Di Marco Bardazzi da Il Foglio del 24/09/2023
Il guaio con cui deve fare i conti in questi giorni Donald Trump non sono i suoi processi ma il tema dell’aborto, su cui non sa cosa dire. Il guaio con cui si confronta Joe Biden non è la guerra in Ucraina ma i sindacati del settore automotive di Detroit, con cui non trova più sintonia. Nei giorni in cui l’attenzione globale è concentrata su New York e l’assemblea generale dell’Onu, le preoccupazioni vere dei due probabili sfidanti dell’anno prossimo sono dedicate alle questioni domestiche. Il presidente pronuncia nel Palazzo di vetro discorsi importanti sul climate change e spinge la propria agenda di investimenti per la decarbonizzazione. Ma deve fare i conti con i repubblicani che a Capitol Hill minacciano di nuovo di bloccare la macchina delle leggi di spesa federali, se non si introducono tutele al settore dell’energia tradizionale e alle produzioni manufatturiere che devono affrontare il peso della transizione energetica. A Detroit sembrano sulla stessa lunghezza d’onda i lavoratori di General Motors, Ford e Stellantis che hanno avviato giorni fa uno storico sciopero della categoria, guidato dal sindacato United Auto Workers (Uaw). Biden da decenni si presenta come politico “amico dei sindacati”, ma stavolta il presidente non è ancora riuscito a trovare le parole giuste per convincere il leader sindacale Shawn Fain a bloccare lo sciopero. Al centro delle rivendicazioni dei lavoratori ci sono richieste di adeguamento economico dei contratti, ma anche molti interrogativi sulla svolta che l’amministrazione Biden sta imponendo al settore per puntare sull’auto elettrica. Mentre alla Casa Bianca i consiglieri di Biden valutano quando sia il momento migliore per mandare il presidente a Detroit a parlare con i lavoratori, Trump li ha già bruciati sul tempo annunciando che sarà in Michigan in mezzo agli operai della Uaw il 27 settembre, nelle ore in cui avrebbe dovuto partecipare in California al secondo dibattito tra i candidati alla nomination. Un colpo di teatro ben studiato, che gli dà la possibilità di evitare ancora una volta di confrontarsi con Ron DeSantis, Mike Pence, Nikki Haley e gli altri sfidanti e trasmettere un’immagine “presidenziale”. Il messaggio che vuol far arrivare agli elettori è che ormai il dibattito è solo una sfida per chi arriva secondo.Per Trump però è soprattutto un modo per andare all’attacco di Biden e tenersi lontano da domande scomode sull’aborto. Perché la questione della legislazione sull’interruzione di gravidanza è tornata a essere il suo punto debole. Come su ogni tema “culturale”, Trump non ha e non ha mai avuto idee precise, né posizioni ideologiche. Le tratta come questioni su cui pensa di poter trovare soluzioni con le proprie doti di negoziatore. “Fidatevi di me e troveremo un qualche accordo”, è la sua ricetta per tutto, che si tratti di risolvere la disputa sindacale di Detroit o la guerra tra Russia e Ucraina. Vorrebbe fare lo stesso anche sull’aborto, ma qui rischia grosso.Agli occhi del mondo pro life americano, Trump ha il merito di aver nominato alla Corte Suprema i giudici conservatori che mancavano per raggiungere una solida maggioranza e ribaltare, dopo 50 anni, la sentenza Roe v Wade sul diritto costituzionale all’aborto. Un successo che è arrivato nel giugno 2022 e che da allora è diventato un problema per i repubblicani in genere e per Trump in particolare. Perché ha galvanizzato i democratici, rischia di portarli in massa alle urne nel 2024 e spacca invece la destra nel dibattito se spingersi oltre e provare a imporre un divieto federale all’interruzione di gravidanza. Pochi giorni fa in un’intervista all’Nbc, Trump ha criticato DeSantis per aver imposto in Florida un divieto agli aborti dopo la sesta settimana. “E’ stato un errore terribile”, ha detto, nella foga di attaccare DeSantis. “Io penso invece che proteggere bambini con già un battito cardiaco sia nobile e giusto”, ha ribattuto il governatore della Florida. Ha ragione Ross Douthat a notare, sul New York Times, che Trump sta facendo una scelta centrista, sull’aborto come sui temi sindacali, per spiazzare la narrazione di chi, come DeSantis, cerca di sorpassarlo da destra. Il problema per l’ex presidente è che le primarie partono a gennaio dall’Iowa, uno stato conservatore dove sono potenti le chiese evangeliche e dove l’idea di “negoziare” sull’aborto non piace per niente. Né Trump può ancora vivere di rendita sull’aver spinto la Corte Suprema a destra, perché ormai è un tema superato: c’è una maggioranza conservatrice di 6-3 che durerà per anni. Tutto questo potrebbe spingere molti in Iowa a pensare, al momento del voto, che forse uno come DeSantis è più vicino a loro. E la narrazione del Trump “vincente” potrebbe entrare in crisi.