Antonio Casciano, Cristianità n. 421 (2023)
1. Da anni ricerca scientifica e ingegneria biotecnologica stanno tentando di mettere a punto il cosiddetto «utero artificiale» per aiutare sia i feti nati prematuramente a crescere al di fuori del corpo materno, sia le donne con patologie all’utero ad avere un figlio «geneticamente» proprio. Sono in fase avanzata le sperimentazioni di ectogenesi condotte in Olanda, Cina e Stati Uniti d’America (1).
L’attuazione pratica di una prospettiva simile, decisamente distopica e, a quanto si legge, davvero imminente, implica l’utilizzo ingente dell’Intelligenza Artificiale, mai disgiunta dall’impiego massivo di biotecnologie e robotica: da qui, l’idea di algoritmi che permettano di identificare il miglior embrione possibile in vista dell’impianto nell’utero artificiale; capsule di gestazione trasparenti innervate da sensori e telecamere; serbatoi di liquido amniotico artificialmente prodotto; cordoni ombelicali biocompatibili digitalizzati; impiego di app che consentono di monitorare in alta definizione (HD) e gestire da remoto, dallo smartphone, la crescita del feto. In concreto, le capsule per la gestazione embrionale, verrebbero collegate a due bioreattori centrali, uno contenente nutrienti e ossigeno, l’altro destinato ad asportare dalla capsula i prodotti di scarto prodotti dal feto. Al termine della gestazione, per la nascita, basterebbe premere un pulsante e addio travaglio, manovre, anestetici, cesarei, dolori e quant’altro. L’utero artificiale, ovviamente, non è ancora stato messo a punto, a causa, da una parte, delle difficoltà giuridiche connesse al suo riconoscimento, dall’altra dell’indisponibilità di tecniche che consentano di riprodurre artificialmente la placenta e i nutrienti capaci di adattarsi perfettamente alle esigenze di sviluppo del feto. Il liquido amniotico, infatti, muta la sua composizione durante la gravidanza e non vi sono ancora certezze scientifiche circa la composizione chimica di tale sostanza nei nove mesi di gestazione umana. Infine, complicazioni ulteriori sono date dalla difficoltà di inserire nell’utero artificiale l’ovulo fecondato, mentre studi dimostrano che l’uso di questa tecnologia potrebbe proteggere i feti da stati gestazionali patologici ed essere utilizzata per migliorare la sicurezza di terapie mirate, come la chirurgia fetale e la terapia farmacologica, genica o con cellule staminali (2).
In attesa che le tecnologie connesse all’utero artificiale (Artificial Womb Technology) vengano definitivamente messe a punto e per ovviare alle innumerevoli e insormontabili questioni bioetiche poste dalla pratica della maternità surrogata (MS), Anna Smajdor, professoressa di filosofia all’Università di Oslo, in un articolo sulla Whole Body Gestational Donation (WBGD) propone di utilizzare il corpo di donne in stato di morte cerebrale come madri surroganti per «i futuri genitori che desiderano avere figli ma non possono o preferiscono non gestare» (3).
Facendo riferimento a precedenti teorie della israeliana Rosalie Ber (4), la Smajdor ritiene che i corpi di pazienti di sesso femminile in stato vegetativo persistente, o di coloro che hanno subito la morte cerebrale, potrebbero essere usati come incubatrici, tenendone in vita le funzioni necessarie a consentire la crescita e lo sviluppo del feto, per mezzo di ventilazione e alimentazione artificiali e per il tempo necessario a portare a termine la gravidanza. Tuttavia, la Smajdor, in apertura del suo contributo, prende le distanze su almeno tre punti dagli assunti, ormai datati, espressi dalla Ber nel suo articolo, dichiarandosi a favore di una WBGD che implichi: 1) l’attingere al bacino potenzialmente più ampio delle donne dichiarate morte cerebralmente piuttosto che a quello, indicato dalla Ber, includente le sole donne in stato vegetativo persistente; 2) la possibilità di accesso alla WBGD a tutte le donne potenzialmente interessate a detta pratica, ovvero anche a quelle semplicemente non intenzionate a gestare, quantunque in condizioni fisiche tali da poterlo fare, piuttosto che limitarne l’accesso, come teorizzato dalla Ber, alle sole donne che versino in condizioni di impossibilità medica alla gestazione tout court; 3) la possibilità di utilizzare non solo donne, ma pure uomini in stato di morte cerebrale, essendo anch’essi potenzialmente in grado di gestare, così tacitando le perplessità manifestate dalle femministe e insieme ampliando ulteriormente il bacino dei potenziali donatori: «Suggerisco che anche gli uomini morti cerebralmente avrebbero il potenziale per dare alla luce un feto, il che significa che il pool di potenziali donatori è ulteriormente aumentato— e che alcune preoccupazioni femministe potrebbero quindi essere placate» (5).
Il tutto, secondo la Smajdor, dovrebbe potersi compiere all’interno della cornice di giustificazione legale offerta dalle norme sulla donazione di organi da defunto, operanti ormai ad ogni latitudine: «Il mio suggerimento di utilizzare il quadro della donazione di organi significa che: (a) abbiamo più potenziali candidati e (b) abbiamo sistemi di consenso esistenti in base ai quali le persone danno il consenso in modo proattivo in anticipo o si ritiene che lo abbiano fatto in mancanza di qualsiasi prova contraria. Pertanto, ovunque la donazione di organi sia legale, la WBGD cerebralmente morta sarebbe una modifica relativamente semplice a tale quadro» (6).
2. Nessuna delle argomentazioni addotte dalla Smajdor nel suo contributo consente di superare le numerose, complesse e irrisolte questioni di natura eminentemente bioetica che la pratica della MS ha posto fin dall’inizio e che permangono, semmai amplificate, moltiplicate ed esacerbate dalla prospettiva di una surrogazione praticata sfruttando il corpo di una donna cerebralmente morta, anche per consentire l’avvio di una gravidanza non ancora iniziata, al fine di evitare la mole di inconvenienti legati alla MS tradizionale. Ciò non sembra offrire l’occasione di una qualsiasi remora morale per l’autrice, che anzi, sgombrando il campo da ogni preoccupazione di natura bioetica, chiarisce fin da subito: «La WBGD implica trattare il corpo morto del paziente come un mezzo per un fine, piuttosto che come un fine in sé. Il paziente passa dall’essere al centro delle preoccupazioni mediche, ad essere un deposito di tessuti che possono essere utilizzati a beneficio degli altri» (7).
Eppure, la dignità morale di tutti i soggetti coinvolti nella pratica della MS sembra minacciata fin dalle prime fasi di raccolta, elaborazione e archiviazione dei dati, tanto dei donatori esterni di gameti quanto delle candidate alla surrogazione, in vista di una classificazione di questo capitale umano, vivo o morto che sia, che consenta alla coppia committente di scegliersi i donatori eventuali come le future candidate alla gestazione. Le indicazioni all’epoca raccolte nelle Raccomandazioni redatte dalla Società Americana per la Salute Riproduttiva — che incorporano, fra le altre, informazioni fornite da diverse agenzie nazionali, tra le quali la Food and Drug Administration e il Centro Nazionale per la Prevenzione e il Controllo delle Malattie — prevedevano che le potenziali madri gestanti fossero sottoposte a una serie di scrupolose indagini medico-scientifiche tese a valutarne l’idoneità sul piano sia fisico sia psichico (8). Probabilmente queste indagini non verrebbero risparmiate, almeno per la parte relativa alla verifica dello stato di salute fisica, a una potenziale gestante per il solo fatto di versare in uno stato di morte cerebrale irreversibile. La scelta della futura madre è da compiersi, cioè, sempre e comunque in una logica il più possibile in linea con i gusti della coppia committente, che la elegge consultando normalmente un catalogo, ove sono riportati tutti i dati salienti della candidata alla surrogazione in vista della realizzazione del loro progetto procreativo (9).
E alla stessa ottica di selettività eugenetica ed edonistica si possono ascrivere le altre opzioni assicurate alla coppia committente (10) e che la stessa Smajdor non disdegna di considerare praticabili anche nel caso in cui ad essere scelta sia una madre in uno stato di morte encefalica (11). Mi riferisco alle scelte relative a: 1) il sesso del feto (12); 2) la possibile riduzione embrionale in caso di gravidanze multiple; 3) la possibilità di effettuare la diagnosi genetica pre-impianto, al fine di escludere gli embrioni malformati; 4) la facoltà di sollecitare il congelamento degli stessi embrioni, al fine di accertare l’inesistenza di patologie riconducibili ai genitori e potenzialmente trasmissibili al feto (13); 5) la possibilità di abortire, anche tardivamente. In una parola, la MS, sia nella sua variante dell’utero in affitto da vivente, sia nella variante di WBGD proposta dalla Smajdor, costituisce sempre e comunque una lesione della dignità della donna: infatti, rende il suo corpo strumento in vista della soddisfazione dei desideri riproduttivi altrui, con scenari, già in atto, da incubo distopico, tanto più iniqui quanto minore è la capacità di mettere la gestante nella condizione non solo di dare il proprio consenso, altro punto critico della teoria della Smajdor, ma anche di instaurare qualsiasi tipo di relazione significativa con il feto, esattamente come avverrebbe nel caso del ricorso a una comunissima incubatrice. E proprio la predominanza della tecnica nella pratica della MS conferma il processo, ad essa sotteso, non solo di reificazione, ma anche di radicale spersonalizzazione dell’essere umano, trasformato in un ingranaggio dell’industria della riproduzione umana sempre più incline a conformarsi ai diktat della bio-tecnocrazia.
Da quanto descritto, si evince facilmente come quelli della mercificazione, della strumentalizzazione della madre gestante siano effetti e caratteri propri, costitutivi della MS, cioè non legati solo all’eventualità di abusi perpetrati ai danni della parte contrattualmente più debole dell’accordo di surrogazione, tipico dei Paesi dove più facile appare vulnerare le prerogative giuridiche fondamentali di una persona (14), ma anche e soprattutto nella prospettiva dello sfruttamento del corpo della madre encefalicamente morta, proposta dalla Smajdor. La docente non ha remore nell’esprimersi nell’ottica di un puro sfruttamento del materiale biologico offerto dal corpo della persona tenuta in vita artificialmente, mediante il prolungamento della sua sopravvivenza somatica, al solo fine di consentire l’esito felice della gestazione, avviata quando la donna era già in tale stato: «La donatrice WBGD non ha vita quotidiana: la sua funzione è esclusivamente quella di gestare. Non osiamo trasferire troppi embrioni in donne vive, perché la riduzione selettiva è traumatica e dannosa per la donna incinta. Non ci sono problemi di questo tipo in relazione al donatore WBGD. Se ha bisogno di più o meno di un particolare farmaco o se sono necessari interventi fetali, non abbiamo nessuno dei potenziali conflitti che possono influenzare le gravidanze ordinarie. I genitori possono trasferire tutti gli embrioni che possono generare, massimizzando le possibilità di almeno un parto vitale e, se necessario, scartando in anticipo quelli danneggiati o malati» (15). Insomma, in una valutazione puramente utilitaristica, si può affermare che la tecnica della WBGD permette di massimizzare i risultati attesi da una gravidanza portata avanti per surroga da una donna in stato di morte encefalica, minimizzando i rischi connessi ad eventi avversi, imprevisti e sempre possibili, per la gestante.
Né pare assurgere a questione problematica, agli occhi della Smajdor, la necessità di una manifestazione univoca di volontà libera da parte della gestante medesima — volontà eventualmente raccolta, secondo modalità ritualmente prescritte, quando ancora fosse nel pieno delle sue facoltà. Invero, prendendo sul punto le distanze dalla Ber, l’autrice non solo nega la necessità di un consenso espresso da parte di chi si troverebbe a fare da madre gestante a sua insaputa in una condizione di morte cerebrale sopravvenuta, ma anzi arriva al punto di sostenere l’opportunità di considerare l’assenza di un chiaro dissenso all’espianto donativo di organi come condizione legale sufficiente a consentire l’uso del corpo delle donne cerebralmente morte in vista di una gestazione per altri: «Certamente, il livello di informazioni ritenute sufficienti come base per il prelievo di organi è minimo rispetto ad altre procedure invasive significative né prima né dopo la morte. Il consenso a un’operazione richiederebbe un grado di informazione maggiore; fare testamento richiederebbe un grado molto maggiore di specificità e dovrebbe essere testimoniato per essere giuridicamente vincolante. Se i protocolli per il consenso informato sono accettabili per la donazione di organi, dovrebbero essere accettabili per una WBGD, magari con ulteriori campagne di informazione pubblica» (16).
Sul punto si può osservare come, sempre più spesso, in sede medica internazionale si sia parlato prima di «morte cerebrale», poi più ampiamente — e correttamente — di «morte encefalica», per indicare la cessazione completa e totale di tutte le funzioni del sistema nervoso centrale, dovuta a un danno irreversibile dell’encefalo (17). La prassi medica internazionalmente consolidatasi in tal senso prevede, per la successiva fase di accertamento della morte diagnosticata con criteri neurologici, l’opportunità di dar vita a un collegio composto da un medico legale — o un anatomopatologo o un medico di direzione sanitaria —, da un anestesista e rianimatore e da un neurofisiopatologo (oppure un neurologo o un neurochirurgo esperti in elettroencefalografia), chiamato a esprimersi all’unanimità, dopo un periodo minimo di osservazione (18). All’esito di tali fasi, si può iniziare a parlare di donazione da defunto, che è quanto direttamente ci riguarda in questa sede.
3. La necessità di salvaguardare il diritto di libertà e di autodeterminazione del soggetto morale, che perdura anche post mortem, in una fase in cui il soggetto non è più nelle condizioni di farlo direttamente e personalmente, impone di considerare come legge morale universale l’assunto secondo cui, in assenza di un consenso espresso univocamente in vita, il cadavere giammai possa essere violato per mezzo di espianti di tessuti o di organi di qualsiasi tipo. Siamo consapevoli che questa postura morale, nel conflitto tra i due beni in questione — da una parte il diritto di autodeterminazione morale del donatore e, dall’altra parte, il beneficio che può trarne il donatario — dà chiaramente priorità al primo bene. Alla base di tale postura vi è l’idea che il diritto fondamentale dell’autonomia morale, quale suprema espressione della dignità personale di ogni essere umano, non debba, né possa mai essere sottoposto in vista del beneficio da arrecare ad altra persona. Il diritto di disporre del proprio corpo è così intimamente connesso al diritto di autodeterminazione e di autonomia morale di una persona da non poter mai essere «delegato» a terzi, fossero anche il coniuge, i figli, i parenti stretti o lo Stato, se non in modo esplicito.
Ciò significa, a rovescio, che il consenso al prelievo di organi non possa essere mai meramente presunto in caso di mancanza di un esplicito assenso, se non nel caso in cui questo sia conforme alla volontà certa, accuratamente ricostruita, della persona. Secondo questo indirizzo, il principio di presumere il consenso, in caso di assenza di una dichiarazione espressa di obiezione (il cosiddetto «modello di obiezione»), contraddice lo spirito cui è informato il sistema di diritto della maggior parte dei Paesi occidentali (19). Ciò soprattutto in vista della necessità di evitare che si instaurino un mercato illegale di organi e un «turismo di trapianto» a livello internazionale, con le conseguenze negative che possono seguirne, come la predazione di organi da vivi, il pericolo di abuso di persone che vivono in situazioni di debolezza sociale o di necessità economica e perfino l’uccisione allo scopo di espiantare gli organi, il tutto avallando una mentalità, invero sempre più diffusa, di strumentalizzazione e commercializzazione del corpo umano.
La Smajdor sostiene che il prolungamento somatico della sopravvivenza nella donazione convenzionale di organi si giustifica in ragione dei benefici che una simile pratica verrà ad assicurare al destinatario finale dell’organo, e non di quelli che subiranno l’espianto, il cui best interest sembrerebbe anzi in questo caso sacrificato. In tal senso, gli stessi criteri dovrebbero ritenersi applicabili alla WBGD, che dunque ne uscirebbe giustificata nella sua liceità morale esattamente al pari della donazione convenzionale di organi: «Dal momento che siamo felici di accettare che i donatori di organi siano abbastanza morti da donare, non dovremmo avere obiezioni al WBGD per questi motivi. I donatori WBGD sono morti come gli altri donatori, né più né meno. Dal momento che siamo felici di prolungare la sopravvivenza somatica di donne già incinte in morte cerebrale, iniziare una gravidanza tra donatrici idonee in morte cerebrale non dovrebbe preoccuparci indebitamente» (20).
Ebbene, la differenza tra le due prospettive, quella dei donatori convenzionali di organi post mortem e quella di chi metterebbe, seppure volontariamente, a disposizione il proprio corpo per una gestazione per altri dopo la morte encefalica, al netto di questioni di consenso di cui si è già accennato, è di tutta evidenza. Di certo, nei confronti del corpo di qualsiasi uomo, che conserva una dignità derivante dal fatto di essere stato un «corpo umano», sussistono, in tutte le culture, obblighi morali, prescrizioni o proibizioni per le quali esso non può essere considerato alla stregua di una res o del cadavere di un animale. Una persona, infatti, non «ha» semplicemente un corpo, ma «è» il suo corpo (21), così che, «in forza della sua unione sostanziale con un’anima spirituale, il corpo umano non può essere considerato solo come un complesso di tessuti, organi e funzioni […], ma è parte costitutiva della persona, che attraverso di esso si manifesta e si esprime» (22). Pertanto, ogni disposizione sul corpo e su parti di esso non può essere fatta contro la volontà, ossia contro il «consenso informato» della persona stessa. Tuttavia, alla libertà assoluta del donante deve fare da pendant la libertà assoluta anche del donatario, visto che è ormai internazionalmente acquisito il principio del consenso libero e informato, che prevede che nessun trattamento medico possa essere effettuato contro la volontà del paziente o senza il suo accordo. Questo fa parte del diritto di autodeterminazione come espressione della dignità della persona.
Ebbene, nel caso proposto della Smajdor, questa libertà del donatario di poter liberamente e consapevolmente accettare di nascere dal corpo di una persona encefalicamente morta non esisterebbe. Si verrebbe, cioè, a privare la persona non solo della possibilità di conoscere la propria madre biologica (23), premorta all’inizio della sua gestazione, ma altresì della possibilità di assentire alla totalità dei rischi connessi ad una gestazione condotta in simili condizioni. In ogni caso, qualsiasi donazione post mortem dovrebbe comunque compiersi nel rispetto del corpo del donante, considerato come corpo di una persona e, quindi, non semplicemente come accumulo di organi o tessuti da utilizzare, e ciò anche in ragione del rispetto che si deve al cadavere a motivo della «sua sacralità per il riferimento fenomenologico e psicologico che riceve nei superstiti» (24). Un ultimo principio etico statuisce, infine, la necessità che gli organi oggetto della donazione non siano annoverabili fraquelli strettamente legati all’identità di una persona, come nel caso dell’utero di una donna appunto. Si tratta di princìpi che puntano a garantire un’adeguata tutela della dignità umana, sia dei donatori sia dei donatari di organi. Nella prospettiva della Smajdor, invece, nulla sembra potersi opporre all’idea della liceità morale del desiderio di genitorialità, soddisfatto anche a costo di accedere all’utero di una persona in stato di morte encefalica, utero reso nuovamente «operativo» dalle macchine che garantiscono la sopravvivenza somatica della donna che dovrà gestare.
Il caso, poi, della donna che viene mantenuta in vita per il fatto di poter portare a termine una gravidanza già iniziata non pare assimilabile a quello di WBGD, se non altro perché nel primo caso ogni attività tecnico-medica messa in campo è finalizzata a mantenere in vita un feto, già in via di gestazione, almeno fino a quanto esso non diverrà viabile. Nell’ipotesi della WBGD, invece, si tratta di far iniziare una gravidanza nell’utero di una donna morta encefalicamente per il solo fatto di poterne considerare il corpo appunto come un mero mezzo in vista di un fine, come la stessa autrice espressamente si esprime, così finendo per considerare la liceità morale di qualsiasi trattamento utile a rendere possibile il risultato atteso, dall’impianto plurimo di embrioni alla possibilità di praticarne la riduzione, all’ipotesi di somministrare ad essa tutti i farmaci necessari a mantenere in vita il feto, nella certezza che ella non può più soffrire: «Un ultimo punto è che in realtà WBGD offre un ulteriore vantaggio rispetto alle gravidanze standard: il donatore WBGD è sotto assoluto controllo medico e sorveglianza. Il passo verso una maggiore sorveglianza della gravidanza nelle donne viventi è stato fortemente criticato da molte femministe per le sue incursioni oppressive e invadenti nella vita quotidiana che le donne devono ancora vivere durante la gravidanza. La donatrice WBGD non ha vita quotidiana: la sua funzione è esclusivamente quella di gestare. Non osiamo trasferire troppi embrioni in donne vive, perché la riduzione selettiva è traumatica e dannosa per la donna incinta. Non ci sono problemi di questo tipo in relazione al donatore WBGD. Se ha bisogno di più o meno di un particolare farmaco o se sono necessari interventi fetali, non abbiamo nessuno dei potenziali conflitti che possono influenzare le gravidanze ordinarie» (25).
Non solo la dichiarata e reificante strumentalizzazione di un corpo umano, implicata dalla pratica della WBGD è eticamente inaccettabile, ma lo è anche la superficialità con la quale la Smajdor parla della possibilità di sopprimere embrioni e finanche feti, pur di riuscire a conseguire i risultati attesi dai committenti, in ragione dei cui desideri si è potuto mettere a punto l’idea della liceità morale di un’incubatrice umana morta encefalicamente: «I motivi legali per l’aborto generalmente includono menomazioni o malattie che colpiscono il feto. Pertanto, con una sorveglianza molto stretta, è ragionevole pensare che se i feti sono gravemente danneggiati da fattori imprevisti derivanti da gestazione con morte cerebrale, questo non deve comportare la nascita di bambini gravemente danneggiati» (26), che dunque potranno essere pacificamente abortiti, anche qualora la diagnosi della patologia fetale dovesse arrivare in una fase ormai avanzata della gestazione.
Del pari inaccettabile appare l’idea di rendere la pratica della WBGD alla portata di tutti, in alternativa alle gravidanze da concepimento naturale, e ciò in ragione della necessità di azzerare completamente i rischi connessi a queste ultime: «È noto che la gravidanza e il parto comportano rischi significativi per la salute, anche in ambienti ricchi con sistemi sanitari sofisticati. Esporsi a rischi paragonabili alla gravidanza e al parto sarebbe considerato sciocco e patologico in qualsiasi altro contesto. Ho precedentemente dimostrato che in un confronto tra gravidanza e morbillo, la gravidanza risulta notevolmente peggiore in termini di morbilità e mortalità. Tuttavia, gli sforzi medici concertati si concentrano sul liberarci dal morbillo, mentre ci si aspetta che le donne si sottopongano ai maggiori rischi della gravidanza e del parto quasi senza pensarci. Il morbillo è una malattia soggetta a denuncia, la cui eradicazione è un obiettivo dichiarato della medicina. Ne consegue che anche la gravidanza dovrebbe — a parità di altre condizioni — essere considerata in questa luce, poiché è più rischiosa del morbillo. Non possiamo ancora rinunciare del tutto all’utero per la riproduzione della nostra specie. Ma possiamo trasferire i rischi della gestazione a coloro che non sono più in grado di essere danneggiati da loro» (27).
In effetti, se può apparire ragionevole affermare che la semplice comparsa di una gestazione non implichi, di per sé, il dovere morale per la gestante di sentirsi madre, cionondimeno, la proposta di stabilire una separazione radicale, sistematica, come fa Ann Smajdor, fra maternità e gestazione reca in sé i germi di una deriva ideologica che rappresenta esattamente il presupposto dello sfruttamento della donna, del suo corpo, della sua femminilità. Se si obnubila l’esistenza di un vincolo ontologico fra maternità e gestazione, se si accetta che sia possibile essere gestanti senza essere madri della creatura portata in grembo, diviene altresì possibile, isolando i due momenti, affittare la capacità riproduttiva della donna; ovvero, metterla in condizione di disporne per il tempo in cui non sarà più viva cerebralmente, come nel caso in esame, come se gestazione e parto fossero dei servizi qualsiasi, prestazioni pienamente fungibili, disponibili ed esigibili da parte di chicchessia. La MS, nella versione della WBGD proposta dalla Smajdor, in particolare, introduce una mercantilizzazione delle facoltà riproduttive femminili, che la separazione fra maternità e gestazione rende possibile, e che conduce inevitabilmente a risultati reificanti.
Da quanto detto fin qui si evince facilmente come quelli della reificazione, della strumentalizzazione, della spersonalizzazione della madre gestante siano effetti e caratteri propri, costitutivi della MS, cioè non legati solo all’eventualità di abusi perpetrati ai danni della parte ipoteticamente più debole dell’accordo di surrogazione. Al contrario, si tratta di conseguenze dovute alla sistematica assenza di una volontà autenticamente libera da parte della gestante medesima, quand’anche avesse espresso univocamente il suo consenso a che si disponga del proprio corpo nel caso di morte encefalica (28). Il carattere reificante emerge patente dal fatto che l’offerta pro aliis, gratuita oppure no, di un servizio riproduttivo, come di un servizio sessuale, implica sempre una strumentalizzazione del corpo della donna, ovvero una lesione ineludibile della sua dignità, quali che siano le condizioni nelle quali si perfeziona l’accordo (29).
Ora, proprio sul corpo visto come pura nudità biologica, organica, materiale, sembrano appuntarsi i desideri e le aspirazioni dei soggetti coinvolti nella pratica della WBGD proposta dalla Smajdor: il corpo gestante della madre surrogata; il legame corporale, biologico, che deve esistere fra il padre e, eventualmente, la madre committente e il figlio; il corpo del neonato, da assicurare immediatamente alle braccia della coppia appaltante una volta separato dal grembo della madre surrogata. In tutti questi casi, assistiamo a una dazione strumentalizzante del corpo umano, o almeno di una sua parte: l’utero della donna in stato di morte cerebrale, ma anche lo sperma, gli ovuli, il feto. Nel caso della madre gestante, poi, l’indisponibilità a sé stessa del suo proprio corpo, anche per il periodo successivo a quello in cui dispone della piena funzionalità delle proprie facoltà mentali, in vista della realizzazione dei desideri riproduttivi altrui, l’impossibilità cioè di mettere e a disposizione il proprio utero per fini procreativi d’altri, riposa su una visione del corpo umano da intendersi come dono: dal momento che nessuno può liberamente determinarsi nel nascere, ne segue che il corpo non può considerarsi come oggetto di una proprietà personale, sul quale poter accampare diritti o facoltà assolute, ma deve essere visto come un quid ricevuto, come un dono offerto (30). Proprio la visione del corpo come dono fatto ad ogni persona in maniera sostanzialmente, anche se non accidentalmente, identica, permette di parlare di «corpo personale», da accettarsi nell’adesione a un’etica della cura e della corresponsabilità, dimensioni che ci introducono all’idea del «limite nella disponibilità del corpo stesso» (31). Contro l’idea della libera autodeterminazione, della piena autonomia nella disposizione del corpo, la logica del dono (32), in particolare, impone di rifiutare tutto ciò che appare in distonia con le sue leggi, come l’uso utilitaristico del corpo per fini di «riproduzione» supposto dalla WBGD, quand’anche animata da finalità solidaristiche. Quando la generazione umana è infatti assimilata alla «produzione mercanziale», quantunque filantropica e non commerciale, di feti da scambiare o anche donare, il corpo viene necessariamente reificato, smarrendo quella dimensione eminentemente personale cui si accennava (33).
Nel caso della WBGD il processo di reificazione investirebbe tanto la madre gestante quanto il neonato, entrambi fatalmente attratti in una logica di riduzionismo reificante che attenta alla dignità morale di entrambi. L’ipotetica esclusione di una transazione economica, poi, come nel caso prospettato dalla Smajdor, non esclude, semmai conferma la logica mercificante di tale pratica, laddove si consideri che a poter essere donati sono sempre e solo gli oggetti, non certamente le persone, né, meno che mai, il loro corpo, ineludibilmente personale a sua volta: del resto, quale stima si potrebbe fare della vita di un essere umano degradata da soggetto a puro e muto oggetto del dono stesso? Il filosofo tedesco Jürgen Habermas basa il rifiuto della logica della disponibilità tout court del corpo proprio e/o altrui sull’idea di una non reversibilità delle relazioni umane, di un bio-paternalismo indotto e inaccettabile che alcune pratiche, come la programmazione genetica o, mutatis mutandis, la WBGD, inevitabilmente porterebbero con sé (34). La madre con il proprio corpo personale, con cui fa tutt’uno, come anche il figlio, non possono, in forza della dignità che è loro propria, appartenersi né cedersi ad alcuno, ma solo essere soggetti pienamente autonomi da qualsiasi altro, in forza della loro dignità personale, singolare, irripetibile e inalienabile proprio perché calati in una rete di relazioni significanti e plasmanti fin dalla nascita.
Note:
1) Il termine «ectogenesi» fu divulgato per la prima volta nel 1924 dallo scienziato inglese John Burdon Sanderson Haldane (1892-1964) per indicare modificazioni sociali e relazionali fra generi, nonché riferibili alle loro funzioni biologiche fino ad allora riconosciute. Con ectogenesi si intende il completo sviluppo del nuovo essere umano, dalla fecondazione di un ovocita, differenziazione e sviluppo embrio-fetale, fino alla nascita al di fuori di un grembo, in un ambiente artificiale che simula le condizioni di uno sviluppo materno. Può essere completa — andare cioè dal concepimento alla nascita — o parziale, per soli periodi più o meno lunghi dell’intera gestazione: soluzione, la prima, per tutte le condizioni di impossibilità anatomica e funzionale di impianto endometriale degli embrioni e del loro sviluppo all’interno di un utero, sostituendo di fatto legravidanze per altri come soluzione primaria. L’ectogenesi parziale rappresenta invece una opportunità per i neonati estremamente prematuri, che vedono così aumentare le possibilità di sopravvivenza e diminuire il rischio di gravi disabilità. Sul tema cfr. Lydia Di Stefano, Catherine Mills, Andrew Watkins e Dominic Wilkinson, Ectogestation ethics: The implications of artificially extending gestation for viability, newborn resuscitation and abortion, in Bioethics, vol. 34, n. 4, novembre 2019, pp. 371-384, nel sito web <https://www.researchgate.net/publication/337091649_Ectogestation_ethics_The_implications_of_artificially_extending_gestation_for_viability_newborn_resuscitation_and_abortion> (gli indirizzi internet dell’intero articolo sono stati consultati il 29-6-2023).
2) In questa fase sarebbe problematica la definizione dello status giuridico del nato. A riguardo si parla di fetal neonate o fetonate: «neonato», perché il soggetto viene espiantato dall’utero materno, ma allo stesso tempo «feto», proprio perché destinato all’utero artificiale, il cui scopo principale sarebbe quello di preservare la fisiologia fetale e di continuare lo sviluppo tentando di ricreare «l’ambiente materno». Sul tema, cfr. Felix R. De Bie et alii, Ethics Considerations Regarding Artificial Womb Technology for the Fetonate, in The American Journal of Bioethics, 2022, nel sito web <https://www.tandfonline.com/doi/full/10.1080/15265161.2022.2048738>. Cfr. anche Elselijn Kingma e Suki Finn, Neonatal incubator or artificial womb? Distinguishing ectogestation and ectogenesis using the metaphysics of pregnancy, in Bioethics, vol. 34, n. 4, aprile 2020, pp. 354-363.
3) Cfr. Anna Smajdor, Whole body gestational donation, in Theoretical Medicine and Bioethics, novembre 2022, nel sito web <https://doi.org/10.1007/s11017-022-09599-8>.
4) Rosalie Ber, Ethical Issues in gestational Surrogacy, ibid., aprile 2000, pp. 153-169, nel sito web <https://doi.org/10.1023/a:1009956218800>.
5) A. Smajdor, art. cit., p. 2; traduzione mia.
6) Ibid., pp. 3-4.
7) A. Smajdor, op. cit., p. 4.
8) Cfr. American Society for Reproductive Medicine, Recommendations for practices utilizing gestional carriers: a committee opinion, in Fertility and Sterility, vol. 103, n. 1, gennaio 2015, punto 4.d.i, nel sito web <https://pubmed.ncbi.nlm.nih.gov/25481637/>.
9) Cfr. Eric Blyth e Abigail Farrand, Reproductive Tourism. A Price Worth Paying for Reproductive Autonomy?, in Critical Social Policy, vol. 25, n. 1, febbraio 2005, pp. 91-114.
10) Per una discussione ampia sul tema della selezione embrionale, cfr. Mariacruz Díaz de Terán, Hijos a la carta, ¿un derecho?: problemas bioéticos y jurídicos de la selección de embriones in vitro, Instituto Martín de Azpilcueta, Pamplona (Spagna) 2004.
11) Così si esprime Ann Smajdor in proposito: «Pertanto, con una sorveglianza ravvicinata, è ragionevole pensare che — se i feti sono gravemente danneggiati da fattori imprevisti derivanti dalla gestazione con morte cerebrale — questo non deve comportare la nascita di quei bambini gravemente danneggiati. Piuttosto, ciò potrebbe comportare la chiusura del processo a discrezione dei genitori committenti. L’aborto, in particolare l’aborto tardivo, può essere traumatico per le donne in gestazione sia emotivamente che fisicamente. Tuttavia, nel caso di WBGD, la gestante è già morta e non può essere danneggiata. I genitori incaricati possono decidere l’aborto o la riduzione selettiva secondo i propri desideri, senza doversi preoccupare degli effetti sulla donatrice gestante» (A. Smajdor, op. cit., p. 8).
12) Cfr. The Fertility Institutes and United States Eggs Donor and Surrogate Pregnancy Center, Donor Egg Programm, 2013.
13) Cfr. American Society for Reproductive Medicine, Recommendations for practices utilizing gestional carriers: a committee opinion, cit., punto 2.VII.
14) Anne Donchin, Reproductive tourism and the quest for global justice, in Bioethics, vol. 24, n. 7, settembre 2010, pp. 323-332, nel sito web <https://core.ac.uk/reader/46961250>.
15) A. Smajdor, op. cit., p. 9.
16) Ibid., p. 4.
17) Il concetto di morte encefalica è preferito perché garantisce che siano state compromesse tanto le funzioni relazionali (legate alla corteccia cerebrale) quanto quelle organiche (connesse alle parti più profonde del cervello e al tronco encefalico), rispettando la vitalità unica dell’uomo; cosa che non si avrebbe considerando verificata la morte con la sola compromissione della corteccia cerebrale.
18) «Un individuo è considerato morto quando si sia verificata la perdita irreversibile di qualsiasi capacità di integrazione e coordinazione delle funzioni fisiche e mentali del corpo. La morte interviene quando: a) le funzioni cardiache e respiratorie spontanee sono irrimediabilmente cessate, oppure b) si è verificato l’arresto irreversibile di tutte le funzioni cerebrali» (Pontificia Accademia delle Scienze, Il prolungamento artificiale della vita e l’esatta determinazione del momento della morte, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1986, pp. 151).
19) Una differenza decisiva negli ordinamenti giuridici dei Paesi europei permette di distinguere fra quelli prevalentemente cattolici — come Italia, Spagna, Portogallo, Ungheria, Austria — dove opera il cosiddetto «modello di obiezione», che presume l’assenso del donatore, se questi non ha espresso in vita il suo dissenso per la disponibilità a donare. In altri Paesi, quali Germania, Danimarca, Grecia, Paesi Bassi, Gran Bretagna, Irlanda e Svizzera, vige invece per le donazioni post mortem il «modello del consenso», che permette il prelievo di tessuti o organi solo se la persona deceduta abbia espresso in vita il suo consenso. L’assenza di tale dichiarazione non autorizza il legislatore a presumerne il consenso. Quanto alla classifica europea dei Paesi dove maggior è la concentrazione di donatori, si vedano le pubblicazioni a cura del Centro Nazionale Trapianti nel sito web <https://www.trapianti.salute.gov.it/trapianti/archivioDatiCnt.jsp>.
20) A. Smajdor, op. cit., p. 7.
21) Questo assunto esprime in nuce il «principio di totalità», ossia la considerazione del corpo come «tutto unitario risultante di parti distinte e fra loro organicamente e gerarchicamente unificate dall’esistenza unica e personale» e la consapevolezza che «per salvare il tutto e la vita stessa del soggetto, si debba incidere […] su parte dell’organismo» (card. Elio Sgreccia (1928-2019), Manuale di bioetica, 2 voll., Vita e Pensiero, Milano 2007, vol. I, p. 225).
22) Congregazione per la Dottrina della Fede, Istruzione «Donum Vitae» sul rispetto della vita umana nascente e la dignità della procreazione, del 22-2-1987, n. 3.
23) «Occorre notare che eludere la richiesta di conoscere la verità implica una specifica forma di violenza: la violenza di chi, conoscendo la verità che concerne un’altra persona e potendo comunicargliela, si rifiuta di farlo, mantenendo nei suoi confronti un’indebita posizione di potere. Ulteriore rilievo ha questa argomentazione quando questo soggetto sia lo Stato: si deve ricordare il tema individuato da [Immanuel] Kant [1724-1804] del principio supremo del diritto pubblico, che non può che essere quello della pubblicità, dell’abolizione degli arcana imperii in qualsiasi forma. Lo Stato non ha il diritto e non dovrebbe mai avere il potere di precludere l’accesso alla verità non solo ai propri cittadini, ma a qualsiasi essere umano, in particolare quando questa verità ha per oggetto l’identità personale» (Comitato Nazionale di Bioetica, Conoscere le proprie origini biologiche nella procreazione medicalmente assistita eterologa, Parere del 25-11-2011, in Idem, Pareri 2011-2012, a cura del Presidenza del Consiglio dei Ministri-Dipartimento per l’Informazione e l’Editoria, Roma 2013, pp. 83-132 (p. 104), nel sito web <https://bioetica.governo.it/media/3432/8-pareri-2011-2012.pdf>.
24) E. Sgreccia, op. cit., vol. I, p. 840.
25) A. Smajdor, op. cit., p. 8.
26) Ibidem.
27) Ibid., p. 9.
28) Cfr. Martha A.[manda] Field, Surrogate Motherhood: The Legal and Human Issues, Harvard University Press, Cambridge (Massachusetts) 1990, pp. 28-30.
29) Sulla «dignità» come concetto fondamentale della bio-giuridica, cfr. Ana Marta González, La dignidad de la persona, presupuesto de la investigación científica, in Jesús Ballesteros e Ángela Aparisi Miralles (a cura di), Biotecnología, dignidad y derecho: bases para un diálogo, EUNSA, Pamplona (Spagna) 2004, pp. 17-42, nel sito web <https://www.academia.edu/67896944/La_dignidad_de_la_persona_presupuesto_de_la_investigaci%C3%B3n_cient%C3%ADfica>.
30) Cfr. Antonio Malo, Il corpo umano tra indisponibilità e autodeterminazione: un caso di giustizia asimmetrica, in Medic. Metodologia Didattica e Innovazione Clinica,nuova serie, anno XIX, 2011, pp. 10-14 (p. 12), nel sito web <https://www.academia.edu/8751442/Il_Corpo_Umano_fra_Indisponibilita_e_Autodeterminazione_Un_Caso_di_Giustizia_Asimmetrica>.
31) Cfr. Jennifer A. Park, Care Ethics and the global practice of Commercial Surrogacy, in Bioethics, anno XXIV, n. 7, 2010, pp. 333-340.
32) Cfr. Marcel Mauss (1872-1950), Saggio sul dono. Forma e motivo dello scambio nelle società arcaiche, trad. it., Einaudi, Torino 2002.
33) Cfr. Natalia López Moratalla, El cigoto de nuestra especies es cuerpo humano, in Persona y Bioética, anno XIV, n. 2, 2010, pp. 120-140 (p. 122).
34) Cfr. Jürgen Habermas, Il futuro della natura umana. I rischi di una genetica liberale, trad. it., Einaudi, Torino 2002.