Salvarsi significa scampare a un pericolo imminente, ma nel caso specifico della Redenzione questa si riferisce al bisogno di ciascun uomo di essere riscattato da una condizione di sofferenza. Le cose che rendono l’uomo infelice sono universalmente: l’errore o la mancanza di significato, l’ingiustizia o il male morale, la sofferenza fisica e l’ineludibilità della morte. Ma, paradossalmente, ciò che rende l’uomo misero e bisognoso di salvezza è proprio la sua grandezza. La sua vocazione alla verità e l’insaziabile desiderio di conoscenza lo rendono misero quando cade nell’errore o vive nella mancanza di senso; l’amore per la giustizia e l’inclinazione al bene generano in lui indignazione per la sofferenza umana; la consapevolezza, del tutto umana, della bellezza della vita gli rendono assai più insopportabile, rispetto alle altre creature, il male fisico e la morte. In questa dialettica fra la miseria e la dignità dell’uomo si nasconde il significato profondo del mistero di Cristo Redentore, come unica via di salvezza per tutti gli uomini.
Per comprendere questa unicità e universalità è utile un confronto con alcune proposte mondane di salvezza presenti nel corso della storia. Secondo una certa opinione pessimistica, sempre latente nella storia, la miseria dell’uomo è invincibile e, dunque, ineliminabile. La verità è solo illusione, l’ingiustizia è destinata a regnare sovrana e la morte ha l’ultima parola. Non si mette in dubbio il desiderio di senso, di giustizia e di immortalità, così evidente in ogni uomo, ma si dispera della sua soddisfazione. Contraria a questa concezione si è imposta nella modernità un’altra idea di salvezza, che ha una diversa persuasione di partenza: l’uomo considerato in sé stesso è buono, giusto, non bisognoso di salvezza esterna, di un intervento soprannaturale. I padri dell’Illuminismo pensavano che l’uomo è naturalmente buono e per riscattarlo dalle sue miserie sarebbe bastato liberarlo dalle malefiche eredità del passato. Il progresso scientifico lo avrebbe salvato dal pericolo dell’errore e l’abbattimento dei residui feudali lo avrebbe sollevato dalla povertà. Figli di questa concezione illuminista sono stati il freudismo e il marxismo, che hanno proposto una liberazione dal basso.
Il primo guarda all’individuo e vede nel superamento dei tabù, quali il peccato, la liberazione dalle nevrosi che affliggono l’uomo. Il secondo guarda alla società e vede la salvezza nel raggiungimento di una meta comune a tutti gli uomini: la società comunista, che sconfiggerà le miserie umane derivanti da ogni tipo di diseguaglianza. Queste concezioni ottimistiche, razionalistiche, materialistiche ed ateistiche, oggi si incarnano nei progetti trans-umanisti e post-umanisti che hanno la pretesa di voler sconfiggere anche il più irriducibile dei mali: la morte. Ai nostri giorni le opinioni redentive dominanti però trovano il loro comune denominatore nel relativismo etico, che propone come via di salvezza l’autodeterminazione assoluta dell’uomo contro ogni forma di “condizionamento culturale”, primo fra tutti l’idea di natura e della differenza irriducibile fra maschio e femmina.
Nella rivelazione cristiana, invece, la salvezza non viene da una concezione filosofica, da una teoria etica, da una visione antropologica o da un progetto politico ma da una Persona, che vuole liberamente comunicare la sua stessa vita a tutti coloro che sanno farsi piccoli e si lasciano attrarre nel mistero della sua eterna misericordia. Non si può dunque non partire dalla fede; ma nessuno può legittimamente supporre che per credere si debba rinunciare alla ragione. Questa a sua volta non è un’astrazione ma un concretum che vive in un universo concreto; creato, pensato e voluto in Cristo Redentore. La ragione umana vive e opera in un mondo in cui vive ed opera il Verbo di Dio fatto uomo. In ogni cosa vi è un’eccedenza rispetto alla pura natura, eccedenza dovuta al fatto che ogni cosa porta in sé l’impronta di Cristo, Signore del cielo e della terra, per mezzo del quale tutte le cose sono state create. Anche l’uomo è elevato ab origine a un rango superiore rispetto alla pura condizione naturale e in più gode del privilegio di essere fatto a Sua immagine e somiglianza. Vi è dunque una sola alternativa per la ragione umana: corrispondere a questo universale disegno di salvezza per rimanere se stessa oppure rifiutarlo e autodistruggersi per non essere più adeguata alla realtà che la circonda. Né la fede può rinunciare alla ragione, se vuole restare un atto umano né la ragione può rinunciare alla luce della fede se vuole essere adeguata al rango cui è stata elevata. Non esiste un contrasto tra fede e ragione ma tra la ragione e se’ stessa. E questa è la radice del peccato nell’uomo.
Ma in che cosa consiste questo disegno di salvezza che coinvolge ciascuno, e ciascuno nella sua singolarità? Gli apostoli, che hanno vissuto al cospetto del Redentore, ci raccontano che il suo stesso nome significa “Dio salva”: «lo chiamerai Gesù» (Mt 1, 21). L’uomo Gesù non è uno fra, uno dei o uno come, ma «il Cristo, il figlio del Dio Vivente» (Mt 16, 16). La sua è primariamente una salvezza interiore, trascendente, cioè totalizzante: non mi libera da alcuni guai ma dalla insignificanza, dal peccato, dall’angoscia della morte. Ed è una salvezza per tutti, perché è semplicemente frutto della misericordia del Padre che lo ha mandato. La mia ragione, per meglio comprendere, domanda a coloro che hanno vissuto con Lui e ce lo fanno conoscere attraverso i loro scritti: quale fra le sue azioni è quella specifica attraverso la quale mi ha redento? La risposta usuale: è la sua passione, la sua morte in croce e la sua risurrezione. Tuttavia, benché l’’evento pasquale rimane il centro e il culmine del disegno salvifico la Chiesa apostolica sembra voglia testimoniarci qualcosa in più riguardo alla Persona del Salvatore. Le guarigioni operate da Gesù, per esempio, non sono narrate come manifestazioni di un potere magico volto a stupirci con effetti speciali, ma sono segni eloquenti della sua azione salvifica, che già prima della morte in croce produce i suoi benefici nel corpo e soprattutto nell’anima di chi la riceve. Sconvolgente in tal senso è la guarigione dell’indemoniato della regione dei Gerasani (cfr. Mc 5, 1-20). Costui appare come l’immagine dell’uomo abbrutito e sfigurato dal male che lo possiede: è nudo, si aggira tra i sepolcri, urla come un ossesso, si percuote, è escluso dalla città che cerca di isolarlo con delle catene. Gesù, lasciando stupefatti gli spettatori, lo avvicina, lo calma, lo libera, lo reintegra in tutte le sue facoltà, lo restituisce ai suoi e fa di lui un testimone di redenzione. Anche le parole di Gesù sono salvifiche e lasciano stupiti gli ascoltatori: non sono solo insegnamenti dottrinali o precetti morali, ma sono prima di tutto «parole di vita eterna» (Gv 6, 68). Il suo stesso esistere, prima ancora delle sue parole e dei suoi gesti, porta salvezza: «i miei occhi hanno visto la tua salvezza» (Lc 2, 30), canta il giusto Simeone alla sola vista del bambino. Tutto in lui è vita e risurrezione. Ciò non ostante, per la mia ragione, il mistero si infittisce e in modo affascinante genera un interrogativo esistenziale ancora più profondo: che cosa rende la Persona di Cristo, nella sua presenza, nelle sue parole e nei sui gesti, redentiva? Che cosa vuol dire che mi salva? La teologia dei padri della Chiesa ispirata dagli scritti apostoli ci viene in soccorso e ci presenta la Redenzione come un’opera di ristabilimento della giustizia violata. Con la sua disobbedienza l’uomo si è allontanato dalla volontà di Dio Padre che lo ha creato a sua immagine e somiglianza ed è diventato non giusto, nel senso ontologico di “inadeguato” alla realtà cui è stato chiamato dall’Eternità. L’obbedienza di Cristo fino alla morte di croce è l’unica maniera con la quale si può ripagare tale disobbedienza. È il principio della “soddisfazione vicaria”: se il peccato è il mistero della trasgressione e della conseguente rovina dell’uomo che gli ha procurato la rottura dei legami con Dio, con il creato e con sé stesso, la Redenzione è perché l’umanità ritorni giusta, adeguata alla volontà di Dio grazie al prezzo pagato da quell’uomo, Gesù di Nazaret, nato da Maria, che invece si è fatto obbediente fino alla morte e alla morte di croce. Questa giustificazione, però, non distrugge il principio fondamentale della giustizia: chi si farà conforme all’obbedienza di Cristo sarà integrato nella stessa vita trinitaria, chi invece sceglierà di rimanere nella disobbedienza si condannerà da solo alla propria disintegrazione. In questa prospettiva il paradiso e l’inferno esprimono le due condizioni, di felicità il primo, di dannazione il secondo, che l’atto di Redenzione rivela a colui che vuole prendere sul serio la sua salvezza. Ma giunti a questo punto si affaccia, in tutta la sua drammaticità per me e per ogni uomo, la più urgente delle domande riguardo al mistero della Redenzione: perché ciò che fa Cristo produce effetti reali su di me, restituendomi quella dignità di immagine e somiglianza di Dio che il peccato di Adamo mi avrebbe negato? Il principio della “soddisfazione vicaria” che ha dominato in Occidente per tanti secoli trova non poche difficoltà nel dare una risposta a questa domanda, la più insidiosa delle quali agli occhi dell’uomo di oggi è certamente questa: come può essere soddisfatto da una persona un male morale, come la disobbedienza, compiuto da un altro? Il Catechismo della Chiesa Cattolica, a proposito della missione redentiva di Cristo, afferma al n. 257: «Dio liberamente vuol comunicare la gloria della sua vita beata. Tale è il disegno della sua benevolenza, disegno che ha concepito prima della creazione del mondo nel suo Figlio diletto, “[…] predestinandoci ad essere conformi all’immagine del Figlio suo” (Rm 8,29), in forza dello “Spirito da figli adottivi” (Rm 8,15). Questo progetto è una “grazia che ci è stata data […] fin dall’eternità” (2 Tm 1,9-10) e che ha come sorgente l’amore trinitario». Alla luce di questo insegnamento appaiono opportune, riguardo all’efficacia redentiva dell’azione di Cristo, le parole di una voce autorevole come quelle del cardinale Giacomo Biffi (1928-2015): «ci deve essere un vincolo che sia premessa, condizione previa, ragione determinante, per la quale il sacrificio di Cristo possa essere veramente redentivo per noi. Un vincolo che non sopraggiunga all’umanità in qualche momento della sua storia, magari dopo la morte in croce di Cristo, ma che sussista già dal principio, all’alba di tutto, all’origine stessa dell’Universo. Il mistero della redenzione operata per noi da Gesù di Nazareth, crocifisso e risorto, include necessariamente e afferma implicitamente l’esistenza di una nativa ed indistruttibile solidarietà che trova la sua sorgente nell’atto di predestinazione con cui Dio dall’eternità ha pensato e voluto Cristo come il principio, il modello, il fine di tutti gli uomini che di fatto esistono. […] Il peccato sopravvenendo non arriva a scompaginare la sostanza del disegno di Dio, anzi in qualche modo lo conferma e lo invera. Perché il Figlio di Dio non si dissocia dai suoi fratelli divenuti colpevoli, ma restando il capo sano di un organismo malato si fa per l’umanità sorgente di risanamento e di vita nuova». Eterna è la sua Misericordia.
(16-4-2024)
Per approfondire
Le operazioni divine e le missioni trinitarie, in Catechismo della Chiesa Cattolica,n. 257; quindi, sinteticamente, san Giovanni Paolo II, Enciclica “Redemptor hominis”,del 1978; Idem, Esortazione apostolica post-sinodale “Reconciliatio et paenitentia” circa la riconciliazione e la penitenza nella missione della Chiesa oggi, del 1984; Congregazione per la Dottrina della Fede, Dichiarazione “Dominus Iesus”, circa l’unicità e l’universalità salvifica di Cristo e della Chiesa, del 2000; e card. Giacomo Biffi, La Chiesa Cattolica e il problema della salvezza,Elle di ci, Leumann (Torino) 2015; di lui anche Lezioni sulla Chiesa. L’ enigma dell’esistenza e l’avvenimento cristiano (2004-2005),nel sito web dell’Accademia del Redentore di Bologna; infine, Gustave Thibon (1903-2001), Ritorno al reale. Prime diagnosi in tema di fisiologia sociale, Effedieffe, Milano 1998.
Giovedì, 18 aprile 2024