Da Interris.it del 02/02/2019. Foto da articolo
Un raggio di sole sorge ad Est. E squarcia le tenebre in cui è stata avvolta per quasi dieci anni Asia Bibi. La Corte Suprema del Pakistan ha rigettato la richiesta dei fondamentalisti islamici di riapertura del processo che ha scagionato, nell’ottobre scorso, la donna cristiana dall’accusa di blasfemia. Su di lei pendeva una condanna a morte emessa nel 2010, un anno dopo l’arresto. Ora la donna, che vive in una località segreta del Pakistan sotto stretta protezione, aspetta di poter espatriare e ricongiungersi con i propri familiari. La tensione emotiva sul suo destino resta però alta, come alta deve essere l’attenzione nei confronti di altri cristiani perseguitati. Lo spiega in un’intervista ad In Terris Alfredo Mantovano, presidente di Aiuto alla Chiesa che Soffre Italia, la fondazione di diritto pontificio che ha seguito il caso Asia Bibi fin dall’inizio.
Con questo esito che messaggio ha dato il Pakistan, Paese segnato in modo eloquente in rosso nel vostro Rapporto annuale sulla libertà religiosa?
“Ci sono un paio di segnali particolarmente positivi. In primo luogo, i
giudici che hanno prosciolto Asia da qualsiasi accusa, la cui sentenza è
stata confermata ieri dalla Corte Suprema, hanno dato prova di
indipendenza e di coraggio. Si tratta di una sentenza molto ben scritta
che, proprio fondandosi sulla sharia, ha ritenuto che Asia non
avesse commesso nessuna violazione del diritto islamico: in
prospettiva è molto incoraggiante. Affianco a questo, c’è la scelta
pubblica di tanti fedeli dell’Islam, penso ai 500 imam pachistani che
pochi giorni fa hanno sottoscritto la Dichiarazione di Islamabad
contro il fondamentalismo islamico prendendo così le distanze da chi
era sceso in piazza per ribaltare la sentenza su Asia attraverso le
violenze. Parliamo dunque di due segnali, uno proveniente dalle
Istituzioni e uno da un’area non marginale del mondo islamico, che fino a
qualche mese fa erano tutt’altro che scontati. Restano tuttavia dei
coni d’ombra”.
Ad esempio?
“La legge sulla
blasfemia è ancora in vigore e viola la libertà religiosa, perché
scambia per un’offesa ai dettami dell’Islam qualsiasi forma di
religiosità alternativa. Ed è molto pericolosa, soprattutto nelle sue
applicazioni più estese e distorte: spesso, l’evocazione della legge
sulla blasfemia è diventata lo strumento per risolvere liti e odi
all’interno di villaggi e tribù. È una questione che non è scomparsa con
la definizione della vicenda di Asia Bibi, tanto è vero che sono
tantissimi i pachistani in carcere (187 secondo quanto riportato da
Aiuto alla Chiesa che Soffre, ndr), che affrontano processi o condanna già emesse, in alcuni casi di esecuzione capitale”.
Lei
ha parlato di coraggio da parte dei giudici che hanno emesso la
sentenza di assoluzione: cosa rischia in Pakistan un islamico che
difende un cristiano ingiustamente accusato di blasfemia?
“La risposta è nei fatti accaduti negli ultimi anni. Un ministro del
Governo federale islamico, Shahbaz Bhatti, è stato ucciso nel 2011
proprio per aver preso le difese di Asia Bibi. La stessa tragica sorte è
toccata a dei giudici che si erano espressi in favore di questa donna
cristiana. In presenza di un radicalismo così accentuato, si rischia
anche la vita pur avendo posizioni istituzionali significative. Il che
testimonia ancora di più il coraggio di chi si espone pubblicamente”.
Deve
preoccupare ora la reazione dei gruppi fondamentalisti, quegli stessi
che ad ottobre erano scesi in piazza e che hanno presentato il ricorso
alla Corte Suprema?
“Non c’è da immaginare nulla di diverso
rispetto a quanto è già accaduto. Ciò si traduce anche in una
preoccupazione per l’incolumità di Asia Bibi e dei suoi familiari; il
fatto che sia stata assolta non significa che siano cessati i pericoli
per lei. È finita la persecuzione pubblica a cui è stata sottoposta
negli ultimi dieci anni, ma non è finito il rischio per la sua vita
e quella dei suoi familiari”.
Quale ruolo hanno svolto la
comunità internazionale e organizzazioni come la vostra in questa
vicenda e quanto possono aiutare ancora Asia Bibi?
“L’impegno è stato grande ed è necessario che prosegua. Che il processo
ad Asia Bibi abbia avuto un epilogo positivo è dipeso anche dal fatto
che sulla stampa occidentale di lei si è parlato e che ne è seguita una
mobilitazione: ricordo l’udienza
a febbraio che il Papa ha concesso al marito e alla figlia e a cui noi
di Acs abbiamo assistito e ricordo, nello stesso periodo, l’iniziativa
del Colosseo illuminato di rosso
in memoria dei cristiani perseguitati. Si farebbe però un errore se ora
si pensasse chiusa la vicenda della libertà religiosa in Pakistan,
piuttosto bisogna considerare questa sentenza un punto d’avvio per
manifestare in modo ancora più evidente in favore della libertà
religiosa”.
Qual è la situazione dei cristiani nel mondo? Può darci qualche numero sulla persecuzione?
“Le cifre sono spaventose, moltitudini di persone soffrono a causa della loro fede per via di persecuzioni dirette e indirette. Dal nostro Rapporto emerge che un cristiano su sette vive in un Paese di persecuzione: parliamo di circa 300milioni di persone. I Paesi in cui la situazione è più feroce sono Corea del Nord, Eritrea, Arabia Saudita, Cina, Birmania, Afghanistan. Poi ci sono ventuno Paesi dove non avviene una persecuzione diretta, ma in cui non c’è una parità di trattamento rispetto ai fedeli di altre confessioni. Non mancano segnali positivi: si verifica una regressione di attacchi in Paesi come la Tanzania e il Kenya, grazie alla lotta al terrorismo. Di contro, il segnale più negativo giunge dall’India, dove è presente un mix tra religione indù e impulsi nazionalistici che colpisce non soltanto i cristiani, ma soprattutto i musulmani”.
Federico Cenci