Di Antonio Arlsan da Il Foglio del 19/07/2024
Per gli armeni, in questi ultimi mesi, alla storica richiesta di giustizia per il riconoscimento di un genocidio che viene ancora ostinatamente negato – e non da persone singole, ma da uno stato potente e determinato com’è la Turchia, con tutti i mezzi possibili, leciti o illeciti che siano – si affianca purtroppo una minaccia incombente. E il senso di garod, di privazione irrimediabile che li traumatizza da 109 anni sta intensificandosi giorno dopo giorno. La sopravvivenza stessa della nazione armena è infatti oggi in pericolo, e ciò sta avvenendo nella sostanziale, ipocrita disattenzione dell’opinione pubblica e dei governi occidentali, e nella tacita complicità delle autocrazie del mondo islamico e dei governi dell’estremo oriente.
Nel complicato scacchiere mediorientale, infatti, gli stati del Caucaso (le tre repubbliche ex sovietiche, Armenia, Georgia, Azerbaigian: le prime due cristiane, la terza musulmana sciita) rivestono un’importanza molto maggiore di quel che sembrerebbe, se si guarda solo alla loro ridotta estensione geografica. E nella situazione attuale, in contemporanea con i due conflitti “maggiori” riguardanti Ucraina e Israele, si vede chiaramente una terza guerra serpeggiare minacciosamente intorno all’Armenia.
Questo è un rischio concreto e immediato. E’ quello che viene chiamato “il genocidio infinito”, cioè la possibilità che si avveri per lo stato sovrano che è l’Armenia lo stesso destino che ha colpito quella piccola parte del popolo armeno stanziata nel territorio chiamato Artsakh dagli abitanti – di solito più conosciuto col nome russo, Nagorno-Karabakh: la dearmenizzazione completa. (…) Alla caduta dell’Unione sovietica, le tante nazionalità che vi convivevano riemersero dappertutto nelle varie repubbliche; ne nacquero molti conflitti (come in Georgia), e anche gli armeni dell’Artsakh chiesero – secondo la legge sovietica – di potersi riunire alla vicina madrepatria. Seguirono tumulti, pogrom e massacri, e una prima guerra contro l’Azerbaigian (1992-1994), vinta dagli armeni, che conquistarono anche alcuni territori di confine e crearono una piccola repubblica indipendente, con statuti democratici funzionanti, ma non riconosciuta dalla comunità internazionale. Ci fu un consistente scambio di popolazioni; mauna vera trattativa di pace, nonostante l’attività ventennale (tuttavia assai poco convinta…) del cosiddetto “gruppo di Minsk”, o almeno un armistizio, non furono però purtroppo mai raggiunti.
Negli anni successivi – oggi possiamo vederlo con chiarezza – l’Armenia si è cullata nell’illusoria sensazione che qualcuno (la Francia, sua storica protettrice, o l’Unione europea, con la quale furono stabiliti ottimi ma vacui rapporti? Gli Usa, dove vive la più numerosa comunità della diaspora, o perfino l’Iran, in funzione anti israeliana?) sarebbe intervenuto in caso di ripresa del conflitto. Nel frattempo l’Azerbaigian si arricchiva col gas e col petrolio e si riarmava nella forma più moderna e letale possibile: fino a quando nel settembre 2020 lanciò – con l’aiuto della Turchia, alleata e “cugina” di sangue – la cosiddetta “guerra dei quaranta giorni”, finita con un cessate il fuoco garantito per cinque anni da una forza di pace dell’esercito russo.
Sono andata molte volte in Artsakh: ed era un luogo fiabesco fra alte montagne coperte di foreste, vallette fertili e antichi villaggi, con il suo apparato statale, una piccola, linda capitale – Stepanakert – due università funzionanti a pieno regime (Mesrop Mashtots University e Artsakh State University), con varie facoltà e molti studenti anche stranieri, dove mi capitò di fare lezione a gruppi interessati ed entusiasti e perfino di ricevere un dottorato honoris causa…Non dimenticherò mai l’intensa e misteriosa spiritualità che emanava il luogo di Dadivank (Dadi è il nome di un discepolo di san Taddeo, uno dei primi evangelizzatori del Paese, e vank vuol dire “monastero”), con il gruppo di chiese restaurate, gli affreschi del Duecento riscoperti dall’italo-armeno Paolo Arà Zarian e dalla sua collega Christine Lamoureux, le sorgenti sulfuree (una Abano medievale, con la povera gente a bagno nelle acque) e il quieto villaggio nelle vicinanze, dove il parroco der Hovhannes ci offrì una calda merenda e i discorsi forti e sereni di un cristianesimo vissuto e sofferto.
L’unica strada che congiungeva l’Artsakh con l’Armenia, la prima volta che ci sono andata, era lunga e tortuosa ma affascinante. A metà del cammino, dopo circa tre ore, facemmo sosta in una specie di locanda, dove fummo ricevuti con la larga ospitalità che si riserva allo straniero. C’erano tante scodelle di riso pilaf con erbette varie a condirlo, e pinoli e piccoli semi; c’erano fette di carne abbrustolita e marinata, c’erano insalatine novelle appena colte – e un bel vino rosso, e due imponenti teste di cervo appese alla parete. E poi vennero fuori dalla cucina col vassoio dei caffè e del pakhlavà le due cuoche, robuste e ridenti, a dirmi che avevano visto, nei giorni della Pasqua appena trascorsa, il film dei fratelli Taviani ispirato alla mia
Masseria delle allodole… Un paio di anni dopo ci tornai con un gruppo americano, la Fondazione Tufenkian. A Yerevan decisero di farci viaggiare su un elicottero militare. Eravamo una ventina, molto eccitati dall’avventura: io avevo portato con me una cara amica e due giornalisti italiani. Volammo basso, sfiorando le cime dei monti e sventolando le nostre sciarpe colorate dai finestrini aperti, e atterrammo in un piccolo spiazzo vicino a un villaggio molto povero, dove la fondazione aveva costruito una scuola nuova: e anche là venimmo accolti con festose accoglienze, discorsi del sindaco e vassoi di dolcetti. Visitammo il paese, trovando dappertutto interesse e buona volontà, voglia di lavorare e piccole imprese in crescita, dalla viticoltura (con risultati sorprendenti) all’apicoltura (straordinario, quel miele di montagna!), al raffinato artigianato (i celebri tappeti Karabakh), alla delicata oreficeria.
Ma fu la terza volta a essere per me particolarmente significativa. Eravamo un bel gruppo, americani e italiani, membri di una piccola fondazione, nata negli Stati Uniti per aiutare i giovani cristiani di Siria durante la guerra. Purtroppo là avevamo trovato ostacoli di tutti i generi; sicché si era pensato di poter essere più utili in Artsakh, paese poco conosciuto e pronto ad accoglierci.
Efu davvero così: negli anni successivi riuscimmo a mettere in piedi una grande scuola, finanziata da noi e dal governo locale, nella quale andarono a insegnare persone capaci, generose ed esperte. (…) Il progetto prevedeva di essere ampliato con diversi altri professori e artigiani provenienti da diverse regioni italiane, che sarebbero andati a portare là le loro specifiche competenze e specializzazioni, in una prospettiva di equilibrato e condiviso sviluppo. E benché l’orizzonte dell’Artsakh si fosse ormai gravemente oscurato, ancora la minuscola repubblica sperava di resistere, contava sulla presenza della forza di pace e sulla tradizionale amicizia con la Russia.
Ma la guerra contro l’Ucraina ha cambiato le carte in tavola: i russi hanno altre faccende in corso e il mondo occidentale tace. Circa 120 mila in tutto erano gli abitanti dell’Artsakh. Oggi non c’è più nessuno, il paese intero è stato abbandonato: più di 106 mila persone sono scappate in tre giorni, dopo la resa quasi immediata – in ventiquattr’ore – per la guerra lampo scatenata il 19 settembre 2023, con forze belliche preponderanti e modernissime, dal presidente azero Aliev. E oggi, nel silenzio collettivo, di un’altra parte di Armenia si stanno cancellando le tracce: monumenti, chiese, nomi di luoghi, croci di pietra, strade. Come ha promesso il presidente Erdogan in un celebre discorso, “dobbiamo finire il lavoro…”.