Chi non conosce la storia del fisco in Italia, sbaglia politica e riforma fiscale
di Ferdinando Leotta
Il principio, valido per tutti gli uomini di Stato, che «chi sbaglia storia, sbaglia politica» dovrebbe valere anche per quanti si interessano di finanza pubblica, a cominciare dai ministri delle Finanze, per i quali vale un analogo principio: «Chi trascura la storia del Fisco, sbaglia la politica fiscale».
Non è necessario partire dal 1864, anno in cui fu introdotta l’Imposta sulla Ricchezza Mobile; tuttavia non è inutile ricordare che i diversi governi, sia della Destra che della Sinistra storica, cercarono di realizzare il prelievo fiscale attraverso successivi provvedimenti, con lo scopo, teorizzato principalmente da Marco Minghetti nel 1875, del “pareggio di bilancio”.
Egualmente si può ricordare, in questi tempi caratterizzati dall’inverno demografico e dall’esigenza di sostenere la natalità e le famiglie, che sotto il fascismo, mentre si introducevano l’imposta complementare progressiva sul reddito e una tassa erariale sugli scambi commerciali, nel 1927 si emanarono norme fiscali per incentivare la natalità, in un Paese che aveva dato un notevole contributo di uomini caduti durante la Grande Guerra. Da qui presero spunto la “tassa sul celibato”, introdotta per incrementare il numero dei matrimoni e conseguentemente delle nascite, che colpiva i celibi tra i 25 e i 65 anni, e il sistema di agevolazioni fiscali, contornate da premi, in favore delle famiglie numerose.
Nel 1940 venne introdotta l’IGE. (imposta generale sulle entrate), che sostituì la tassa sugli scambi commerciali, estendendosi anche alle prestazioni di servizi. Trent’anni dopo sarebbe stata sostituita dall’IVA. Ma è la Carta Costituzionale, entrata in vigore il 1° gennaio 1948, che costituisce una vera pietra miliare per la fiscalità italiana sancendo quei principi che regolano il rapporto tributario dei cittadini in funzione del buon andamento delle entrate della Nazione, in particolare con gli articoli 2, 3, 53, 97.
In questa cornice si inserì nel 1951 la “Riforma Vanoni”, che rappresentò, per unanime opinione dei cultori della materia, una prima revisione sistematica dell’ordinamento tributario. Se osserviamo la storia del fisco italiano, possiamo dire che si tratta di una storia di settant’anni di riforme, come ha osservato il prof. Tommaso Di Tanno, docente di Diritto Tributario Internazionale all’Università Europea di Roma. Fu con la Riforma Vanoni che si diede il via all’obbligo di dichiarazione annuale dei redditi (già esistente, ma sempre disatteso) estendendolo a tutti i contribuenti, alla riduzione delle aliquote, nonché all’introduzione di nuove imposte in ambito societario e finanziario.
Si arrivò così alla grande riforma fiscale recata dalla Legge Delega del 1971, varata negli anni 1972 e 1973, con cui vennero disciplinate con vari Decreti Presidenziali l’IVA, l’IRPEF, l’IRPEG, l’ILOR, l’INVIM e altro.
L’IRPEF (imposta sul reddito delle persone fisiche), istituita con il DPR. n. 597/1973, è un’imposta personale, progressiva, applicata a residenti e non residenti secondo il criterio della tassazione del reddito mondiale.
L’imposta viene determinata in base ad aliquote progressive che agiscono per scaglioni di reddito: il reddito complessivo viene frazionato e assoggettato alle aliquote corrispondenti agli scaglioni in cui lo stesso reddito rientra.
Al momento della nascita l’imposta aveva 32 aliquote (dal 10 al 72%) e agiva per scaglioni di reddito dai 2 fino ai 500 milioni di lire.
La riforma fiscale del 1973 si basava su alcuni punti fondamentali: la dichiarazione annuale, la tassazione del reddito effettivo in base alle scritture contabili, la impugnabilità degli atti di accertamento davanti alle Commissioni Tributarie. Tuttavia la gestione dei tributi trovò fin da subito ostacoli alla sua attuazione a causa della persistente evasione fiscale, dell’eccessività delle aliquote e dell’insufficienza del gettito a fronteggiare una spesa pubblica sempre crescente. Per queste ragioni la storia del fisco italiano va di pari passo con la storia dei condoni fiscali, che trovarono un momento particolarmente significativo nel DL del 1982, che, mentre consentiva di chiudere in modo “clemente” le pendenze fiscali pregresse, introduceva le cosiddette “manette agli evasori” con nuove norme di diritto penale tributario.
In parziale deroga al principio di tassazione in base alle scritture contabili, vennero nel 1984 introdotti regimi forfettari e fu ampliato l’utilizzo del cosiddetto “redditometro”, con scarsa attenzione alla motivazione degli atti di accertamento, per arrivare infine a un’altra sanatoria nel 1989.
Negli anni Novanta sembrò realizzarsi un cambiamento culturale importante, avviato dalla legge n. 241/1990 sul procedimento amministrativo, sull’obbligo di motivazione degli atti amministrativi, sul responsabile del procedimento, seppur con limitazioni per l’ambito tributario. Nel 1992 venne riformato il processo tributario, nel 1997 furono emanate le leggi di riforma delle sanzioni amministrative tributarie e nello stesso anno fu regolamentato l’annullamento in autotutela di atti amministrativi fiscali senza necessità di ricorso al giudice tributario.
In quegli anni l’amministrazione finanziaria, prima dell’attivazione delle agenzie fiscali, fece un grande sforzo di rinnovamento culturale del proprio personale, con corsi di formazione sulla trasparenza, sui rapporti con i contribuenti, sugli uffici per le relazioni con il pubblico, che però l’ Agenzia delle Entrate, nata il 1° gennaio 2001, ritenne, forse per un soprassalto di timore fiscale, di non aprire. Con l’emanazione, nel 2000, dello Statuto del Contribuente, si era prevista la figura del Garante del Contribuente, che avrebbe dovuto garantire sotto il profilo comportamentale il corretto rapporto fisco-cittadino. Nel contempo veniva sempre più ampliato il ricorso ai coefficienti presuntivi di reddito e agli studi di settore.
Il cammino intrapreso, con luci e ombre, fu gradualmente abbandonato nel corso degli anni 2000. Le iniziative di assistenza ai contribuenti vennero ridotte; il rapporto di fiducia tra fisco e contribuente fu radicalmente compromesso dall’introduzione degli obiettivi monetari, il cui raggiungimento condizionava gli incentivi riconosciuti agli uffici e, di fatto, la carriera degli stessi funzionari con incarico di funzioni dirigenziali. L’azione di contrasto alla corruzione si concretizzò soprattutto con la diffusione di un clima di sospetto, con effetti deprimenti sul personale onesto, senza particolari effetti di deterrenza sui pochi disonesti.
La storia del fisco italiano, qui solo accennata, va approfondita e tenuta presente, affinché la riforma fiscale in itinere consegua i risultati di semplificazione e di equità promessi. In particolare un efficace contrasto all’evasione comporta che vengano affrontati due aspetti. Uno di ordine culturale e morale, rappresentato dalla graduale ricostruzione di un rapporto di fiducia e di reciproco rispetto tra contribuente e amministrazione finanziaria, tra cittadino e stato, con il conseguente superamento del clima di sospetto che si percepisce quando si varca l’ingresso di un ufficio fiscale.
Il secondo aspetto riguarda il problema dell’eccessività del prelievo e della tassazione del reddito effettivo. Questo problema era già stato considerato dal prof. Cesare Cosciani (1908-1995), esperto di Scienza delle Finanze, che nel 1964, relazionando sullo stato dei lavori della Commissione per lo Studio della Riforma Tributaria, di cui era vice-presidente, evidenziava che:
– da un lato la progressività genera, inevitabilmente, una ridistribuzione dei redditi dalle classi più elevate a quelle meno elevate,
– d’altro lato la Costituzione della Repubblica Italiana, affermando l’esigenza della progressività, dice “molto e poco” nello stesso tempo, essendo la progressività fatta salva sia che il tasso aumenti con la materia imponibile in misura strettamente moderata, sia che il tasso arrivi a un livello estremamente elevato, purché non si traduca in una confisca o in aliquote massime praticamente confiscatorie.
Occorre, pertanto, che la riforma elimini le norme che concretizzano una fiscalità non correttamente progressiva, ma di fatto confiscatoria, come nel caso della tassazione del redditi dei fabbricati, in particolare dei fabbricati commerciali. Infatti spesso, per pagare le imposte su un reddito legalmente presunto, occorre alienare parti di patrimonio familiare. Le imposte sul reddito fondiario, nel caso dei fabbricati commerciali detenuti da soggetti non commerciali, si pagano sul 95% del canone locativo lordo pattuito, anche se non percepito, senza possibilità, oggi, di dedurre l’IMU (mentre fino al 1992 si deduceva l’ILOR), le spese condominiali, le spese di manutenzione e di riparazione. Tale imposizione è palesemente incostituzionale perché viola la capacità contributiva. Questo è solo uno dei tanti esempi che si potrebbero fare.
La prima misura di contrasto all’evasione consiste, dunque, nel ritorno al reddito effettivo e nel rifiuto di tassare, con leggi fiscali ingiuste e fuori dalla realtà, redditi presunti e inesistenti. Tanti esempi si possono trarre dall’economia delle famiglie, delle piccole imprese e dei lavoratori autonomi.
In particolare, con riferimento alle politiche familiari, sarebbe sufficiente consentire la deducibilità effettiva di costi per familiari a carico, parenti disabili, assunzione di badanti, in modo da dare un segnale di speranza e di fiducia alle famiglie secondo un principio di sana sussidiarietà fiscale. Senza dimenticare che un equilibrato contrasto di interessi è il miglior rimedio all’evasione fiscale.
Mercoledì, 13 settembre 2023