Di Fausto Carioti da Libero del 10/03/2024
Il femminismo è una realtà complessa ed affogarlo nell’ideologia “queer”, per la quale l’identità sessuale è una variabile
culturale e non biologica, è un errore enorme. Per capirlo basta parlare con la scrittrice Marina Terragni, una “femminista
della differenza”, di quelle che nel mondo anglosassone chiamano “gender critical”, convinta cioè che la differenza tra
uomo e donna sia iscritta nel corpo e sia immutabile. E da questo presupposto, come stiamo per vedere, nascono idee
diversissime da quelle che si sentono gridare in piazza dalle «transfemministe» del movimento Non una di meno. Anche
perché Terragni ha il pregio della chiarezza. «Il 25 novembre e l’8 marzo», dice a Libero, «abbiamo visto per la prima volta
un femminismo escludente». Chi è stato escluso? «Le donne ebree non hanno potuto partecipare alle manifestazioni.
Questa è una cosa che la gran parte delle manifestanti, probabilmente, non ha nemmeno preso in considerazione,
ritenendo normale sfilare dietro le bandiere queer e pro Palestina». Quelle bandiere in cima ai cortei non stavano lì per
caso, qualcuno le ha portate. «È una scelta della leadership di questo movimento, che è frequentata anche da maschi
“antagonisti”. Il movimento è stato messo al servizio dei loro obiettivi politici. Questo dovrebbe dare da pensare a chi era in
piazza». Come fa un movimento Lgbt a preferire il modello patriarcale (eufemismo) e omofobo islamico a quello di Israele,
che in quell’area di mondo è l’unica oasi di libertà e diritti per le donne e gli omosessuali? «Le studentesse italiane
dovrebbero parlare di questo con le studentesse iraniane. Invece loro, come le ragazze afghane, sono sparite dai radar.
Quando la contraddizione tra i fatti e le idee è molto forte, i fatti non vengono più considerati». E come si spiega? «Si
spiega col fatto che oggi questo “femminismo”, e scriva la parola tra virgolette pur nel rispetto della sincerità delle ragazze
che vi partecipano, è pienamente parte del movimento woke e della sua vittimologia, che tiene insieme le donne, i disabili,
i queer, i trans, tutti considerati soggetti oppressi dall’eterosessismo maschile bianco occidentale. E Israele è considerato
la punta di diamante dell’Occidente bianco, colonialista, ricco e sfruttatore, a prescindere dal fatto che lì sia le donne sia le
persone trans, gay e queer godano di una sostanziale libertà». Libertà che qui nessuno sembra riconoscere. «No, proprio
perché contraddice il disegno vittimologico woke. Abbiamo visto perfino ragazze queer americane convertirsi all’islam e
leggere il Corano su TikTok. È un delirio, ma è reale». Come è reale l’aggressione subita alla Sapienza da Davide
Parenzo, al quale è stato impedito di parlare in quanto «sionista». «Ho apprezzato la reazione composta di Parenzo. È un
fatto gravissimo, ma in linea con tanti episodi del genere che si sono verificati nelle università americane. La censura a
Israele ricorda molto la censura alle docenti “gender critical”: ne ho subita una anch’io all’università Iuav di Venezia. Si
vuole imporre il bavaglio sia al “gender criticism” sia alle persone ebree, ritenuti parti dello stesso meccanismo di
oppressione. Io ho molti amici ebrei che stanno avendo problemi seri. Mi aspetto che prima o poi succeda qualcosa di
veramente brutto, perché il clima è terribile». Così terribile che la filosofa americana Judith Butler, che insegna a Berkeley,
dice che le violenze compiute da Hamas sulle donne e i civili israeliani sono state un atto di «resistenza armata». «Judith
Butler è l’inventrice dell’identità di genere. Fu un suo gioco filosofico, molto divertente, nel 1990, quando uscì il suo libro
Gender Trouble. Si rese subito conto, e lo disse, che quel testo le era sfuggito di mano, e provò a spostare l’asse delle sue
riflessioni teoriche. Ma la seconda Butler, quella che ragionava sull’11 settembre, sulle guerre eccetera, non ha avuto un
grande successo, quindi è tornata sulle sue posizioni iniziali, il cui assunto principale è che anche il sesso è un costrutto
del potere. Adesso, benché ebrea, si dichiara una “queer for Palestine”». Fa scuola anche in Italia: a ottobre l’università di
Bari le ha assegnato il dottorato honoris causa in «Gender Studies». «Io credo che sia una delle più terribili cattive
maestre in circolazione. Forse non ha inventato lei tutto quello che vediamo, ma ha “sistematizzato” l’aria che vedeva
intorno a sé, per trarne giovamento personale. La sua irresponsabilità mi sconvolge, perché è una donna di quasi 70 anni
e dovrebbe vedere i danni che sta procurando». Ci sono donne che si battono per garantire a uomini che si definiscono
donne, pur mantenendo i genitali maschili, il diritto di avere accesso a spogliatoi, carceri e strutture sanitarie femminili. «A
fare così sono alcune donne del collettivo transfemminista Non una di meno e alcune ragazzotte influencer che di questa
roba campano. Tutte le altre, probabilmente, non hanno contezza di ciò che sta succedendo. Quello delle ragazze è un
movimento vero, ma c’è chi ci sta mettendo un cappello sopra, ed è un cappello molto pericoloso». Viene rivendicato
anche il «diritto» alla maternità surrogata. «La cosiddetta “genitorialità” non è un diritto delle coppie omosessuali, e per
quanto mi riguarda nemmeno di quelle etero. Il diritto è uno solo, ed è quello del bambino che viene al mondo di essere
accolto. Aspetto come manna dal cielo la legge contro la maternità surrogata promessa dal governo. All’estero, il
movimento femminista che lotta contro il biotech riproduttivo ci guarda con attenzione e spera che quello italiano possa
essere un modello legislativo da imitare».