Giulia uccisa due volte, da Filippo Turetta e dallo sfruttamento ideologico della sinistra. Meglio recuperare lo sguardo trascendente dei Papi e dei grandi letterati
di Cosimo Galasso
L’orrenda uccisione della povera Giulia Cecchettin ad opera del suo ex-fidanzato Filippo Turetta, ha scatenato, comprensibilmente, un’onda emotiva che ha pochi precedenti nella storia criminale italiana: tuttavia, quando si è andati ad analizzare le cause di questo efferato delitto, ci si è fatti “velare” gli occhi, soprattutto una certa sinistra, non tutta, da una visione ideologica che, al solito, cerca di piegare i fatti alle proprie precomprensioni, anziché, come sarebbe doveroso, “leggere” il reale. Ex abrupto, un “mostro” è stato sbattuto in prima pagina: ma non si tratta, come sarebbe logico aspettarsi, di chi quel delitto l’ha compiuto e pure ammesso, bensì dell’intero universo maschile, nessuno escluso, che sarebbe colpevole, perché contagiato, più o meno consapevolmente, della cultura del “Patriarcato”: «Carneade, chi era costui?», avrebbe affermato il buon Manzoni! In un autentico caleidoscopio di opinioni, la maggior parte delle quali affette da gravi mancanze di conoscenze storiche, sociologiche e, soprattutto, logiche, si sta, di fatto, rimestando nel torbido, “uccidendo”, a mio modestissimo parere, la povera Giulia una seconda volta. L’impressione dello scrivente è che si stia strumentalizzando questo caso per motivi politici, per perseguire un ulteriore allargamento della cosiddetta “cultura dei diritti”, mai associata a quella dei corrispondenti “doveri”, altrimenti difficilmente raggiungibile, almeno a giudizio di parte delle opposizioni, nel corso di questa legislatura.
La semplice descrizione di cos’è il Patriarcato, offerta dalla sociologa Anna Bono, di per sé, dovrebbe già essere sufficiente a dirimere la questione:«Il termine patriarcato indica un sistema sociale nel quale il governo della famiglia è diritto e dovere degli uomini sposati, i capifamiglia, e il governo delle comunità spetta all’insieme dei capifamiglia». Ad abundantiam: «In una società patriarcale un ragazzo di 22 anni non può decidere di uccidere qualcuno, men che meno una donna, e, se lo fa, questo può costargli la vita. Il motivo è che in una società patriarcale un giovane non sposato non ha potere né autorità, che cosa può e deve fare e che cosa non gli è permesso lo stabilisce il capo della famiglia alla quale appartiene, nel rispetto delle istituzioni tramandate di generazione in generazione, risalendo fino a quella degli antenati fondatori che le hanno create. Di sicuro non gli è consentito di togliere la vita a una donna per vendetta, capriccio, orgoglio ferito». Basta, dunque, una semplice analisi del contesto familiare nel quale è cresciuto Filippo Turetta, per capire che il Patriarcato non c’entra niente con questo delitto. D’altronde, uno studioso come il filosofo Massimo Cacciari, non certo sospettabile di simpatie patriarcali, ha escluso decisamente la cosa.
Durante la trasmissione OTTO e MEZZO, incalzato in tal senso dalla conduttrice Lilli Gruber, perentoriamente ha risposto che in Europa la cultura patriarcale è andata in crisi 500 anni fa ed è scomparsa definitivamente almeno 200 anni fa: pertanto, ascrivere la tragica uccisione di Giulia alla cultura patriarcale, è un autentico anacronismo. Un altro studioso di cultura progressista, quale è il sociologo Luca Ricolfi in un editoriale pubblicato dal quotidiano il Messaggero, riflettendo sull’uccisione di Giulia, ha detto: «Il dato più importante, ben noto agli studiosi da quasi un decennio, è il cosiddetto “paradosso nordico”: come mai i tassi di violenza sulle donne più alti si riscontrano nei Paesi considerati più civili, o addirittura in quelli più avanzati in materia di parità di genere? (…) Se vogliamo capire, dobbiamo cercare altrove. Questo altrove potrebbe essere la sopravvivenza del patriarcato, come si sente affermare ogni volta che una donna viene uccisa da un partner possessivo. Certo. Ma sfortunatamente, anche questa ipotesi è difficilmente conciliabile con i dati. Qualcuno può plausibilmente sostenere che gli Stati scandinavi siano società patriarcali? O che lo sia il Regno Unito? O il civilissimo e ultra-avanzato Canada?». Chiaramente, nessuno intellettualmente onesto può sostenere simili amenità, ma stranamente, chi manifestava nelle piazze, ha volutamente taciuto questi dati.
Come tutti coloro che si ispirano a Rousseau e a Bloch, se la teoria non coincide con i fatti, tanto peggio per i “fatti!”. Ricolfi individua proprio nella esasperata cultura dei diritti, tipica delle società avanzate, una delle radici dei nostri mali: «La cultura dei diritti è una cosa meravigliosa, ma ha anche effetti collaterali perversi. Ad esempio: l’educazione è permissiva, i genitori iper-proteggono i figli, gli insegnanti si colpevolizzano per gli insuccessi dei ragazzi. Sicché una parte di questi ultimi si convince di avere un fascio di diritti fondamentali, o quasi naturali: successo formativo, abitazione, consumi, status, divertimento, sesso. Naturalmente, succedeva anche prima che si desiderassero tutte queste cose. Ma non erano considerate diritti, bensì conquiste possibili, spesso costose in termini di sforzi, e sempre esposte al rischio di fallimento. (…) In breve, e detto brutalmente: nelle società “arretrate” i giovani sanno (e accettano) di poter fallire, in quelle avanzate non sono preparati all’eventualità. Da questo punto di vista, non stupisce che negli Stati Uniti – dove l’iper-protezione dei giovani da parte di genitori, insegnanti e istituzioni culturali ha assunto tratti grotteschi e dimensioni patologiche – per una donna il rischio di essere uccisa sia 7 volte quello dell’Italia».
Un altro tipo di lettura di questi fatti, complementare a quella sociologica e psicologica, è quella spirituale, che dovrebbe interessare tutti i credenti. Il parroco di Torreglia, il paesino di Filippo Turetta, interrogato da una giornalista su come possiamo fare per capire e magari prevenire questi eventi delittuosi, ha detto: «Leggete “I fratelli Karamazov” e guardate alla Croce». Una risposta densa di significato, a mia scienza la migliore che ho sentito in questi giorni. L’uomo, nel grande romanzo di Fedor Dostoevskij, una volta che si è liberato dai lacci e lacciuoli rappresentati dalla religione e dall’etica, sarà libero di fare quel che vorrà, senza alcun limite. Un uomo autoreferenziale, che risponde solo a sé stesso, non riconoscendo alcuna autorità al di sopra di lui. Un uomo contemporaneo che, per dirla con san Paolo VI, ha lasciato la religione del Dio che si fa Uomo per seguire la religione dell’uomo che si fa Dio.
Lo studioso Salvatore Giovanni Calasso, commentando l’uomo che è stato forgiato da quella che il prof. Plinio Correa de Oliveira chiamava “IV Rivoluzione”, la Rivoluzione in interiore homine, ha scritto: «L’”uomo nuovo” della Rivoluzione è colui che esercita “[…] un potere che non invoca alcuna giustificazione, non dipende da alcuna finalità”. Egli è, secondo una definizione di Hakim Bey, “l’anarco/re”. Ognuno di noi è il monarca della nostra propria carne, delle nostre creazioni — e di quant’altro possiamo agguantare e tenere». Rebus sic stantibus, di cosa, dunque, ci meravigliamo? Se sono l’anarco-re, posso fare tutto quello che voglio, anche disporre della vita degli altri. Il contrario del Patriarcato, dove la mia libertà dipende totalmente dagli anziani…
Unica risposta, almeno per il credente, è la Croce di Cristo, alla quale ancorarsi, per non perdersi nelle tenebre di questo mondo, soggiogato dal male. In fondo, basta seguire l’insegnamento del celebre detto certosino Stat crux, dum volvitur Orbis. Come insegnava Benedetto XVI, e prima di lui san Giovanni Paolo II, viviamo in un mondo senza valori, nichilista e, dunque, relativista. Forse il parroco di Torreglia non sa che la sua analisi era stata già formulata alla fine degli anni Sessanta. All’epoca è iniziato un relativismo esasperato, che ha dischiuso attorno a noi un orizzonte davvero fosco, già ampiamente previsto, peraltro, con notevole acume, da padre Cornelio Fabro in una lontanissima omelia del settembre 1968 – dunque, in pieno decorso della IV Rivoluzione – dove, pur senza chiamarla così, previde gli esiti drammatici di una cultura relativista, cioè, centrata, narcisisticamente, sul soggetto, totalmente svincolata da un quadro assiologico di riferimento trascendente la volontà dei singoli. Disse Padre Cornelio Fabro:«Solo chi è in pace col Signore, solo chi è in pace con la coscienza (..) solo chi vede la Gioia nella via della Santa Croce, – come dice L’imitazione di Cristo-, costui ha la pace! Se no sentite, si finisce in un manicomio o in un penitenziario, perché si è uccisa la moglie, perché si è ucciso il marito!” Dove non c’è un principio di unione della coscienza, dove gli atti della nostra soggettività, del nostro Io psicologico, non sono congiunti a un Principio Assoluto, che è Dio, viene la disgregazione, viene l’orrore, viene l’odio dell’uomo per l’uomo e all’odio succede la morte!».
Ogni eventuale commento sarebbe superfluo…