Silvia Scaranari, Cristianità n. 419 (2023)
Il Santo Padre ha svolto un viaggio in Congo e in Sud Sudan dal 31 gennaio al 5 febbraio 2023, un viaggio programmato e rimandato per le difficili situazioni e la mancanza di sicurezza dei due Paesi interessati. La visita è stata caratterizzata dall’uso di due registri, uno politico rivolto alle autorità e teso all’invito verso le responsabilità che queste devono assumere su sé stesse, e un altro più pastorale, volto a portare solidarietà, vicinanza, sostegno e, soprattutto, speranza.
La Repubblica Democratica del Congo e il Sud Sudan, due Paesi a maggioranza cristiana — rispettivamente il 50%, con un 48% di animisti, e il 74% con 19,5% di religioni tradizionali —, vivono da decenni una difficile situazione interna di tribalismi e regionalismi a cui ultimamente si è aggiunto un invasivo jihadismo.
1. Il Congo è un «continente nel continente» per la sua estensione, un grande polmone per la sua lussureggiante vegetazione e le sue immense risorse ma anche una realtà vessata da conflitti e migrazioni forzate, da terribili forme di sfruttamento, indegne dell’uomo e del creato, tanto che il Papa ha parlato di un vero e proprio «genocidio dimenticato» (1).
Al suo arrivo ha incontrato il presidente e le autorità al Palais de la Nation di Kinshasa e ha pronunciato il suo primo discorso con tono deciso e incisivo. Usando la metafora del diamante, che abbonda nel sottosuolo congolese, ha sottolineato che questa pietra è un prodotto naturale, come tanti altri beni che devono essere preservati da uno sfruttamento selvaggio.
Il diamante ha bisogno di lavorazione per risplendere, così come il Congo ha bisogno di un grande lavoro a favore del suo popolo, a partire dall’educazione dei giovani. La sua composizione si differenzia di poco da quella della grafite ma l’una splende, l’altra è scura. Così il Congo deve apprezzare le sue diversità e fare scelte sociali adeguate ai propri differenti gruppi interni, perché basta poco per mutare la luce in oscurità. Il diamante ha tante facce da cui sprigiona luce e così questo Paese vive di un ricco pluralismo. Infine, come il diamante è una delle pietre più dure, anche il Congo è forte e deve resistere alle tante ferite che gli sono state inferte — «Giù le mani dalla Repubblica Democratica del Congo» (2), parole pronunciate con fermezza — e che oggi si infligge da solo.
Nell’omelia della Messa del 1° febbraio, celebrata all’aeroporto militare di N’dolo, nei pressi della capitale, il Pontefice ha ripreso la necessità della pace fra etnie e gruppi prendendo spunto dal brano evangelico in cui Cristo, apparendo ai suoi dopo la Resurrezione, dice: «Pace a Voi». La pace è il primo bene, che rende possibile tutto il resto. E il Signore è Colui che ci rialza sempre quando siamo al fondo, che rende possibile ogni cosa.
Sempre il 1° febbraio il dialogo è proseguito nell’incontro con le vittime dell’est del Paese, una delle zone più martoriate e di cui si parla poco. È vergognoso che dall’interno giungano violenze contro i propri figli, intrecciando «[…] dinamiche etniche, territoriali e di gruppo; conflitti che hanno a che fare con la proprietà terriera, con l’assenza o la debolezza delle istituzioni, odi in cui si infiltra la blasfemia della violenza in nome di un falso dio. Ma è, soprattutto, la guerra scatenata da un’insaziabile avidità di materie prime e di denaro, che alimenta un’economia armata, la quale esige instabilità e corruzione. Che scandalo e che ipocrisia: la gente viene violentata e uccisa mentre gli affari che provocano violenze e morte continuano a prosperare!» (3). Il tempo è poco: occorre «disarmare il cuore […] per dire davvero “no” alla violenza» e non lasciarsi «[…] sedurre da persone o gruppi che incitano alla violenza in suo nome. Dio è Dio della pace e non della guerra. Predicare l’odio è una bestemmia».
Occorre anche un grande «sì alla riconciliazione» e un «sì alla speranza» contro ogni tentazione di rassegnazione. Assicurando la vicinanza della Chiesa, il Papa ha sottolineato che «[…] per conquistare i frutti sperati, bisogna lavorare con lo stesso spirito dei piantatori di palme, pensando alle generazioni future e non ai risultati immediati. Seminare il bene fa bene», come hanno fatto alcune vittime, e cita «l’ambasciatore Luca Attanasio [1977-2021], il carabiniere Vittorio Iacovacci [1990-2021] e l’autista Mustapha Milambo, assassinati due anni fa nell’Est del Paese. Erano seminatori di speranza e il loro sacrificio non andrà perduto».
Il 1° febbraio ha incontrato anche i rappresentanti delle molte attività caritative presenti nel Paese. Ricordando la drammatica civiltà dello scarto che qui, come altrove, esclude bambini e anziani, ha invitato a credere in quello che si fa, perché c’è bisogno di «volti che superano l’indifferenza guardando le persone negli occhi, mani che non imbracciano armi e non maneggiano soldi, ma si protendono verso chi sta a terra e lo rialzano alla sua dignità, alla dignità di figlia e figlio di Dio» (4). Nello stesso tempo, idealmente rivolgendosi ai politici, ricorda che non si può delegare ma che anche lo Stato deve fare la sua parte a favore dei suoi figli più bisognosi.
Ringraziamento e incoraggiamento sono stati riservati ai giovani e ai catechisti, incontrati il 2 febbraio allo Stadio dei Martiri a Kinshasa.
La loro presenza è un bene per tutti, perché devono essere portatori di vita e di futuro. Con loro usa la metafora della mano con le sue cinque dita. il pollice è il più vicino al cuore da cui scaturisce la preghiera, che è il primo elemento per una vita buona, perché da soli non si può fare nulla: solo uniti a Cristo si è forti.
L’indice serve a indicare gli altri ed è simbolo della comunità. «Amici, non lasciate che la vostra gioventù sia rovinata dalla solitudine e dalla chiusura» (5). E soprattutto invita a non cadere in false idee individualiste: droga, occultismo, stregoneria, regionalismo, tribalismo, che sembrano dare sicurezza ma indeboliscono la persona privandola della sua libertà.
Il dito centrale ricorda che è indispensabile l’onestà. «Essere cristiani è testimoniare» e il male si vince solo testimoniando il bene; dove crescono azioni di bene diminuiscono quelle del male, perché bene e male sono incompatibili.
«L’anulare è anche il dito più debole, quello che fa più fatica ad alzarsi. Ci ricorda che i grandi traguardi della vita, l’amore anzitutto, passano attraverso fragilità, fatiche e difficoltà». Perdonare il male, che non è giustificare, è faticoso ma è un cammino da percorrere come quello di perseverare nel bene.
In ultimo, il mignolo indica la pochezza del nostro operare. Di fronte a tante necessità potrebbe subentrare lo sconforto ma è proprio «il farsi piccoli che attira Dio. […] Secondo Gesù il servizio è il potere che trasforma il mondo». Ognuno può rendere un grande servizio agli altri, al Paese, alla Chiesa, ma per continuare su questa strada, per evitare di cadere nella corruzione del cuore — sottolinea il Santo Padre, che sembra richiamare sant’Ignazio di Loyola (1491-1556) — occorre avere un ordine interiore, una gerarchia di priorità e attenersi a queste.
Il tema del servizio ricompare nell’incontro con i consacrati, a cui ricorda che devono «[…] essere segni della presenza di Cristo, del suo amore incondizionato, del perdono con cui vuole riconciliarci, della compassione con cui vuole prendersi cura dei poveri. Noi siamo stati chiamati a offrire la vita per i fratelli e le sorelle, portando loro Gesù, l’unico che risana le ferite del cuore» (6).
Per poter lavorare bene occorre evitare tre errori, che ricorrono spesso nei discorsi del Santo Padre, anche in Italia: «la mediocrità spirituale, la comodità mondana, la superficialità». La mediocrità spirituale si combatte con la fedeltà ai momenti di preghiera regolari e con la preghiera del cuore, con «brevi “giaculatorie” — sono un tesoro, le giaculatorie». Il nostro servizio è per coloro che hanno bisogno, non per vivere una vita comoda, e per ben operare è necessario anche avere una buona preparazione. Lo studio, la lettura, il confronto sono strumenti indispensabili per un fruttuoso operare nella vigna del Signore, «la formazione del clero non è un optional».
Ai vescovi riuniti a Kinsasha ha ricordato la storia del profeta Geremia, che ha speso la propria vita al servizio di Dio. «Prima di formarti nel grembo materno, ti ho conosciuto» (7) (Ger 1,5). È una dichiarazione d’amore che «Dio scolpisce nel cuore di ciascuno di noi e nessuno può cancellare». Ma Geremia, una volta ricevuto il conforto, è chiamato a fare il profeta, è «inviato a portare luce nell’oscurità, a testimoniare in un contesto di violenza e corruzione. […] Facciamo però attenzione: non si tratta di un’azione politica. La profezia cristiana si incarna in tante azioni politiche e sociali, ma il compito dei Vescovi e dei Pastori in generale non è questo. È quello dell’annuncio della Parola per risvegliare le coscienze, per denunciare il male, per rincuorare coloro che sono affranti e senza speranza».È un dovere di vicinanza e testimonianza del vescovo verso i sacerdoti e gli operatori pastorali: «[…] testimonianza, perché i Pastori devono essere credibili per primi e in tutto, e in particolare nel coltivare la comunione, nella vita morale e nell’amministrazione dei beni». «[…] il Vangelo chiede di alzare la voce», sottolinea il Pontefice, ricordando il sacrificio del servo di Dio mons. Christophe Munzihirwa Mwene Ngabo (1926-1996), gesuita, vescovo di Bukavu, rapito, torturato e fucilato da militanti del Fronte Patriottico Ruandese.
2. L’incontro con i vescovi ha segnato la fine del viaggio in Congo. Il Papa si è spostato nel Sud Sudan, dove ha incontrato innanzitutto le autorità locali, il 3 febbraio, a Giuba, la capitale, presentandosi per un cammino di riconciliazione e di pace a matrice ecumenica, accompagnato dall’arcivescovo di Canterbury e dal moderatore dell’Assemblea generale della Chiesa di Scozia. «Abbiamo infatti intrapreso questo pellegrinaggio ecumenico di pace dopo aver ascoltato il grido di un intero popolo che, con grande dignità, piange per la violenza che soffre, per la perenne mancanza di sicurezza, per la povertà che lo colpisce e per i disastri naturali che infieriscono» (8) da troppi anni.
In questo Paese il Pontefice usa di nuovo una metafora, quella del grande fiume Nilo, che scorre attraversando il territorio, fertilizzando e irrigando. Anche il giovane Paese sud sudanese ha bisogno di essere dissetato e questo è il compito delle autorità: «Distinte Autorità, siete voi queste sorgenti, le sorgenti che irrigano la convivenza comune, i padri e le madri di questo Paese fanciullo. Voi siete chiamati a rigenerare la vita sociale, come fonti limpide di prosperità e di pace, perché di questo hanno bisogno i figli del Sud Sudan: hanno bisogno di padri, non di padroni; di passi stabili di sviluppo, non di continue cadute».
Il Nilo rende rigoglioso il Paese, ma il suo popolo ha bisogno di poter vivere senza armi. Cristo al Getsemani, di fronte a un suo discepolo che aveva sfoderato la spada, disse: «Basta!» (Lc 22,51), e così il Papa, con tono secco, ha ingiunto «Signor Presidente, Signori Vice-Presidenti, in nome di Dio, del Dio che insieme abbiamo pregato a Roma, del Dio mite e umile di cuore (cfr Mt 11,29) nel quale tanta gente di questo caro Paese crede, è l’ora di dire basta, senza “se” e senza “ma”».
Il 9 luglio 2011 il Paese ha scelto una nuova vita come Repubblica, una res publica, ovvero una cosa di tutti e chi ricopre «responsabilità maggiori, presiedendolo o governandolo, non può che porsi al servizio del bene comune. Ecco lo scopo del potere: servire la comunità». La democrazia presuppone il rispetto dei diritti umani, la giustizia della legge e la sua applicazione perché «[…] senza giustizia non c’è pace (cfr S. Giovanni Paolo II, Messaggio per la celebrazione della XXXV Giornata Mondiale della Pace, 1° gennaio 2002), ma anche che senza libertà non c’è giustizia. Va perciò data a ogni cittadina e cittadino la possibilità di disporre del dono unico e irripetibile dell’esistenza con i mezzi adeguati a realizzarlo: come scriveva Papa Giovanni, “ogni essere umano ha il diritto all’esistenza, all’integrità fisica, ai mezzi indispensabili e sufficienti per un dignitoso tenore di vita” (S. Giovanni XXIII, Lett. enc. Pacem in terris, 6)».
Riprendendo l’esempio del Nilo, il Pontefice ha ricordato che come il fiume può esondare se non si tiene pulito il fondale, così la pace non può prosperare se il Paese non è ripulito da corruzione, clientelarismo, interessi privati, trame nascoste per arricchirsi. Oltre ai fondali occorre costruire argini, evitando l’arrivo di armi che, invece, continuano a giungere nel Sud Sudan: «Altri argini sono imprescindibili per garantire il corso della vita sociale: mi riferisco allo sviluppo di adeguate politiche sanitarie, al bisogno di infrastrutture vitali e, in modo speciale, al ruolo primario dell’alfabetismo e dell’istruzione, unica via perché i figli di questa terra prendano in mano il loro futuro. Essi, come tutti i bambini di questo Continente e del mondo, hanno il diritto di crescere tenendo in mano quaderni e giocattoli, non strumenti di lavoro e armi». Nel ringraziare l’Occidente per il contributo alla nascita di questo giovane Stato, il Papa cita le parole che san Giovanni Paolo II (1978-2005) pronunciò trent’anni fa in Sudan: «Devono essere trovate delle soluzioni africane ai problemi africani».
Il corso del Nilo riporta alle tante lacrime versate dal popolo eletto, ma anche alle vicende di Mosé, ha sottolineato il Papa nell’incontro con i vescovi e i religiosi nella cattedrale di Santa Teresa a Giuba. Le acque del Nilo sono segno di liberazione e di salvezza: da quelle acque, infatti, Mosè è stato salvato e, conducendo i suoi attraverso il Mar Rosso, è diventato strumento di liberazione, icona del soccorso di Dio, che vede l’afflizione dei suoi figli, ascolta il loro grido e scende a liberarli (cfr Es 3,7).
Mosè si è mostrato docile al volere divino: dopo aver provato a far da solo (uccise una guardia egizia), è caduto nella desolazione e nella solitudine ma poi si è tolto i sandali davanti al roveto ardente e ha ascoltato il Signore.
Davanti a Dio Mosè ha chiesto aiuto per il suo popolo e Dio si è mostrato compassionevole: «Dio, per la sua condiscendenza nei nostri riguardi, viene in mezzo a noi fino ad assumere in Gesù la nostra carne, provare la nostra morte e i nostri inferi. Sempre scende per rialzarci e chi fa esperienza di Lui è portato a imitarlo. […] Fratelli e sorelle, intercedere non vuol dire semplicemente “pregare per qualcuno”, come spesso pensiamo. Etimologicamente significa “fare un passo in modo da mettersi nel mezzo di una situazione” […]. Intercedere è quindi scendere per mettersi in mezzo al popolo, “farsi ponti” che lo collegano a Dio» (9).
«La Scrittura — prosegue il Pontefice — ci offre tre immagini al riguardo: Mosè col bastone in mano», quindi la profezia, «Mosè con le mani protese […] che indicano la vicinanza di Dio che è all’opera e accompagna il suo popolo», «Mosè con le mani alzate al cielo», con cui chiede perdono per gli ebrei che hanno costruito il vitello d’oro e intercede presso Dio. «Sostenere con la preghiera davanti a Dio le lotte del popolo, attirare il perdono, amministrare la riconciliazione come canali della misericordia di Dio che rimette i peccati: questo è il nostro compito di intercessori!».
Il 4 febbraio, presso la Freedom Hall di Giuba, ha incontrato anche gli sfollati interni, quasi quattro milioni di sudanesi scappati dalla loro terra: una tragedia immane, che rischia di peggiorare se non si interviene subito. L’intervento in grande stile deve essere affidato alle autorità competenti ma, nel frattempo, va elogiato l’apporto di donne, madri, ragazze che non si sono sedute a guardare ma hanno preso in mano la situazione, creando risorse. Le donne possono essere il seme della nuova vita di questo Paese, se rispettate e valorizzate. Ma tutti devono collaborare, innanzitutto tenendo alta la speranza e poi perdonando il male ricevuto e rispondendo con il bene. I giovani sono cresciuti con la violenza negli occhi ma devono usare perdono e capacità di incontro per superare le barriere delle etnie, degli interessi, dell’odio.
La giornata si è conclusa con la preghiera ecumenica al Mausoleo John Garang, sempre a Giuba, alla presenza delle autorità e dei vescovi, dove il Papa ha evocato tre parole: «Pregare, operare e camminare» (10).
Pregare, perché «non possiamo promuovere la pace senza aver prima invocato Gesù, “Principe della pace” (Is 9,5). Ciò che facciamo per gli altri e condividiamo con gli altri è anzitutto dono gratuito che riceviamo a mani vuote da Lui: è grazia, pura grazia». Mosè davanti alle acque del Mar Rosso ha alzato le mani al cielo e ha pregato. Operare: Cristo chiama tutti a essere operatori di pace perché la «[…] sua Chiesa non sia solo segno e strumento dell’intima unione con Dio, ma anche dell’unità di tutto il genere umano (cfr Lumen gentium, 1). Cristo, infatti, come ricorda l’Apostolo Paolo, “è la nostra pace” precisamente nel senso del ristabilimento dell’unità: Egli è colui che “fa di due una cosa sola, abbattendo i muri di separazione, l’inimicizia” (cfr Ef 2,14)». Pace non solo come tregua fra i conflitti, ma anche come comunione fraterna, che viene dal perdonare, dal riconciliarsi e dall’unire senza inglobare. Camminare: la comunità cristiana in questa terra ha sempre operato per unire non per dividere e deve continuare a farlo.
L’unione e il fermento del popolo ritornano anche nella Messa del 5 febbraio, quando il Santo Padre ha ricordato che tutti i cristiani devono essere «sale della terra» (Mt 5,14) e quindi operare secondo gli insegnamenti di Cristo, che ci ha mostrato le Beatitudini, vera sapienza per rivoluzionare i criteri del mondo e del modo comune di pensare.
Oltre che sale, il cristiano deve essere «[…] la luce del mondo. Una famosa profezia diceva di Israele: “Io ti renderò luce delle nazioni, perché porti la mia salvezza fino all’estremità della terra”» (11). Le profezie sono ormai compiute e il cristiano deve essere portatore della vera luce del mondo che è Cristo. Infatti, «vi auguro di essere sale che si sparge e si scioglie con generosità per insaporire il Sud Sudan con il gusto fraterno del Vangelo; di essere comunità cristiane luminose che, come città poste in alto, gettino una luce di bene su tutti e mostrino che è bello e possibile vivere la gratuità, avere speranza, costruire tutti insieme un futuro riconciliato».
«In Sud Sudan — ha ricordato il Pontefice — vi è una Chiesa coraggiosa, imparentata con quella del Sudan, come ha ricordato l’Arcivescovo, che ha menzionato la figura di santa Giuseppina Bakhita [1869-1947]: una grande donna, che con la grazia di Dio ha trasformato in speranza la sofferenza patita. La speranza, che era nata per lei e l’aveva “redenta”, non poteva tenerla per sé; questa speranza doveva raggiungere molti, raggiungere tutti», ha scritto Benedetto XVI [2005-2013] (Lett. enc. Spe salvi, 3). Speranza è la parola che vorrei lasciare a ciascuno di voi, come un dono da condividere, come un seme che porti frutto. […] Alla speranza vorrei associare un’altra parola, la parola di questi giorni: pace».
Silvia Scaranari
Note:
1) Francesco, Incontro con le Autorità, con la Società Civile e con il Corpo Diplomatico nel giardino del «Palais de la Nation» a Kinshasa, 31-1-2023.
2) Ibidem.
3) Idem, Incontro con le vittime dell’est del paese presso la Nunziatura Apostolica a Kinshasa, 1°-2-2023. In tutto l’articolo le citazioni senza riferimento rimandano al testo precedente.
4) Idem, Incontro con i rappresentanti di alcune opere caritative presso la Nunziatura Apostolica a Kinshasa, 1°-2-2023.
5) Idem, Incontro con i giovani e con i catechisti presso lo «Stadio dei Martiri» a Kinshasa, 2-2-2023.
6) Idem, Incontro di preghiera con i Sacerdoti, i Diaconi, i Consacrati, le Consacrate e i Seminaristi presso la Cattedrale «Notre Dame du Congo» a Kinshasa, 2-2-2023.
7) Idem, Incontro con i Vescovi presso la sede della CENCO a Kinshasa, 3-2-2023.
8) Idem, Incontro con le Autorità, con la Società Civile e con il Corpo Diplomatico nel giardino del Palazzo Presidenziale a Giuba, 3-2-2023.
9) Idem, Incontro con i Vescovi, i Sacerdoti, i Diaconi, i Consacrati, le Consacrate e i Seminaristi presso la Cattedrale di Santa Teresa a Giuba, 4-2-2023.
10) Idem, Preghiera Ecumenica presso il Mausoleo «John Garang» a Giuba, 4-2-2023.
11) Idem, Santa Messa presso il Mausoleo «John Garang» a Giuba, 5-2-2023.