicata nel 1960 dai vescovi italiani, il laicismo penetra profondamente nel corpo sociale durante il periodo del boom economico e demografico degli anni 1950 e 1960 e questa infiltrazione capillare spiega l’esplosione rivoluzionaria del 1968. In ultima analisi, il mondo conservatore che vota per la DC o per i partiti di centro-destra perde la battaglia culturale perché non fa propria l’analisi dei vescovi, che non diventa un criterio di orientamento dei movimenti cattolici e anticomunisti. Infatti, la rivoluzione esplosa nel 1968 non ottiene alcun risultato politico visibile, nel senso di uno spostamento a sinistra degli equilibri fra i partiti, ma determina una grande trasformazione culturale e di costume che investe la generazione di quei tardi anni 1960 e dei decenni seguenti. Nelle relazioni familiari, affettive, sociali, dopo la «svolta» del 1968 nulla sarà più come prima e il radicale cambiamento antropologico nella società verrà compreso molto tardi sia dalla Chiesa, sia più genericamente dal mondo conservatore.
È singolare come questa importante trasformazione epocale, che avviene in tutto il mondo occidentale, in Italia e negli altri Paesi europei, non comporti una altrettanto significativa trasformazione politica, almeno fino agli eventi-svolta del 1989. In Italia, infatti, i governi di centro-sinistra, inaugurati nel 1963 dall’on. Aldo Moro (1916-1978), leader del partito democristiano, non cambiano in modo significativo l’assetto del potere e gli stessi governi di «solidarietà nazionale», che fra il 1976 e il 1979 vedono l’ingresso del PCI nell’area di governo, si esauriscono dopo soli tre anni.
La grande trasformazione post-sessantottina invece avviene sul piano antropologico, dove sarà profonda e duratura (36).
Un autentico cambiamento politico, un vero e proprio tsunami, si ha in conseguenza della rimozione del Muro di Berlino nel 1989 e, due anni dopo, con la scomparsa dell’Unione Sovietica: un cambiamento prodotto dall’esaurirsi del tentativo del comunismo internazionale di conquistare il mondo attraverso l’esportazione della rivoluzione marxista-leninista, a cui le forze comuniste saranno costrette dagli eventi, che certificavano il fallimento del «socialismo reale». Per cercare di sopravvivere il Partito comunista sovietico deve trasformarsi in qualcos’altro: lo stesso deve fare quasi simultaneamente il PCI per iniziativa del suo segretario, Achille Occhetto (37). Venute meno l’URSS e la Terza Internazionale comunista, e trasformatosi il PCI nel Partito Democratico della Sinistra, viene meno anche la necessità della «grande diga» anti-comunista, cioè della DC, che infatti viene investita e distrutta, unitamente a tutta la classe politica dei partiti di governo della Prima Repubblica, esclusi comunisti e missini, dalle inchieste giudiziarie «di Tangentopoli» all’inizio degli anni 1990. I conservatori possono così tornare «liberi» dall’ipoteca democristiana.
I conservatori dopo il 1989
Dopo l’esplosione del Sessantotto in Italia vi fu il tentativo di portare a termine quella rivoluzione violenta che per ordine di Palmiro Togliatti (1893-1964) era stata «stoppata» nel 1945, quando il partito aveva scelto la via legalitaria e i partigiani comunisti avevano rinunciato alla prova di forza rivoluzionaria, che li avrebbe costretti a scontrarsi con le forze armate alleate che occupavano il Paese. Ma non tutte le armi vennero riconsegnate. Lo sbocco del Sessantotto in una riedizione della guerra rivoluzionaria vide protagoniste le Brigate Rosse — che attinsero alle risorse «accantonate» dalla frazione rivoluzionaria comunista nel 1945-1948 — e altre formazioni terroristiche che coprirono l’Italia di lutti, sfortunatamente imitate da gruppi di «fede» anti-sistema opposta. La «coda» terroristica del Sessantotto durò in Italia più a lungo che altrove, spegnendosi soltanto a partire dagli anni 1980, grazie soprattutto alla volontà del PCI — quando cominciarono a cadere sotto il piombo non solo magistrati e politici ma anche «compagni» sindacalisti — di denunciare esplicitamente le connivenze con gli ambienti terroristici createsi nel mondo della sinistra.
Il Sessantotto e la Maggioranza Silenziosa
Come spiega Enzo Peserico, l’ondata sessantottina e il primo terrorismo fallirono ma favorirono la reazione di diversi ambienti di destra, molti dei quali esplicitamente conservatori, che si riunirono all’inizio degli anni 1970 a Milano nella cosiddetta Maggioranza Silenziosa, una denominazione — originaria degli Stati Uniti — che raccoglieva uomini di partito e organismi politici diversi, e intendeva denunciare il clima di sopraffazione e di violenza imposto dalle sinistre extra-parlamentari nelle università, nelle scuole e nelle fabbriche delle grandi città, in particolare Milano (38). La Maggioranza Silenziosa durò pochi anni perché rimase vittima delle provocazioni e della cieca violenza dell’epoca, ma fu importante perché anticipò la reazione conservatrice manifestatasi nel 1972 con la trasformazione del MSI da partito prettamente nostalgico in partito di destra asseritamente conservatrice, come prova l’aggiunta della dicitura «Destra Nazionale» (MSI-DN) al nome Movimento Sociale Italiano dopo l’ingresso nel partito dei monarchici Alfredo Covelli (1914-1998) e Achille Lauro (1887-1982) con i rispettivi partiti, il Partito Nazionale Monarchico e il Partito Democratico Italiano di Unità Monarchica. La trasformazione del MSI continuò con la promozione nel 1975 di una Costituente di Destra per la Libertà, che vide l’ingresso nell’area post-missina di esponenti dell’anti-fascismo, di uomini politici provenienti dalla DC e di militari di rango, come l’ammiraglio Gino Birindelli (1911-2008). Il partito guidato da Giorgio Almirante (1914-1988) nelle elezioni del 1972 aveva superato il 9% dei voti al Senato, favorendo così la costituzione di un governo di centro guidato dal democristiano Giulio Andreotti (1919-2013), senza i socialisti, che peraltro durò poco più di un anno, dal giugno 1972 al mese di luglio del 1973.
Anche questa novità politica, premiata dagli elettori, venne ridimensionata dall’inaudito clima di violenza anti-fascista di quegli anni, ispirata dal PCI e dal comunismo extra-parlamentare, che, con l’acquiescenza della DC, emarginò il partito della destra nazionale, rigettandolo, nonostante i milioni di voti raccolti, al di fuori del cosiddetto «arco costituzionale», un rinnovato patto del CLN, il Comitato di Liberazione Nazionale, costituito da tutti i partiti, tranne il MSI, dai liberali all’estrema sinistra. Tuttavia, il successo di quelle elezioni fece comprendere che la strada della costituzione di un polo a destra della DC, su posizioni politiche conservatrici, era la risposta a un’esigenza avvertita da milioni di elettori.
1994: un Polo conservatore che si definisce moderato. Quale cultura per i moderati?
Dopo il 1989 e dopo «Tangentopoli», la discesa in campo di Silvio Berlusconi, un imprenditore noto soprattutto per la sua battaglia a favore delle televisioni libere degli anni 1980, porta, in occasione delle elezioni politiche del 1994, alla costituzione di una coalizione di centro-destra composta da Forza Italia, il partito fondato ad hoc da Berlusconi, dalla Lega Nord e dal MSI-DN (che si stava trasformando in Alleanza Nazionale), cui si aggiunge un partito nato nel 1994 dall’implosione della DC, il Centro Cristiano Democratico, guidato da Pier Ferdinando Casini. La coalizione di centro-destra vinse inaspettatamente le elezioni, sconfiggendo la «gioiosa macchina da guerra» guidata da Achille Occhetto, il segretario del Partito Democratico della Sinistra nato dalle ceneri del PCI, persuaso che, avendo «Tangentopoli» risparmiato il PCI stesso, la vittoria fosse a portata di mano.
Anche se il governo Berlusconi dura soltanto 251 giorni, dal maggio del 1994 al gennaio dell’anno successivo, perché sabotato dalla defezione della Lega Nord, questa straordinaria vittoria elettorale segna l’avvio di una nuova stagione politica, il cosiddetto «berlusconismo» (39), che si conclude alla fine del 2011 con la caduta del quarto governo guidato dall’imprenditore milanese. Per la prima volta dopo la promulgazione della Costituzione della Repubblica nel 1948, tutti i partiti, compresi quelli di destra e quelli eredi del partito comunista auto-discioltosi, sono ormai legittimati a governare. Nella nuova stagione della politica — che alcuni chiameranno Seconda Repubblica, anche se la Costituzione rimarrà intatta —, segnata dalla parabola di Berlusconi — non ancora terminata —, i partiti di centro-destra arrivano a essere i più votati dagli italiani: la Lega in occasione delle elezioni europee del 2019, e Fratelli d’Italia, il partito erede del MSI-DN, guidato da Giorgia Meloni, alle elezioni politiche del 25 settembre 2022, sì che la stessa Meloni poco dopo ha assunto la guida del governo.
In questi trent’anni i conservatori troveranno senza indugi una coalizione alla quale dare il proprio voto, senza incertezze, così come era accaduto con la DC e i partiti di destra durante la Prima Repubblica, ma con una convinzione maggiore, in quanto sarà sempre evidente che la coalizione di centro-destra, nonostante fragilità e incertezze, rimarrà alternativa a quelle di centro-sinistra, complice anche il sistema elettorale parzialmente maggioritario in vigore proprio dal 1994. Ciononostante, neanche le coalizioni di centro-destra si presentano come conservatrici, preferendo l’autodefinizione di «moderati», in particolare nelle esternazioni del suo leader.
Se è vero che il berlusconismo ha rappresentato l’inizio di una politica aperta anche ai partiti di destra, è pur vero che sebbene il centro-destra abbia governato per circa dieci anni, fra il 1994 e il 2011, dando vita a quattro governi guidati dal «Cavaliere», sia riuscito a incidere poco nella vita pubblica del Paese. Come spiega Orsina, Berlusconi ha rappresentato il «Paese reale» contro tutti i tentativi della politica partitica di «fare gli italiani» attraverso interventi «terapeutici» e «ortopedici» dello Stato. Il Cavaliere si è così inconsapevolmente inserito in una tradizione, quella italiana, in cui la società ha sempre cercato di opporsi ai i tentativi dello Stato di stravolgerne l’ethos, le caratteristiche e le abitudini.
Insorgenze anti-napoleoniche; Opera dei Congressi come «Paese reale» contro il «Paese legale» dopo il 1861; «Italia profonda», che non rifiutò il suo consenso al fascismo che riportava l’ordine ma non gli fornì mai un consenso ideologico; italiani che dal 18 aprile 1948 diedero il voto alla DC in chiave anti-comunista, senza apprezzare più di tanto il partito di maggioranza relativa: tutte queste espressioni di conservatorismo popolare vennero riprese, alcune in modo consapevole, altre no, dal centro-destra a guida Berlusconi. Questa esperienza politica ha cambiato profondamente la vita della nazione italiana ma, come accennato, ha realizzato poco o niente dei propri obiettivi iniziali: diminuzione delle tasse, abbattimento della disoccupazione, smantellamento della burocrazia e limitazione dell’invadenza dello Stato nella vita civile. Il berlusconismo ha cambiato il clima politico del Paese, ma non il Paese, come promesso. Le televisioni di proprietà di Berlusconi che, prima della sua discesa in campo, avevano spezzato il monopolio dello Stato sull’informazione televisiva, non hanno prodotto una informazione alternativa dal punto di vista culturale, anzi forse hanno espresso qualche prodotto ancora più lontano dai valori morali della tradizione cristiana. Del resto, Berlusconi non ha mai rinunciato a definirsi difensore dei princìpi cristiani e contemporaneamente anarchico riguardo ai valori, esibendo uno stile di vita imbarazzante, ricco di cadute di stile. Ciononostante, i suoi governi hanno sempre impedito la legalizzazione di quei provvedimenti immorali e anti-cristiani introdotti con poche eccezioni nei Paesi occidentali, come la legge sulle unioni fra persone dello stesso sesso con la possibilità di adozione da parte delle coppie omosessuali, la legge contro l’omofobia che in realtà ledeva la libertà di affermare l’unicità del modello familiare, l’eutanasia. Queste norme verranno proposte e alcune in parte approvate dai governi successivi all’epoca del berlusconismo, quando emergeranno altri protagonisti nella vita politica, come Mario Monti, Matteo Renzi e Beppe Grillo, con al suo fianco Giuseppe Conte, «uomo per tutte le stagioni», in senso opposto a quello in cui lo fu san Tommaso Moro (1478-1535).
2022. Finalmente senza ambiguità. Siamo conservatori, ma che cos’è il conservatorismo italiano?
Giorgia Meloni ha citato Gustave Thibon (1903-2001) (40) — il «filosofo contadino» francese autore di Ritorno al reale e di altri numerosi saggi critici della modernità — alla Conferenza programmatica del suo partito, svoltasi a Milano dal 29 aprile al 1° maggio 2022, dove apparve chiaro a tutti che sarebbe stata la prossima candidata del centro-destra a guidare il Paese non appena si fossero svolte le elezioni politiche. Citare Thibon vuol dire avere letto i suoi libri e quindi sapere che si tratta di un uomo che ha dedicato molte sue riflessioni a denunciare le ideologie progressiste del secolo XX, auspicando un «ritorno alla realtà», a quel realismo cristiano che si oppone alle ideologie del divenire fine a sé stesso e impregnate di relativismo: anche al fascismo, che viene ancora imputato strumentalmente alla stessa Meloni. Il conservatorismo di Giorgia Meloni, dunque, pare non essere una parola vuota, un modo per smarcarsi dall’accusa di neo-fascismo o un «atto dovuto», essendo dal 2020 presidente in Europa del Partito dei Conservatori e dei Riformisti, ma rivela una consapevolezza, garantita dal fatto che Thibon è una figura di riferimento delle migliori, sebbene per pochi.
Per molti è stata una sorpresa, una bella sorpresa. Perché citare Roger Scruton può sembrare un atto dovuto — e la Meloni lo cita spesso —, ma citare Thibon no: bisogna conoscerlo e apprezzarlo. E allora l’ipotesi della nascita di un partito finalmente conservatore, in un Paese dove non è mai potuto esistere per le ragioni sopra illustrate, può assumere contorni un po’ più concreti. Insomma, è già coraggioso auto-definirsi conservatori, ma citare Thibon è qualcosa di più e forse significa aver capito veramente che cosa si vuole conservare e che cosa si vuole costruire. Tanto più che la premier italiana lo ha citato di nuovo a Erbyl, nel Kurdistan iracheno, incontrando il 23 dicembre 2022 i soldati italiani in missione in quella terra sfortunata, dove ha ripreso la riflessione sulla libertà del filosofo francese dicendo: «l’uomo non è libero nella misura in cui non dipende da niente e da nessuno, ma è libero nella misura in cui dipende da ciò che ama ed è schiavo nella misura in cui dipende da ciò che non può amare» (41).
Che fare, dunque, oggi? Innanzitutto mettere in circolazione elementi di conservatorismo, non solo intellettuali ma anche quei modi di porsi di fronte alla realtà di cui Thibon è un bell’esempio. Essere conservatori non significa sposare una nuova ideologia, ma avere un atteggiamento di rispetto, di amore e di conservazione verso il reale, l’ordine creato da Dio. E, nel frattempo, ricordare che non tutti sono conservatori veramente e che elencare i conservatori mettendo uno accanto all’altro Giuseppe Prezzolini (1882-1982) e Gabriele D’Annunzio (1863-1938), Benedetto Croce (1866-1952) e Giovanni Gentile (1875-1944) significa soltanto fare confusione.
Vi è poco da conservare e molto da riconquistare. Il «conservatore missionario»
Il conservatorismo non è l’ennesima ideologia, che vuole salvare l’uomo dalle sue sconfitte storiche o la nuova veste ideologica di un partito diventato importante e maggioritario nella storia italiana. Proprio Thibon ci aiuta a capire che cosa significhi essere conservatori con il suo «ritorno al reale», cioè al rispetto della creazione. Si tratta di un modo di porsi di fronte al reale con un cuore purificato da ogni volontà di potenza, che accetta e cerca il bene, il vero e il bello, nella realtà delle cose senza pretendere di cambiare la realtà secondo un proprio progetto ideologico.
È un atteggiamento oggi poco diffuso, perché viviamo da tempo in un mondo abitato da uomini e da donne perennemente insoddisfatti, non abituati a ricercare e a contemplare, ma a cercare di plasmare la realtà secondo i propri desideri. Per due secoli, dal 1789 a ieri, hanno cercato di costruire un mondo secondo la propria visione del mondo, riuscendo soltanto a distruggere la relazioni fra i popoli — il nazionalismo —, fra le classi — il marxismo — e poi tra le famiglie stesse e fra le potenze dell’anima all’interno degli stessi individui — la rivoluzione antropologica del Sessantotto e l’ideologia gender. Dalla pretesa ideologica di cambiare il mondo si è così passati alla delusione — costata anche suicidi (42) — e alla rassegnazione dell’uomo malinconico e depresso dell’epoca post-moderna.
Per vincere questa «malinconia», per superare questa fase depressiva della storia dell’Occidente, non basta certo una cultura politica, per quanto giusta e corretta possa essere: ci vuole molto di più, bisogna cambiare la rotta della propria vita, convertirsi e quindi aiutare la conversione di «frammenti di società», creando ambienti «bonificati» che possono essere già delle micro-cristianità. Ambienti non chiusi in sé stessi, dove chi li popola non si limiti a compiacersi di essere cattolico, ma che riconoscano nella fede che hanno scoperto e accolto un dono divino da trasmettere, da comunicare a tutti, a cominciare dai più prossimi per poi arrivare alle periferie del mondo contemporaneo, sia quelle povere e devastate delle grandi megalopoli, sia quelle esistenziali, che possiamo incontrare ovunque vi sia la sofferenza che nasce dalla mancanza di Cristo, l’unico Salvatore. Anche una cultura politica che, come il conservatorismo, rispetta l’umano e non vuole sostituirsi alla società ma aiutarla a crescere, può essere un valido alleato in questa missione di rinascita culturale e sociale.
Marco Invernizzi
Note:
1) Sulle varie accezioni del termine «ideologia» cfr., per esempio, Georges Burdeau (1905-1988), voce Ideologia, in Enciclopedia Treccani del Novecento, 1978; nonché il recente Carlo Galli, Ideologia, il Mulino, Bologna 2022, che dedica alcune righe anche al conservatorismo. Una splendida definizione di ideologia l’ha data don Joseph Ratzinger (1927-2022) nel 1960: «[…] promettere di adempiere all’ufficio della religione — cioè dare un senso alla vita — senza essere una religione» (Joseph Ratzinger, Opera omnia, 16 voll. in 20 tomi, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2016, vol. VII, L’insegnamento del Concilio Vaticano II [1959-1963], a cura di Pierluca Azzaro, t. 1, p. 71).
2) «La riflessione profetica e sapienziale approda alla manifestazione prima e alla sorgente stessa del progetto di Dio sull’umanità intera, quando giunge a formulare il principio della creazione di tutte le cose da parte di Dio. Nel Credo d’Israele, affermare che Dio è Creatore non significa esprimere solo una convinzione teoretica, ma anche cogliere l’orizzonte originario dell’agire gratuito e misericordioso del Signore a favore dell’uomo. Egli, infatti, liberamente dà l’essere e la vita a tutto ciò che esiste. L’uomo e la donna, creati a Sua immagine e somiglianza (cfr. Gn 1,26-27), sono per ciò stesso chiamati ad essere il segno visibile e lo strumento efficace della gratuità divina nel giardino in cui Dio li ha posti come coltivatori e custodi dei beni del creato» (Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, Compendio della dottrina sociale della Chiesa, n. 26).
3) Cfr. «pensiero unico — […] Omologazione, assenza di differenziazione nell’ambito delle concezioni e delle idee politiche, economiche e sociali. — La sostanziale omologazione dell’alta tecnocrazia delle banche, dei ministeri e della burocrazia di Bruxelles» (Vocabolario Treccani on line, nel sito web <https://www.treccani.it/vocabolario/pensiero-unico_%28Neologismi%29> (gli indirizzi internet dell’intero articolo sono stati consultati il 20-2-2023).
4) Cfr., sul punto, Enzo Peserico (1959-2008), Gli anni del desiderio e del piombo. Sessantotto, terrorismo e Rivoluzione, Sugarco, Milano 2008; cfr. anche Eric Voegelin (1901-1985), Il mito del mondo nuovo. Saggi sui movimenti rivoluzionari del nostro tempo, trad. it., 2a ed., introduzione di Mario Marcolla (1929-2003), Rusconi, Milano 1976. Di Voegelin cfr. il recente testo Politica, storia e filosofia. Tre saggi, con saggio introduttivo di Daniele Fazio, a cura di Oscar Sanguinetti, D’Ettoris Editori, Crotone 2017.
5) Sulla Rivoluzione come processo cfr. Plinio Corrêa de Oliveira (1908-1995), Rivoluzione e Contro-Rivoluzione. Edizione del cinquantenario (1959-2009), trad. it., a cura di Giovanni Cantoni (1938-2020), Sugarco, Milano 2009.
6) Cfr. i diversi passaggi rivoluzionari avvenuti in Italia a partire dalla Guerra delle Alpi nel mio L’Italia fra Rivoluzione e Contro-Rivoluzione. 1794-1848, saggio introduttivo a Paolo Martinucci, Per Dio e per la patria. Profili di contro-rivoluzionari italiani fra Settecento e Ottocento, D’Ettoris Editori, Crotone 2018.
7) Cfr. G. Cantoni, L’Insorgenza come categoria storico-politica, in Cristianità, anno XXXIV, n. 337-338, settembre-dicembre 2006, n. 337-338, pp. 15-28; e, in generale, dal punto di vista della storia dell’Insorgenza, Francesco Pappalardo e O. Sanguinetti, Insorgenti e sanfedisti: dalla parte del popolo. Storia e ragioni delle insorgenze antinapoleoniche in Italia, Tekna, Potenza 2000; Giacomo Lumbroso (1897-1944), I moti popolari contro i francesi alla fine del secolo XVIII (1796-1800), n. ed., a cura e con un profilo bio-bibliografico dell’autore di O. Sanguinetti, Minchella, Milano 1997; e O. Sanguinetti (a cura di), Insorgenze antigiacobine in Italia. Saggi per un bicentenario (1796-1799), Istituto per la Storia delle Insorgenze, Milano 2001.
8) Giorgio Candeloro (1909-1988), Storia dell’Italia moderna, 11 voll., Feltrinelli, Milano 1956-1986, vol. II, Dalla Restaurazione alla rivoluzione nazionale 1815-1846, 1978, p. 11.
9) Cfr. Marco Invernizzi e F. Pappalardo, Società segrete, Unità e Risorgimento, in F. Pappalardo e O. Sanguinetti (a cura di), 1861-2011 A centocinquant’anni dall’Unità d’Italia. Quale identità?, Cantagalli, Siena 2011, pp. 127-146.
10) Cfr. Mario Rosa (1932-2022), Il giansenismo nell’Italia del Settecento. Dalla riforma della Chiesa alla democrazia rivoluzionaria, Carocci, Roma 2014; e [monsignor] Pietro Stella [S.D.B., 1930-2007], Il giansenismo in Italia, 3 voll., Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2006.
11) Franco Valsecchi (1903-1991), Il riformismo borbonico in Italia, prefazione di Francesco Perfetti, Bonacci, Roma 1990, pp. 21-22.
12) Cfr. P. Martinucci, Contro «lo spirito di disordine» al servizio della patria. Il conte Clemente Solaro della Margarita, prefazione di Mauro Ronco, D’Ettoris Editori, Crotone 2021; e Idem, Per Dio e per la patria. Profili di contro-rivoluzionari italiani fra Settecento e Ottocento, cit.
13) Cfr. il mio Il beato Contardo Ferrini (1859-1902). Il rigore della ricerca, il coraggio della fede, 2a ed., Alberti, Verbania 2010.
14) Cfr. il mio L’Opera dei Congressi (1874-1904). Con i profili dei principali protagonisti, prefazione di Dario Caroniti, D’Ettoris Editori, Crotone 2022.
15) Cfr. il mio L’Unione Elettorale Cattolica Italiana. Un modello di impegno politico unitario dei cattolici, Edizioni di «Cristianità», Piacenza 1993.
16) Cfr. Gian Enrico Rusconi, L’azzardo del 1915. Come l’Italia decide la sua guerra, il Mulino, Bologna 2009.
17) Cfr. Giuseppe Ignesti, Il tentativo conciliatorista del 1878-1879. Le riunioni romane di Casa Campello, Studium, Roma 1988.
18) Sul punto, cfr., per esempio, Roberto Marchesini, Il paese più straziato. Disturbi psichici dei soldati italiani della prima guerra mondiale, D’Ettoris Editori, Crotone 2011.
19) Cfr. George [Gerhard] L.[achmann] Mosse (1918-1999), La nazionalizzazione delle masse. Simbolismo politico e movimenti di massa in Germania (1815-1933), trad. it., il Mulino, Bologna 2009.
20) Cfr. Benedetto XVI (1914-1922), Lettera «Fino dagli inizi» ai capi dei popoli belligeranti, del 1° agosto 1917.
21) Cit. in Pio Cenci (1876-1955), Il cardinale Raffaele Merry del Val, prefazione del cardinale Eugenio Pacelli (1876-1958; poi venerabile Papa Pio XII, 1939-1958), L.I.C.E. Berruti, Torino 1933, p. 490, cit. in O. Sanguinetti, Pio X. Un pontefice santo alle soglie del «secolo breve», prefazione di Roberto Spataro S.D.B., Sugarco Edizioni, Milano 2014, p. 267.
22) Giovanni Sale S.J., Popolari e destra cattolica al tempo di Benedetto XV. 1919-1922, prefazione di Pietro Scoppola (1926-2007), Jaca Book, Milano 2005, p. 14.
23) Cfr. ibid., pp. 55-60.
24) Cfr. Francesco Olgiati, Il programma del Partito popolare italiano come non è e come dovrebbe essere, Vita e Pensiero, Milano 1919; su padre Gemelli, cfr. il documentato studio di Maria Bocci, Agostino Gemelli rettore e francescano, Morcelliana, Brescia 2003.
25) Cfr. O. Sanguinetti, Novanta anni fa la Conciliazione, in Cristianità, anno XLVII, n. 396, marzo-aprile 2019, pp. 39-62; e Stefano Nitoglia, Luci e ombre del Concordato del 1929, ibid., anno XLIX, n. 409, maggio-giugno 2021, pp. 17-38.
26) Su Fede e ragione e il suo direttore don Paolo de Tőth (1881-1965) cfr. la voce Paolo de Töth (1881-1965), in IDIS. Istituto per la Dottrina e l’Informazione Sociale, Voci per un «Dizionario del Pensiero Forte», a cura di G. Cantoni, presentazione di Gennaro Malgieri, Edizioni di «Cristianità», Piacenza 1997, pp. 239-244.
27) Cfr. O. Sanguinetti, Fascismo e Rivoluzione. Per una lettura conservatrice, invito alla lettura di M. Invernizzi, Edizioni di «Cristianità», Piacenza 2022.
28) Cfr. Renzo De Felice, Rosso e nero, a cura di Pasquale Chessa, Baldini e Castoldi, Roma 1995. De Felice, il maggior studioso italiano del fascismo, ha pubblicato molte opere sul tema, fra cui la monumentale biografia di Mussolini — otto volumi per un totale di settemila pagine — edita da Einaudi, il cui primo volume Mussolini il rivoluzionario è uscito nel 1965 e l’ultimo, Mussolini l’alleato, è stato pubblicato postumo nel 1997.
29) Cfr. Salvatore Satta (1902-1975), De profundis, Adelphi, Milano 1980, p. 16.
30) Cfr., sul punto, Ruggero Zangrandi (1915-1970), Il lungo viaggio attraverso il fascismo. Contributo alla storia di una generazione, 2 voll., Garzanti, Milano 1971, vol. II, cap. 7, La verità sui Littoriali, pp. 101-116.
31) Cfr. 18 aprile 1948: l’«anomalia» italiana, a mia cura, Ares, Milano 2007.
32) Cfr. il mio Luigi Gedda e il movimento cattolico in Italia, prefazione di G. Cantoni, Sugarco, Milano 2012.
33) Cfr. Andrea Riccardi, Il «partito romano». Politica italiana, Chiesa cattolica e Curia romana da Pio XII a Paolo VI, Morcelliana, Brescia 2007; e Giuseppe Brienza, Identità cattolica e anticomunismo nell’Italia del dopoguerra. La figura e l’opera di mons. Roberto Ronca, D’Ettoris Editori, Crotone 2008.
34) Cfr. Il laicismo. Lettera dell’episcopato italiano al clero, del 25-3-1960, in Enchiridion della Conferenza Episcopale Italiana. Decreti, dichiarazioni, documenti pastorali per la Chiesa italiana, 9 voll., EDB. Edizioni Dehoniane Bologna, Bologna 1997-2016, vol. I, 1954-1972, 1985, pp. 76-95. Cfr. anche la presentazione e il commento di F. Pappalardo, L’analisi del laicismo in una lettera pastorale, in P. Martinucci e M. Invernizzi(a cura di), Dal «centrismo» al Sessantotto, Ares, Milano 2007, pp. 341-357.
35) Sulla vicenda del «partito anti-italiano», incarnato in quell’epoca dal PdA, cfr. Massimo Introvigne, Centocinquant’anni dopo: identità cattolica e unità degli italiani, in F. Pappalardo e O. Sanguinetti (a cura di), 1861-2011. A centocinquant’anni dall’Unità d’Italia. Quale identità?. Atti del convegno omonimo, Roma, 12-2-2011, Cantagalli, Siena 2011, pp. 5-33.
36) Sul punto, cfr., specialmente E. Peserico, op. cit., passim.
37) Cfr. il mio Dal Pci al Pds: le tappe e i contenuti di una trasformazione rivoluzionaria, in Cristianità, anno XXII, n. 225-226, gennaio-febbraio 1994, pp. 3-5.
38) Su questa realtà, cfr. Maurizio Blondet e Luciano Buonocore, La Maggioranza Silenziosa, Area, Milano 1987.
39) Cfr. Giovanni Orsina, Il berlusconismo nella storia d’Italia, Marsilio, Venezia 2013. Il libro di Orsina è un’analisi profonda e ragionata del «fenomeno Berlusconi», priva di pregiudizi ideologici, che studia il fenomeno all’interno della storia dell’Italia contemporanea. La sua spiegazione del successo elettorale del 1994 come rivolta conservatrice di una parte importante del popolo in contrapposizione alle élite politico-partitiche è convincente, così come convince la spiegazione del fallimento del berlusconismo, diviso fra l’iniziale contrapposizione allo statalismo e l’abbandono di questa prospettiva durante l’esperienza più significativa di governo, fra il 2001 e il 2006. Per Orsina, infatti, il berlusconismo non ha saputo, in parte potuto e in parte voluto, realizzare quanto aveva promesso, riducendosi così a partito personale e residuale di un’esperienza politica molto più grande e importante.
40) Gustave Thibon è stato tradotto in italiano negli anni immediatamente successivi alla fine della Seconda Guerra Mondiale dalla Morcelliana di Brescia e poi negli anni 1970 dall’editore Volpe di Roma, prima delle ultime pubblicazioni, soprattutto da parte dell’editrice D’Ettoris di Crotone: cfr. G. Thibon, Il tempo perduto, l’eternità ritrovata. Aforismi sapienziali per un ritorno al reale, a cura di Antonella Fasoli, prefazione di Benedetta Scotti, D’Ettoris Editori, Crotone 2018, e Idem, L’invisibile luce. Aforismi sapienziali per una redenzione del tempo, a cura di A. Fasoli, D’Ettoris Editori, Crotone 2022. L’opera forse più significativa di Thibon è Ritorno al reale. Prime e seconde diagnosi in tema di fisiologia sociale, prefazione di Gabriel Marcel (1889-1973), a cura e con considerazioni introduttive di Marco Respinti, Effedieffe, Milano 1998.
41) Visita del Presidente Meloni in Iraq, nel sito web <https://www.governo.it/en/node/21570>.
42) Sul suicidio di molti militanti rivoluzionari, cadute le illusioni del post-Sessantotto, cfr. ancora il saggio di E. Peserico, op. cit., in particolare le pp. 160-161.