Marco Invernizzi, Cristianità n. 424 (2023)
Relazione, rivista e annotata, al convegno su Conservatori del Futuro. Che cosa conservare, come ricostruire, organizzato da Alleanza Cattolica a Napoli il 21 ottobre 2023. Cfr. la cronaca in Cristianità, anno LI, n. 423, settembre-ottobre 2023, pp. 45-48.
Il punto di partenza di questo convegno e di altre iniziative per lanciare in Italia un modo di guardare la realtà che si possa riconoscere nel pensiero conservatore è la novità rappresentata dalle dichiarazioni di Giorgia Meloni, presidente del primo partito d’Italia e del primo governo che si sono autodefiniti conservatori. La presidente del Consiglio, che dal 2020 presiede anche il Partito dei Conservatori e dei Riformisti Europei, ha più volte richiamato la volontà di costituire un partito conservatore e dal successo di Fratelli d’Italia è nato un governo che può essere definito con buona approssimazione conservatore.
In Italia non era mai accaduto. Non solo, ma in Italia, con pochissime eccezioni, non vi è mai stato un movimento culturale organizzato di qualche rilievo che si richiamasse esplicitamente al pensiero conservatore.
Eppure, il pensiero conservatore esiste, ha una storia e non può essere confinato al mondo anglosassone, dove peraltro ha avuto sì una fortuna politica, ma ha anche, e soprattutto, inciso sulla cultura di quei popoli.
Il conservatorismo nasce nella storia, attorno a figure precise e soprattutto a un evento storico che, come vedremo, segna un’epoca della storia: la Rivoluzione francese (1). Si potrebbe forse ragionare sul fatto che un uomo è naturalmente conservatore, almeno se segue la sua ragione, anzitutto perché riconosce di avere ricevuto in dono tante cose che non si è dato da solo, a partire dalla vita, che normalmente ciascuno ama e desidera conservare. Ma altri esploreranno questo ambito — possiamo dire antropologico —, peraltro assolutamente importante.
Il 1789
A me oggi preme abbozzare una riflessione sul fatto che il conservatorismo nasce dopo gli avvenimenti del 1789, ma in Italia per oltre due secoli sembra non riuscire a prendere corpo.
Il 1789 è un anno epocale perché segna l’inizio di una rivoluzione come non ve n’erano mai state fino ad allora, che dalla Francia si estenderà a tutta l’Europa, un moto che sembra assomigliare a quello precedente di pochi anni avvenuto nei futuri Stati Uniti d’America, ma in realtà assai diverso (2).
Il primo a rendersi conto della portata epocale della Rivoluzione francese fu un inglese, Edmund Burke (1729-1797), nato per la verità a Dublino. Burke, considerato il primo conservatore e il «padre» del conservatorismo, era in realtà quello che oggi definiremmo un liberale. Era infatti un deputato del partito whig, per quanto i partiti nel Settecento non avessero caratteristiche ideologiche così marcate come quelle che assumeranno dopo il 1789, anche in Inghilterra.
Burke non era in contatto, almeno in un primo momento, con gli «emigrati», cioè con i francesi espatriati per non finire ghigliottinati. Le sue Riflessioni sulla Rivoluzione francese (3), scritte nel 1790, susciteranno un grande scalpore e saranno definite «il manifesto di una controrivoluzione» (4), dividendo con un taglio netto lo stesso partito whig. Infatti, proprio in seguito al suo giudizio sul 1789, definito come una rivoluzione epocale mirante a sovvertire le radici dell’ordine sul quale aveva sempre poggiato la Francia, figlia primogenita della Chiesa e culla del Sacro Romano Impero, in Inghilterra il partito whig si dividerà in due tronconi, uno dei quali, i cosiddetti old whig, sarà la base da cui nascerà il partito conservatore britannico. Il libro susciterà «in Inghilterra un dibattito ideologico di proporzioni fino ad allora mai viste» (5), provocando la pubblicazione di ben seicento pamphlet, quasi tutti contrari a Burke (6). Immediatamente il testo venne tradotto in francese e se ne stamparono dieci edizioni prima che l’editore fosse costretto a scappare dal Paese (7). Tuttavia, secondo lo storico Jacques Godechot (1907-1989), nonostante la grande diffusione, non si trovarono in Francia estimatori del testo di Burke, se non dopo la Restaurazione del 1815 (8). E, dopo Burke, anche Joseph de Maistre (1753-1821) attribuirà al 1789 caratteri epocali (9): ma ne riferirò in altra occasione.
In Italia
La prima edizione italiana dell’opera di Burke fu stampata nella Repubblica di Venezia nel 1791, ma non ebbe un grande successo. Essa «non riuscì a trovare le vie dei circuiti politico-culturali più qualificati e si diffuse solo fra legulei e abati di provincia oltre a essere sottoposta a contraffazioni e mistificazioni» (10). Già questa cattiva accoglienza del testo che faceva discutere l’Inghilterra e veniva proibito in Francia aiuta a capire i motivi del perché il conservatorismo non abbia avuto grande eco nel nostro Paese per tutto l’Ottocento. Burke muore nel 1797, il suo pensiero ha un impatto enorme in Inghilterra e nei neonati Stati Uniti, anche per la sua difesa dei diritti dei coloni americani così come di quelli degli indiani, penetra in Francia grazie alla scuola contro-rivoluzionaria, ma da noi non ha il minimo impatto, salvo, come detto, qualche raro richiamo da parte di Antonio Capece Minutolo, principe di Canosa (1768-1838), di Vincenzo Cuoco (1770-1823) e forse di Vittorio Alfieri (1749-1803), ma anonimamente. Lo studierà e lo riprenderà, seppure a suo modo, cioè, secondo Zapperi, «tagliando» alcune parti non corrispondenti al suo «rigidismo» contro-rivoluzionario, Giovanni Marchetti (1753-1829), un sacerdote di Empoli, direttore del Giornale ecclesiastico di Roma, un periodico anti-giansenista, che combatterà fin dall’inizio le tesi rivoluzionarie importate dalla Francia (11). Zapperi però, per spiegare la mancata recezione di Burke in Italia, avanza un’altra tesi: «La verità è che l’Italia era il paese europeo meno sensibile al richiamo dell’antico costituzionalismo che svolgeva ancora un ruolo politico, ma di respiro grettamente locale, solo in qualche regione periferica, come la Sicilia e la Sardegna. L’eredità del costituzionalismo dell’Europa medioevale era stata scardinata dall’azione corrosiva della Ragion di Stato che, cattolicizzata e controriformata nei secoli XVI e XVII, era approdata alla concezione ufficiale dell’assolutismo di diritto divino ancora vigente nel Settecento. In una situazione storica caratterizzata essenzialmente dal dibattito sulle riforme che solo i governi assoluti, illuminati o no, potevano realizzare, la posizione di Burke, irretita nelle maglie di un’esausta tradizione antiassolutistica, era destinata a scontrarsi nell’ostilità o nell’indifferenza degli ambienti italiani. Quando poi nell’ultimo decennio del secolo la ventata rivoluzionaria provocò i primi fermenti costituzionali, la tradizione giusnaturalistica offrì, così ai moderati come ai democratici, una piattaforma che escludeva ogni confronto con l’ideologia di Burke. L’assenza pressoché totale della sua opera dal quadro della cultura politica dell’Ottocento sottolinea e ribadisce un atteggiamento di sostanziale indifferenza che la simpatia di un Principe di Canosa non poteva certamente modificare» (12). Si tratta di una tesi probabilmente corretta, che spiega il distacco creatosi nei regimi dell’assolutismo rispetto a quelle forme di partecipazione al potere che avevano caratterizzato la società medioevale e che il costituzionalismo in qualche modo esprimeva. E pare questa una ipotesi da approfondire.
Le insorgenze
Eppure, dopo il 1789 in Italia i conservatori non mancano, ma non trovano classi dirigenti né intellettuali, né politiche. Come definire se non conservatori quegli «insorgenti» che si ribellano contro Napoleone Bonaparte (1769-1821)?
Napoleone ha provocato in Italia un cataclisma che fra il 1796 e il 1814 ha scatenato ovunque centinaia di insurrezioni popolari con decine di migliaia di vittime. Eppure, il côrso in Italia è stato costantemente celebrato come un liberatore, gli sono state intitolati monumenti, strade, piazze e palazzi, mentre nel contempo sono stati accuratamente coperti dal silenzio i suoi numerosi furti e le devastazioni del patrimonio artistico, laico ed ecclesiastico del Bel Paese (13). Altrove in Europa non è andata allo stesso modo. In Spagna la resistenza popolare contro Napoleone non è stata tenuta nascosta ai posteri, come invece è avvenuto con le insorgenze italiane, e un importante leader insorgente, Andreas Hofer (1767-1810), è ancora oggi l’eroe nazionale del Tirolo, anche di quello italiano, per fare soltanto due esempi.
Conservatori o contro-rivoluzionari, come li si voglia chiamare, le decine di migliaia d’insorgenti erano italiani che difendevano la patria custodendone — conservandone — le radici e la memoria. Ciononostante, essi non hanno mai avuto l’attenzione né l’affetto che pure avrebbero meritato, tanto dall’Italia liberale, tanto da quella fascista e da quella democristiana.
Il Risorgimento
La memoria occultata dell’Insorgenza rivela anch’essa come il grande problema dell’Italia contemporanea, quanto alla percezione di sé stessa, sia il Risorgimento. Lo dico senza alcuna nostalgia per gli Stati preunitari in quanto tali, perché la storia non torna sui suoi passi e l’unificazione stava diventando necessaria per garantire uno Stato all’altezza delle sfide di quel tempo. L’unità, seppur necessaria, non doveva essere imposta con la forza, contro il diritto internazionale, contro le radici stesse della storia italiana. Il Risorgimento è stata una Rivoluzione, la Rivoluzione «italiana». Sebbene più moderata e graduale rispetto a quella francese — e soprattutto nascosta dietro il paravento dell’unità e della lotta contro lo straniero — è stata una rivoluzione vero nomine. Se siamo onesti non possiamo avere seri dubbi su chi fosse più italiano fra il re di Napoli, Francesco II di Borbone (1836-1894), sovrano delle Due Sicilie, il «Franceschiello» messo alla berlina dai liberali e dai nazionalisti, che parlava in dialetto ai suoi sudditi, e quello di Torino, Vittorio Emanuele II di Savoia (1820-1878), che usava abitualmente il francese.
Il Risorgimento — la Rivoluzione italiana — è un argomento delicato, che tocca emozioni che hanno a che fare con l’amore di patria e che in un mondo tendenzialmente globalista e anti-identitario come il nostro devono essere rispettate. Tuttavia, fu indubbiamente il frutto di una conquista e dell’imposizione di un’ideologia che brandiva le idee di nazione e di libertà contro la Chiesa e le radici cristiane dell’Italia. Per decenni, dopo la nascita del Regno d’Italia nel 1861 e soprattutto dopo l’aggressione militare del 1870 allo Stato della Chiesa, i conservatori coincisero grosso modo con i cattolici detti «intransigenti», quelli che non dimenticavano il sopruso di Porta Pia e si organizzarono nell’Opera dei Congressi (14). Erano conservatori non perché volessero tornare agli Stati preunitari — anzi, avranno dei conflitti interni in questo senso soprattutto nel Meridione — e neppure perché volevano il Papa-Re, ma perché avevano colto la portata epocale di quella Rivoluzione, che era politica ma soprattutto a lungo andare antropologica, perché avrebbe spinto gli uomini ancora cristiani del tempo ad adottare modelli ideologici portatori di tragedie, come poi puntualmente accadde.
I cattolici conservatori hanno fatto tanto per l’Italia organizzando un tessuto sociale costituito da banche, società di mutuo soccorso e operaie, leghe contadine, tutte realtà costituite intorno alle parrocchie. Tuttavia, le istanze conservatrici del popolo e di buona parte delle élite non trovarono uno sbocco politico, se non al tempo del cosiddetto Patto Gentiloni, stipulato fra l’Unione Elettorale Cattolica Italiana (UECI) (15) e il governo giolittiano, che nelle elezioni del 1913, le prime a suffragio elettorale universale maschile, portarono in Parlamento 228 deputati eletti col voto determinante dei cattolici. Ma stava per scoppiare la Prima Guerra Mondiale (1914-1918), che avrebbe cambiato completamente il contesto nazionale e internazionale.
La Grande Guerra
La Grande Guerra modificò le relazioni fra gli uomini altrettanto profondamente di quanto fece nell’assetto politico. Una società ancora contadina e religiosa conobbe grandi trasformazioni dopo i tre anni di guerra che i giovani erano stati costretti a vivere nelle trincee, per combattere e — per centinaia di migliaia fra loro — morire in un conflitto del quale avevano compreso poco o nulla.
La cosiddetta «nazionalizzazione delle masse» (16) e la penetrazione sempre più capillare delle ideologie nel corpo sociale avvennero durante e in conseguenza della guerra. Anche in questo travagliato frangente i conservatori c’erano, ma erano costretti a fare riferimento a forze politiche esplicitamente non conservatrici, come il Partito Popolare Italiano di don Luigi Sturzo (1871-1959) o il movimento fascista di Benito Mussolini (1883-1945), entrambi nati nel 1919.
Nella nuova fase della storia nazionale i conservatori c’erano anche questa volta, erano forse la maggioranza degli italiani, ma non c’era neppure una forza politica conservatrice né un progetto culturale che si richiamasse ai valori del conservatorismo. Né Burke, né la scuola di Joseph de Maistre e Louis de Bonald (1754-1840), né le insorgenze contro Napoleone erano riuscite a entrare nel sentire comune della classe dirigente della nazione italiana, che andava in altre direzioni, prima verso l’alternanza fra «Destra storica» e sinistra liberale, quindi, dopo la Grande Guerra, verso il fascismo.
Il fascismo e i conservatori
Il fascismo era nato dal coagulo — un «fascio» — di ideologie diverse, tenute insieme dal carisma del Duce: fra i suoi sostenitori negli anni Venti del secolo scorso si trovarono anche dei conservatori. Essi però non ebbero un ruolo significativo nel nuovo regime, se non nella consapevolezza di Mussolini di dover mantenere alleati al regime le due istituzioni e i due ambienti più riconducibili al conservatorismo, la monarchia e la Chiesa. Così fece e questa alleanza garantì al Regime un consenso popolare significativo, almeno fino all’introduzione delle «leggi razziali» nel 1938 e, poco dopo, l’ingresso in guerra a fianco della Germania di Adolf Hitler (1889-1945) nel 1940. In queste circostanze, il patto con il mondo cattolico e conservatore si ruppe e il fascismo tornò alle origini, cioè a quando, nel 1919, era un movimento politico di minoranza, nazionalista, anti-clericale e socialisteggiante.
La DC e i conservatori
Dopo la fine della guerra e, per il Nord, della guerra civile — una delle ferite più profonde e difficili da guarire nella storia nazionale —, molti conservatori diedero il loro voto alla Democrazia Cristiana. Quest’ultima, però, non riprese temi e contenuti dell’«opposizione cattolica» svolta dall’Opera dei Congressi per trent’anni, perché avrebbe potuto pregiudicare la sua permanenza al vertice politico del Paese. Così l’ascesa al governo di un partito «d’ispirazione cristiana», suggellato dalla straordinaria vittoria elettorale del 18 aprile 1948 (17), non comportò alcuna revisione storica: i padri della patria rimasero quelli che l’avevano scristianizzata. Fra l’Italia liberale, quella fascista e quella democratico-cristiana, dal punto di vista della lettura storica del passato nazionale, non vi è stata una grande differenza: Giuseppe Mazzini (1805-1872) e Giuseppe Garibaldi (1807-1882), Vittorio Emanuele II e Camillo Benso di Cavour (1810-1861); per gli insorgenti e i «vinti del Risorgimento», invece, non c’era posto nel pantheon nazionale.
Il mondo stava però cambiando velocemente e l’Italia diventava sempre più marginale davanti ai due grandi «imperi» che si contendevano la guida del mondo durante la Guerra Fredda (1947-1989), continuando comunque ad essere guidata da un partito che godeva dei voti di buona parte dei conservatori.
Mentre la DC si preoccupava della titolarità del potere, rimanendo al governo del Paese ininterrottamente dal 1945 al tracollo del partito e del sistema politico consociativo detto della Prima Repubblica dopo la rimozione del Muro di Berlino, nel novembre del 1989, e dopo la vicenda giudiziaria detta di «Mani Pulite», negli anni 1990, la cultura, la scuola, l’università, l’editoria, cioè tutti i luoghi della vita pubblica che contribuivano alla formazione del senso comune, erano invece lasciati alla gestione da parte delle altre forze politico-ideologiche, con una egemonia della cultura marxista e di sinistra. Nell’epoca del boom economico tutto l’Occidente cambiò profondamente, subendo quasi senza reagire un processo di scristianizzazione e di inquinamento della cultura sociale che ne minava le fondamenta antropologiche. Questo processo di secolarizzazione profonda si manifesterà soprattutto negli anni 1960 e in Italia prenderà il nome dall’anno in cui esplose contemporaneamente nelle principali città europee, a seguito del cosiddetto «maggio francese»: il Sessantotto.
La battaglia che i conservatori avrebbero dovuto combattere doveva allora essere anzitutto culturale, perché ci si trovava di fronte a una rivoluzione proprio nella cultura, il cui obiettivo era non tanto o non più la conquista del potere, ma la trasformazione del modo di pensare e di agire degli uomini. Il fronte conservatore cercò di organizzare una resistenza, soprattutto in occasione dei due referendum indetti per abrogare le leggi sul divorzio e sull’aborto procurato, ma non venne adeguatamente supportato dal mondo cattolico nella sua totalità, né dai partiti non progressisti.
La Chiesa in queste occasioni subì un grave e profondo attacco anche dall’interno, che si manifestò, proprio nel 1968, nel rifiuto, da parte di componenti significative del mondo cattolico, dell’enciclica Humanae vitae di san Paolo VI (1963-1978), che rappresentò una coraggiosa e fedele risposta cattolica alla rivoluzione antropologica, che si esprimeva anche e soprattutto sul piano della morale sessuale. Pochi anni dopo, nel 1974, in occasione del referendum contro il divorzio, molti uomini politici e intellettuali di area cattolica gettarono le basi per superare la stessa DC, alleandosi con il Partito Comunista Italiano (PCI). Costoro dettero vita al «compromesso storico» fra mondo cattolico e mondo comunista e ai governi di «solidarietà nazionale», nati fra il 1976 e il 1979.
Il 1989
Il mondo però stava per cambiare ancora. La spinta propulsiva della rivoluzione comunista, come ebbe a dire il segretario del PCI Enrico Berlinguer (1922-1984), si era ormai esaurita. Il partito comunista più grande dell’Occidente si trovava «in mezzo al guado»: Mosca non aveva futuro perché la sua ideologia non seduceva più, inoltre il compromesso per andare al governo con la DC rischiava di snaturare il partito comunista privandolo della sua supposta «diversità morale». Così i comunisti si auto-isolarono, lasciando andare alla guida del governo un partito socialista guidato da Benedetto «Bettino» Craxi (1934-2000), finalmente non più succube del PCI, in una situazione internazionale fortemente mutata con le leadership della conservatrice Margaret Thatcher (1925-2013) nel Regno Unito e del conservatore Ronald Reagan (1911-2004) negli Stati Uniti d’America. Il comunismo in Europa si esaurì veramente nel 1989 con l’abbattimento del Muro di Berlino e con la fine dell’Unione Sovietica, due anni dopo.
L’alleanza di centro-destra
E i conservatori? In Italia continuavano a esistere, ridotti di numero in seguito all’avanzata delle sinistre e sempre in cerca di una rappresentanza politica coerente con le loro istanze. Ma erano poco attenti alla «questione antropologica» che era scoppiata e, a partire dagli anni 1980 — ma già in occasione dei referendum citati —, stava diventando sempre più centrale. Con la fine della DC questa parte dell’elettorato era alla ricerca di un riferimento politico che evitasse che gli ex comunisti, passati indenni, unici fra i partiti, da Mani Pulite, andassero al governo. I comunisti, diventati nel frattempo Partito Democratico della Sinistra, in occasione delle elezioni del 1994 con un sistema elettorale non più soltanto proporzionale, si presentavano come la «gioiosa macchina da guerra» preconizzata dal segretario Achille Occhetto, ovvero come un partito socialdemocratico rinnovato nell’ideologia che lo faceva assomigliare sempre più a un «partito radicale di massa» (18).
Nel 1994, mezzo secolo circa dopo il 18 aprile 1948, si verificò un altro «miracolo» politico conservatore: un miracolo «muto» ma reale. Ne fu artefice un imprenditore di successo, Silvio Berlusconi (1936-2023), esponente di quella critica della politica democratica detta «anti-politica», che si situava nel solco dell’effimero partito dell’Uomo Qualunque creato dal commediografo Guglielmo Giannini (1891-1960) nel secondo dopoguerra. Silvio Berlusconi diede vita a una federazione politica di partiti nuovi o vecchi ma ristrutturati, certamente conservatori, ma preferì l’espressione «moderati», meno impegnativa e meno «politicamente scorretta».
Le vicende culturali della destra politica
Uno dei gesti più clamorosi e significativi di Berlusconi fu quando, prima ancora della nascita di Forza Italia, in occasione delle elezioni per il sindaco di Roma nel 1993, disse pubblicamente che se fosse stato un cittadino romano avrebbe votato per Gianfranco Fini, l’allora segretario del Movimento Sociale Italiano-Destra Nazionale MSI-DN. Era la ricomposizione del fronte conservatore, quello che avrebbe dovuto contrassegnare la cosiddetta «operazione Sturzo» nel 1952, un’alleanza fra tutti i partiti anti-comunisti alle elezioni comunali di Roma, che però non andò in porto per il rifiuto della DC di parteciparvi. Si trattava di mettere insieme tutte le destre e unirle ai cosiddetti «centristi» per costituire quell’alleanza di centro-destra che da lì a poco avrebbe trionfato nelle elezioni politiche del 1994, unendo il vecchio MSI-DN in procinto di diventare Alleanza Nazionale (AN), con la Lega Nord di Umberto Bossi, la neonata Forza Italia berlusconiana e il Centro Cristiano Democratico, nato dalla prima scissione da destra nella storia della DC.
Nella destra, nei decenni precedenti, vi erano state diverse novità. Fini era il segretario di un partito post-fascista, AN, che stava cercando di assomigliare sempre più a un partito nazional-conservatore. Elementi di conservatorismo erano stati sempre presenti all’interno del MSI fin dalle origini, ma il legame con il fascismo era, e rimase per decenni, il vero collante del partito. «Uscire dal tunnel del fascismo», lo slogan dei giovani missini degli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso, non era assolutamente facile, non solo per la vecchia guardia che nel fascismo era cresciuta e a cui aveva creduto, ma anche perché il neo-fascismo creava una facile identità, anche se evidentemente ristretta e senza futuro. All’interno del MSI si erano ripresentate le stesse contraddizioni presenti nel fascismo: vi erano sì dei conservatori, ma non avevano una vera e propria influenza, né molte speranze di modificare a breve le cose. Come sempre c’era bisogno di tempo per portare a compimento il «lungo viaggio» verso il partito conservatore cominciato negli anni 1970 con l’introduzione del termine «Destra Nazionale», voluto dal segretario Giorgio Almirante (1914-1988) accanto a «MSI», e con la conseguente fondazione di una Costituente di Destra che si avvalse del contributo di intellettuali e di politici provenienti da altre sponde ideali. Soprattutto, cominciarono a essere letti all’interno del mondo di destra, soprattutto nei gruppi giovanili, autori non riconducibili al fascismo, ma espressione di un conservatorismo autentico, come Gustave Thibon (1903-2001) e alcuni autori pubblicati dalla casa editrice dell’ingegner Giovanni Volpe (1906-1984).
Nacquero così molte esperienze culturali diverse e contraddittorie, dai «campi hobbit» alle riviste — di diversa caratura e destinazione — Diorama e La voce della fogna, Intervento e La Destra, Percorsi, nonché i libri pubblicati dalla Rusconi sotto la direzione di Alfredo Cattabiani (1937-2003), la musica «alternativa», la letteratura, in cui ebbero un ruolo fondamentale Il Signore degli anelli di John R. R. Tolkien (1892-1973) o La storia infinita di Michael Ende (1929-1995). Erano correnti culturali che favorivano dibattiti — certamente carsici, quasi clandestini, anche per la mancanza di agibilità politica nelle scuole e nelle università, soprattutto nel Nord — che coinvolsero decine di migliaia di giovani che sarebbero diventati adulti.
È difficile dire quanto sia stata la cultura a influenzare le scelte politiche oppure quanto le circostanze politiche abbiano indicato la via a Fini e ai suoi amici per dare vita a un partito che sempre più assomigliava a un partito conservatore. Di fatto però le tesi di AN alla Conferenza Programmatica di Verona, nel 1998, vanno nitidamente in quella direzione.
Tuttavia, la storia è davvero complessa e imprevedibile. Negli anni successivi AN, un po’ a malincuore, si scioglie nel Popolo delle Libertà, il partito unico del centro-destra ideato e guidato dal Cavaliere, il quale però non supera la crisi del IV governo Berlusconi nel 2011, una crisi sostanzialmente imposta dall’Europa. Un anno prima Fini aveva lasciato il Popolo delle Libertà, fondando un suo partito, Futuro e Libertà per l’Italia, che non avrà però nessun futuro, raccogliendo alle elezioni politiche del 2013 solo lo 0,47% dei votanti.
L’alleanza «dei moderati» — o dei conservatori — allora implode, Berlusconi torna a Forza Italia, Fini imbocca sempre più decisamente la strada di una destra laicista, di cui aveva anticipato le caratteristiche esprimendosi a favore della fecondazione assistita in uno dei quesiti del referendum sulla legge n. 40 del 2005. È un momento di grande confusione, forse perché l’opinione pubblica raccolta da Berlusconi è «troppo vasta e indifferenziata per racchiuderla in un’etichetta» (19). Vi sono state le persecuzioni giudiziarie, le pressioni europee, le «debolezze» personali e il logorio del tempo dopo dieci anni di governo e altrettanti di opposizione, sì che alla fine la macchina si inceppa. Gli elettori conservatori rimasero numerosi anche in questa circostanza, ma l’involucro politico che li aveva ospitati dal 1994 sembrò implodere, almeno momentaneamente.
Fratelli d’Italia
Proprio nel momento della massima confusione nasce però un nuovo partito: si chiama Fratelli d’Italia ed è fondato nel 2012 da Guido Crosetto, Ignazio La Russa e Giorgia Meloni. Nella confusione regnante a destra in quel periodo avrebbe potuto facilmente nascere un partito estremista, nostalgico, che facesse appello ai valori traditi da decenni di convivenza con liberali, democristiani, moderati di ogni risma. Invece non sarà così. Nasce un piccolo partito, che per anni rimarrà tale, ma che esprime in qualche modo, dentro una cornice culturale alquanto nazionalista, alcuni dei princìpi fondanti del conservatorismo, e questo soprattutto per iniziativa della Meloni.
Oggi, il nostro convegno vuole ricordare questo percorso perché cresca appunto la consapevolezza che la Provvidenza sta offrendo agli italiani un’opportunità, un’occasione storica. Spetta a noi cercare di non lasciarla passare invano.
Note:
1) La storia del pensiero occidentale dei secoli precedenti comunque annovera uomini di pensiero –– Tommaso d’Aquino (1225-1274) e Giambattista Vico (1668-1774), per limitarci a due soli nomi –– la cui elaborazione culturale è stata considerata da molti esponenti del successivo pensiero conservatore una sorta di pietra angolare.
2) Cfr. Russell Kirk (1918-1994), Stati Uniti e Francia. Due Rivoluzioni a confronto, trad. it., a cura di Marco Respinti, Kolbe, Seriate (Bergamo) 1995.
3) Cfr. Edmund Burke, Riflessioni sulla Rivoluzione francese, trad. it., a cura di Marco Gervasoni, Giubilei Regnani, Roma-Cesena 2020.
4) M. Respinti, Edmund Burke, in Gennaro Malgieri(a cura di), Conservatori. Da Edmund Burke a Russell Kirk, Il Minotauro, Roma 2006, p. 29.
5) Mauro Lenci, Individualismo democratico e liberalismo aristocratico nel pensiero politico di Edmund Burke, Istituti Editoriali e Poligrafici Internazionali, Pisa-Roma 1999, p. 25.
6) Cfr. ibid., p. 25.
7) Cfr. ibidem.
8) Cfr. Jacques Godechot, La controrivoluzione. Dottrina e azione (1789-1804), trad. it., Mursia, Milano 1988, pp. 83-85.
9) «[…] la rivoluzione francese è una grande epoca […] le sue conseguenze, in tutti i campi, si faranno sentire molto al di là del tempo della sua esplosione e dei confini del suo ambito proprio» (Joseph de Maistre, Considerazioni sulla Francia, trad. it., Editori Riuniti, Roma 1985, p. 18).
10) Roberto Zapperi, Edmund Burke in Italia, in Cahiers Vilfredo Pareto, anno III, n. 7/8, 1965, pp. 5-62 (pp. 41-42), disponibile nel sito web <http://www.jstor.org/stable/40368710>; cfr. anche M. Lenci, Edmund Burke and the issue of a conservative and liberal tradition in Italy, 1791-1945, in Bollettino telematico di filosofia politica (2012), nel sito web <https://commentbfp.sp.unipi.it/mauro-lenci-edmund-burke-and-the-issue-of-a-conservative-and-liberal-tradition-in-italy-1791-1945> (gli indirizzi internet dell’intero articolo sono stati consultati il 29-12-2023). Il testo di Zapperi, critico rispetto al pensiero del fondatore del conservatorismo, è quello più documentato sulle scarne fortune di Burke in Italia.
11) Su Marchetti cfr. Paolo Martinucci, Per Dio e per la patria. Profili di contro-rivoluzionari italiani fra Settecento e Ottocento, con un mio saggio introduttivo, D’Ettoris Editori, Crotone 2018, pp. 173-198.
12) R. Zapperi, art. cit., pp. 42-43.
13) Il tema è messo a fuoco nel recente Giorgio Enrico Cavallo, Napoleone, ladro d’arte. Le spoliazioni francesi in Italia e la nascita del Louvre, D’Ettoris Editori, Crotone 2022.
14) Cfr. il mio L’Opera dei Congressi (1874-1904). Con i profili dei principali protagonisti, prefazione di Dario Caroniti, D’Ettoris, Crotone 2022.
15) Cfr. il mio L’Unione Elettorale Cattolica Italiana (1903-1916). Un modello di impegno politico unitario dei cattolici, Edizioni di «Cristianità», Piacenza 1993.
16) Cfr. George Lachmann Mosse (1918-1999), La nazionalizzazione delle masse. Simbolismo politico e movimenti di massa in Germania (1815-1933), trad. it., il Mulino, Bologna 2009.
17) Cfr. 18 aprile 1948. L’«anomalia» italiana, a cura di Marco Invernizzi, Ares, Milano 2007.
18) Cfr. Giovanni Cantoni (1938-2020), «Fermiamo il partito radicale di massa», in Cristianità, anno XXII, n. 225-226, gennaio-febbraio 1994, pp. 10-12.
19) Paolo Macry, La destra italiana. Da Guglielmo Giannini a Giorgia Meloni, Laterza, Roma-Bari 2023, p. 114.