Antonio Casciano, Cristianità n. 420 (2023)
Lunedì 20 febbraio 2023, Papa Francesco, ricevendo in udienza i membri della Pontificia Accademia per la Vita in occasione della XXVIII Assemblea Generale, svoltasi in Vaticano dal 20 al 22 febbraio sul tema Converging on the person. Emerging Technologies for the Common Good, «Convergere sulla persona. Tecnologie emergenti per il bene comune», ha tenuto un breve discorso nel quale ha scelto di richiamare l’attenzione dei partecipanti su tre questioni dalle implicazioni etiche epocali: «il cambiamento delle condizioni di vita dell’uomo nel mondo tecnologico; l’impatto delle nuove tecnologie sulla definizione stessa di “uomo” e di “relazione”, con particolare riferimento alla condizione dei soggetti più vulnerabili; il concetto di “conoscenza” e le conseguenze che ne derivano».
Si tratta, con piana evidenza, di questioni intorno alle quali effettivamente si va dipanando una serie articolata di fenomeni — oltre che di conseguenti interrogativi etici — che richiedono una riflessione puntuale e ponderata, se non altro per le serie implicazioni che esse possono presentare per l’essere umano tout court.
Quanto alla prima questione, relativa al cambiamento delle condizioni di vita dell’uomo nel mondo della tecnica, il Santo Padre ha accennato al dato, positivo invero, dell’odierna, incessante interazione dell’uomo con il suo ambiente di vita, in vista del miglioramento delle condizioni e dei modi di abitarlo. Questa interazione è resa possibile dalla tecnica, «[…] che ci aiuta a comprendere sempre meglio il valore e le potenzialità dell’intelligenza umana» e il cui rapido sviluppo «[…] rende più intensa ed evidente l’interdipendenza tra l’uomo e la “casa comune” […], con effetti e sviluppi non sempre chiari e prevedibili».
L’interesse sistematico della riflessione bio-morale sulle questioni della tecnica trova la sua spiegazione non tanto nelle ragioni, pur condivisibili, addotte qualche tempo fa con esemplare lucidità dal filosofo Hans Jonas (1903-1993), quanto nel fatto che la tecnica, «questo prodotto freddamente pragmatico dell’astuzia umana», rappresenta una sfida etica in sé. E ciò al di là della possibile formulazione di un giudizio morale su tutti gli effetti prodotti, dacché le implicazioni, anche solo potenziali, che le opere della tecnica di fatto prospettano alle generazioni presenti e future rischiano di rendere queste ultime schiave di un meccanismo che tende ad autoalimentarsi, trasformando l’uomo da soggetto possessore degli strumenti della tecnica a soggetto posseduto, tenendo così viva l’ambizione audace e mai paga di un progresso incessante: «Per amore dell’autonomia umana, della dignità, la quale richiede che noi possediamo noi stessi e non ci facciamo possedere dalle nostre macchine, dobbiamo porre la corsa tecnologica sotto controllo extratecnologico». Come a dire che il potere che la tecnica affida «all’uomo» rischia di trasformarsi nelle sue mani, rese imprudenti dall’ebbrezza di conquiste sempre nuove, in un potere illimitato «sull’uomo», un potere da cui l’uomo ha dunque il dovere di guardarsi e proteggersi.
Se tuttavia, fino ad oggi, le pur molteplici applicazioni della tecnica avevano assunto ad oggetto esclusivamente la materia inanimata e, dunque, sembrava permanere, nella sua teorica intangibilità, la distinzione netta fra l’uomo, «soggetto», e la natura, vero ed esclusivo «oggetto» del dominio tecnico, l’avvento della tecnica biologica o bio-tecnologia ha messo definitivamente in crisi tale paradigmatica articolazione, trasformando l’uomo in oggetto, non più solo potenziale, del proprio operativo cantiere ingegneristico. Da qui deriva l’irrinunciabilità di una riflessione condotta a partire dall’esame degli effetti connessi all’esercizio del «potere biotecnologico», sempre più irrimediabilmente teso a fare dell’uomo un «esperimento di sé stesso», un esperimento grazie al quale dare finalmente concretezza al sogno, antropologicamente ricorrente, di un essere superiore all’uomo, secondo gli auspici del filosofo tedesco Peter Sloterdjik. «È questa la novità della tecnica biologica», di quella tecnologia organica in grado di trasformare, grazie agli sviluppi ultimi dell’ingegneria genetica, «l’immensa biodiversità da catalogo di specie a repertorio di qualità strutturali e funzionali che possono essere trasferite da una specie all’altra».
Quest’ultima precisazione ci introduce alla seconda questione posta dal Pontefice e relativa proprio al possibile impatto delle nuove tecnologie sulle definizioni stesse di «uomo» e di «relazione», soprattutto in merito alla condizione dei soggetti vulnerabili: «È evidente che la forma tecnologica dell’esperienza umana sta diventando ogni giorno più pervasiva: nelle distinzioni tra “naturale” e “artificiale”, “biologico” e “tecnologico”, i criteri con cui discernere il proprio dell’umano e della tecnica diventano sempre più difficili. Perciò è importante una seria riflessione sul valore stesso dell’uomo».
La soglia che delimita gli ambiti di pertinenza esclusiva della natura e della cultura non è mai stata così incerta come oggi. Si tratta, per la verità, di una soglia giammai definita una volta per tutte, subendo spostamenti continui, oscillazioni ininterrotte, dacché la natura assegna confini sempre nuovi alla cultura, e la cultura cambia continuamente la percezione che ha della natura. Tutto ciò non fa altro che alimentare i processi in atto di ibridazione fra bios e tekne, configurando il bisogno umano della tecnica come un prodotto del confronto con la prestazione iscritta nella cultura: «L’uomo si rende incompleto attraverso la cultura». Questa cultura oggi appare più che mai impegnata a richiamare l’uomo dal preteso isolamento ontologico cui era stato costretto dall’umanesimo antropocentrico, introducendolo a un modo di pensare tolemaico che fa tutt’uno con l’entusiasmo prometeico di una società che cerca affannosamente il senso di sé stessa nella convinzione di non poter più accogliere l’interpretazione tradizionale ed eteronoma del suo esistere nel mondo; tutto ciò senza però mai rimettere in discussione, come invece parrebbe necessario, l’uomo e il suo ruolo di fruitore, e non di creatore, che gli spetta nel dinamismo cosmico. Si tratta di una cultura che punta direttamente alla ri-costituzione della natura umana, suscitando le carenze che poi corregge e spostando continuamente in avanti lo squilibrio rispetto alla natura. La tecnologia stessa, poi, come prodotto culturale, retroagisce sul sostrato biologico dell’uomo che la pensa e la agisce, al punto che ogni acquisizione culturale può ben dirsi un’acquisizione biotecnologica dal momento che essa: «a) modifica la percezione dell’ottimalità performativa e quindi della carenza del sostrato organico; b) modifica l’ambiente ontogenetico dell’individuo e quindi tutti quei fattori funzionali ed esperienziali che entrano nel processo di sviluppo epigenetico».
La preannunciata fine dell’umanesimo antropocentrico perseguita dalla modernità ha generato due concezioni antropologiche che paiono assegnare ruoli antitetici alle tecnoscienze, ovvero: il transumanesimo, che vede nella tecnoscienza una sorta di proiezione/estensione dell’uomo, e il post-umanesimo, che attribuisce alle tecnoscienze il ruolo di arginare l’antropocentrismo, rivalutando il ruolo dell’eteroreferenzialità e dell’ibridazione. Transumanesimo e post-umanesimo configurano il dilemma della modernità, la contraddizione fra il desiderio dell’uomo di definirsi identitariamente, rimanendo separato dalla realtà, e il bisogno, altrettanto ineludibile, di divenire co-protagonista dell’interazione ibridativa insieme con l’alterità tecnologica. Da qui l’esigenza evidenziata da Papa Francesco di continuare incessantemente a «vigilare sulla velocità delle trasformazioni, sull’interazione tra i cambiamenti e sulla possibilità di garantirne un equilibrio complessivo».
Il raggiungimento di questo equilibrio richiede una capacità di guardare all’uomo e al mondo con occhi rinnovati, secondo un paradigma epistemologico completamente nuovo, fondato sulla consapevolezza «[…] che già il tipo di conoscenza che mettiamo in atto ha in sé dei risvolti morali». Proprio quella del conoscere rappresenta la terza questione sollevata da Papa Francesco. Se conosciamo bene, non possiamo non agire bene: un agire morale integro richiede un agente conoscitore capace di guardare al mondo e al suo simile secondo verità: «È paradossale, ad esempio, riferendosi a tecnologie di potenziamento delle funzioni biologiche di un soggetto, parlare di uomo “aumentato” se si dimentica che il corpo umano rinvia al bene integrale della persona e che dunque non può essere identificato con il solo organismo biologico. Un approccio sbagliato in questo campo finisce in realtà non con l’“aumentare”, ma con il “comprimere” l’uomo».
Al rischio di non conoscere secondo verità è sempre associato il rischio di originare forme di riduzionismo funzionalista dellanozione stessa di persona. Così avviene quando se ne coglie l’identificabilità nell’insieme delle facoltà che consentono una rappresentazione cosciente di sé e del mondo, declinata per mezzo di espressioni simboliche, oppure se ne individua il nucleo fondante in una più generale capacità di agire, da intendersi come abilità a realizzare una produzione di senso resa possibile da un’operatività comunque creativa. In entrambi i casi il rispetto della persona è erroneamente inteso come rispetto di sue singole capacità, facoltà o funzioni, non del suo nucleo ontologico radicale: è questo l’equivoco filosofico di fondo, tipico della modernità, che accomuna i due orientamenti riduzionisti accennati, i quali concordemente operano una dissoluzione della sostanza(e della sua realtà) e nel concomitante concetto di funzione. Da qui, l’appello del Papa che ribadisce «l’importanza di una conoscenza a misura d’uomo, organica, ad esempio sottolineando che “il tutto è superiore alle parti”».
Proprio in tale ultima ottica, allora, diviene possibile concludere assumendo che il soggetto-persona trascende sempre i propri atti, perciò giammai potrà essere identificata con la totalità delle operazioni di cui è capace: sostanzialità della persona significa esattamente che essa è un soggetto irriducibile al novero delle sue potenziali attività. Ne consegue che dall’identica posizione d’essere, cioè dall’identica essenzadi ogni persona, scaturisce l’uguale valore di ciascuna di essa, in modo necessariamente indipendente dal possesso attuale di certe proprietà e/o funzioni: «si tratta di ripartire dalle esperienze che tutti condividiamo come esseri umani e di studiarle, assumendo le prospettive della complessità, del dialogo trans-disciplinare e della collaborazione tra soggetti diversi».
Antonio Casciano
Note:
1) Francesco, Udienza ai Membri della Pontificia Accademia per la Vita, del 20-2-2023. Tutte le citazioni senza riferimento sono tratte da questo documento.
2) Cfr. Hans Jonas, Perché la tecnica moderna è oggetto dell’etica, ora in Idem, Tecnica, medicina ed etica. Prassi del principio responsabilità,trad. it., Einaudi, Torino 1997, pp. 30-32. Queste, in sintesi, le ragioni addotte dall’autore: a) la connaturata ambivalenza degli effetti della tecnica; b) l’inevitabilità dell’applicazione dei suoi ritrovati; c) la rapida e inarrestabile diffusione dei suoi effetti; d) l’eclissi definitiva della cultura antropocentrica.
3) Ibid.,p. 32.
4) Ibid.,p. 36.
5) Per una disamina della portata biopolitica e, più in generale sociale, delle applicazioni biotecnologiche, cfr. Laura Bazzicalupo, Biopolitiche, in Filosofia e questioni pubbliche, vol. 10, fasc. I, Roma 2005, pp. 147-171, in particolare, pp. 151-153 e pp.165-166.
6) Cfr. Peter Sloterdjik, Regole per il parco umano. Una replica alla Lettera sull’umanismo di Heidegger,trad. it., in Idem, Non siamo ancora stati salvati. Saggi dopo Heidegger, a cura di Anna Calligaris e Stefano Corsara, Bompiani, Milano 2004, pp. 241-261.
7) H. Jonas, Cloniamo un uomo: dall’eugenetica all’ingegneria genetica, in op. cit., p. 123.
8) Roberto Marchesini, Bioetica e biotecnologie. Questioni morale nell’era biotech, Apeiron, Bologna 2002, p. 107.
9) Idem, Post-human. Verso nuovi modelli di esistenza, Bollati Boringhieri, Torino 2002, p. 32.
10) Cfr. Sergio Cotta (1920-2007), L’uomo tolemaico, Rizzoli, Milano 1975.
11) R. Marchesini, Post-human. Verso nuovi modelli di esistenza, cit.,p. 30.