Henry Kissinger conosceva bene la storia e sapeva “piegarla”, alternando conservazione e rivoluzione
di Marco Respinti
«Cinico» è un termine di uso tanto comune che i più ne ignorano l’origine. Il cinismo fu una serissima, e talora seriosa, scuola di pensiero ellenistica, per tanti aspetti uno dei volti assunti dalla filosofia greca in caduta libera dopo le vette raggiunte dalla speculazione di Socrate, Platone e Aristotele, elleni inarrivabili animati dal sacro fuoco di quel realismo che ‒ come avrebbe detto 2500 anni dopo Albert Camus (non Che Guevara…) ‒ domandava l’impossibile, ovvero quel che «scandalo per i Giudei, stoltezza per i pagani» appariva tale: che «il Dio» della «terza navigazione» platonica si rivelasse all’uomo, nobilitando la sua ragione con il disvelamento del tutto e dell’intero. Il cinico, insomma, è un realista che ha preso a strafare, coltivando l’etica dell’abuso invece della morale dell’uso.
Ora, in morte di Henry Kissinger, il cui nome era il sinonimo stesso della scuola del «realismo» in politica estera (come ha scritto The New Yorker nel maggio 2020), scomodare i massimi sistemi non è affatto esagerare. Nato che la Rivoluzione bolscevica aveva solo sei anni, nell’anno in cui negli Stati Uniti sfondava il charleston ‒ cioè la marca da bollo, più che un ballo, dei ruggenti e posticci Anni Venti ‒, e morto nell’autunno 2023, con un secolo e qualche mese di vita alle spalle, Kissinger è uno che non le ha viste tutte, ma tantissime sì. Kissinger ha vissuto lo scoppio della Seconda guerra mondiale e ha patito la deflagrazione dell’Olocausto (ebreo bavarese, nacque in Germania e nel 1938 riparò con la famiglia prima a Londra e poi negli Stati Uniti, di cui divenne cittadino nel 1943). Ma le schegge incendiarie della Grande guerra, la prima, quella che polverizzò una Belle Époque che sarebbe stata degna della penna di Petronio, fra gaio nichilismo borghese, trompe-l’œil e progressismo positivista fin de siècle, lo avevano investito sin da piccolo, formandone il carattere e forgiandone le prospettive.
Kissinger ha visto anche il dopo: il dopoguerra, il comunismo e il dopo-comunismo, l’Unione Sovietica e il suo dopo (ma pure il suo doppio, dai mille volti) e il dopotutto. C’era quando lo Stato di Israele è nato, sopravvivendo a chi ha cercato di soffocarlo sin dalla culla, e c’era quando il socialismo nazionale arabo nacque e poi morì di parto, dando alla luce il nuovo fondamentalismo arabo-musulmano. Kissinger ha visto allargarsi la chiazza di un rosso sempre più cupo in Asia, Africa e America Latina, e ha visto le quattro stagioni del terrorismo mondiale. Ha visto la fine della storia (che però non è mai finita), l’11 settembre, tutta la Russia di Putin, il 7 ottobre di Hamas, e non basterebbe un giornale intero per elencare tutto ciò che ha visto e passato.
I ricordi, le ricostruzioni, le critiche e i coccodrilli si succederanno, adesso, per giorni, settimane, mesi. Dopo le articolesse, arriveranno saggi, libri, studi, memorie, mille cose utili e altrettante inutili per ricostruire la vicenda umana e politica non di un uomo che è stato un’epoca, come si dice quando non si sa cosa dire, bensì di un uomo che ha imposto un’epoca. Kissinger è infatti stato apprezzato e detestato sempre per la medesima ragione: il cosiddetto realismo di un protagonista della storia, capace di essere tanto antagonista dei suoi nemici quanto spregiudicato nel servirsene. Ma si sbaglierebbe a definirlo opportunista o, peggio, cerchiobottista. Non dagli alti scranni delle istituzioni statunitensi, bensì dal trono del potere, ha solo conservato il potere che alimenta il potere e che cerca il potere, mai facendosi scrupolo di alternare conservazione e rivoluzione. È lì che il suo realismo cessa di essere virtù aristotelica e trascolora in quel cinismo dal pelo sullo stomaco adeguatamente pettinato da potersi portare anche in alta società.
Fu Klemens von Metternich il maestro di cinismo di Kissinger. Al principe austriaco della Restaurazione il principe americano del potere dedicò la tesi di dottorato in Scienze politiche, conseguita nella Harvard University nel 1954. Conosceva bene la storia, Kissinger, soprattutto come piegarla. Metternich giocava a scacchi, facendo e disfacendo la politica, e alla fine perse sbagliando mossa. Disse che l’Italia era solo una espressione geografica, e sbagliò pure quello: l’Italia era infatti una cultura, forgiata da una fede, ma più che non capirlo a Metternich non tornava comodo riconoscerlo. Sembrò il capobastone dei reazionari, invece scese a patti con quel che gli serviva della Rivoluzione per arroccare il potere. Metternich fu ovviamente per Kissinger la musa incontrastata.
Per i complottasti ad oltranza Kissinger, il Consigliere per la sicurezza nazionale, il Sottosegretario di Stato, l’emblema del Partito Repubblicano mainstream e molto altro ancora, è stato un gran sacerdote del livello occulto. Council on Foreign Relations, RAND Corporation, Commissione Trilaterale, consorterie vere e presunte. Forse, ma cose che finiscono solo in caciara, quando si butta la palla in tribuna usando per prova provata l’ebraicità di Kissinger. Perché il potere che Kissinger ha gestito come un regista assoluto era tutto fuorché occulto. Un esempio eclatante fu l’Amministrazione del presidente Richard Nixon, il liquido di contrasto che ha palesato l’inchiostro simpatico del kissingerismo. L’anticomunismo tetragono della gioventù (l’allora sconosciuto Nixon fu il brillante avvocato che difese le indagini del senatore Joe McCarthy contro gli spioni di Mosca) si sublimò nella storica visita alla Cina del maoismo sanguinolento, e il Vietnam di una causa sacrosanta divenne quello dei mille passi falsi. Poi, dopo il nixonismo, venne il Libano.
Dal 1975 il Paese dei cedri è stato travolto prima, coriandolizzato poi, annichilito alla fine da quella che ci si ostina da decenni a chiamare «guerra civile», ma che in realtà fu una guerra internazionale per procura. Il Libano doveva cadere perché, da secoli, era un esperimento riuscito di convivenza fra popoli, culture e religioni. Lì i cristiani di mille riti garantivano l’equilibrio, il rispetto (non la tolleranza, che è il buonismo che riserviamo a quelli che disprezziamo) e una dose realista di pace e convivenza. Il cinismo dosato di Kissinger propose, invece, di spopolare il Paese dei cristiani libanesi (andassero in Occidente) per consegnarlo ai palestinesi e chetarli.
Epperò “l’ebreo cattivo Kissinger dei complotti” è diventato, poi, il buono da giocare contro altri “ebrei cattivi” di altri complotti, quando, dopo l’11 settembre 2001, i neoconservatori americani portarono la guerra al terrorismo in Afghanistan e in Iraq. Meglio abbaiare invece che mordere, perché, si disse e si dice, il dopo è stato peggio del prima. Forse: ma il punto è che prima il dopo non si conosce mai. All’epoca furono infatti i neocon i veri realisti, facendo la cosa giusta contro le centrali internazionali del terrorismo islamista, che aveva dichiarato la quarta guerra mondiale all’Occidente (la terza era stata la Guerra Fredda). Commisero un mucchio di errori, ma da quando l’abuso cancella l’uso?
Adesso, morto Kissinger, Kissinger vive: di fronte alla Russia putiniana, ad Hamas, alla Cina e a mille altri scenari, il cinismo della rivoluzione conservativa del potere che logora solo chi non ce l’ha gode ancora di una pletora di adepti.
Venerdì, primo dicembre 2023