Giacomo Roggeri Mermet, Cristianità n. 425 (2024)
Premessa
Se il mondo sta vivendo un tempo molto difficile, costellato di tragiche guerre — il tempo della «terza guerra mondiale a pezzi» (1), come l’ha definita il regnante Pontefice Francesco —, delle quali ogni giorno i media ci informano con abbondanza di particolari, e se la speranza di vivere in un mondo in pace sembra lontana, è pur vero che il mondo attraversa da sempre tempi difficili e che questa è davvero una «valle di lacrime».
Una «valle di lacrime» che, nella prospettiva della Creazione, non doveva essere tale, ma che è lo diventata con il peccato dei nostri progenitori, e nella quale fanno più notizia le lacrime dei sorrisi, la paura della gioia, l’orrore della bellezza.
Non mancano neanche le catastrofi naturali e fra queste, nonostante i grandi progressi nelle coltivazioni, le carestie, con le conseguenti morti per fame, e la carenza d’acqua, l’«oro blu».
Della fame nel mondo si parlava moltissimo alcuni decenni fa, mentre oggi i media sembrano averla messa un po’ in disparte, anche se miete ancora molte vittime. Secondo l’organizzazione internazionale indipendente Save the Children, ogni anno nel mondo un milione di bambini sotto i cinque anni muoiono per malnutrizione e 13,5 milioni sono in pericolo di vita. Nel 2020, secondo lo stesso rapporto, circa 45 milioni di bambini sotto i cinque anni risultavano gravemente malnutriti; questi numeri continuano ad aumentare e in tutto il mondo 345 milioni di persone non hanno cibo a sufficienza (2).
Fra le opere di misericordia corporale (3) trova posto il «dar da mangiare agli affamati» (cfr Mt 25,35.37.42), che non consiste solo nell’offrire un piatto di minestra al povero che staziona sul marciapiede sotto casa o nell’invitare a tavola gl’indigenti della città in occasione di particolari feste, ma anche nel creare condizioni tali da consentire a tutti di avere accesso al cibo. E il dar da mangiare a tutti i popoli del mondo è un aspetto proprio della Dottrina sociale della Chiesa — con i princìpi di solidarietà, giustizia sociale e destinazione universale dei beni —, che è morale sociale e, in questo caso, opera di misericordia sociale.
Il Magistero sul tema
A partire dalla fine della Seconda Guerra Mondiale (1939-1945) il problema dell’insufficiente alimentazione di alcuni popoli si è imposto all’attenzione dei responsabili della politica mondiale, trovando la piena consonanza della Chiesa cattolica, peraltro impegnata da sempre a mitigare le dure condizioni di vita degli indigenti (4).
In un documento, elaborato e pubblicato nel 1996 dal Pontificio Consiglio «Cor Unum» su indicazione di Papa san Giovanni Paolo II (1978-2005), vengono richiamati alcuni punti fermi (5): «Il pianeta è in grado di offrire a ciascuno la relativa razione alimentare» (n. 4); «oggigiorno, le carestie sono più circoscritte e provocate quasi sempre dall’azione dell’uomo» (n. 5); «Eccezion fatta per alcuni casi estremi, la densità demografica non spiega la fame», anche se è utile «[…] prevedere per le coppie un’educazione alla paternità ed alla maternità responsabili, nel completo rispetto dei principi etici e morali» (n. 15). Vi sono cause economiche: «Numerosi paesi sono decollati economicamente e continuano a farlo sotto i nostri occhi, altri, al contrario affondano, vittime di politiche nazionali o internazionali basate su ingannevoli premesse» (n. 10); cause socio-culturali: «La bella terra d’Africa è buona ma molto fragile. I cambiamenti di abitudini indotti nei contadini dall’economia moderna e la perdita dei valori ancestrali ha comportato la distruzione della terra. I missionari cattolici, e forse anche altri, lo avevano perfettamente capito. Le vecchie missioni erano rispettose dei talenti e specie dell’esperienza tradizionale» (nota 41); cause politiche, perché «il blocco dell’afflusso di derrate alimentari è stata utilizzato nel corso della storia, ieri come oggi, quale arma politica o militare» (n. 16). In particolare, vengono citati «il blocco sistematico della fornitura di cibo ai contadini ucraini da parte di Stalin, attorno al 1930, con un bilancio di circa otto milioni di morti», «i recenti assedi in Bosnia, specie quello di Sarajevo, quando il meccanismo stesso degli aiuti umanitari è stato preso in ostaggio», «gli spostamenti forzati della popolazione in Etiopia, per il raggiungimento del controllo politico da parte del partito unico al governo» (ibidem). È dunque «[…] l’insieme dell’insegnamento sociale della Chiesa che deve impregnare più o meno coscientemente la filosofia dell’azione dei responsabili», senza che tale affermazione venga «[…] accolta con scetticismo o addirittura con cinismo» (n. 22).
Nel 1955 il venerabile Papa Pio XII(1939-1958), in un discorso ai partecipanti all’VIII Sessione della FAO, l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Alimentazione e l’Agricoltura, trasferitasi nel 1951 da Washington a Roma, si felicitava del fatto che«la produzione agricola mondiale ha raggiunto nel 1954 un accrescimento del 25% in rapporto a quella del 1946» (6) e che «durante questi dieci anni, i paesi sotto-sviluppati hanno rapidamente valorizzato le loro risorse della terra e dell’acqua; grazie all’assistenza tecnica, essi hanno applicato, alla produzione animale e vegetale, i nuovi metodi sperimentali e già attuati nelle regioni più progredite»,ricordando, con parole quasi profetiche, che «i popoli favoriti dalla natura o dal progresso della civiltà rischiano di conoscere un giorno duri risvegli se non si danno cura, fin d’ora, per assicurare ai meno fortunati i mezzi per vivere umanamente, degnamente e di svilupparsi in conseguenza».
Nel 1970 san Paolo VI (1963-1978) si recò nella sede della FAO dove pronunciò un lungo discorso, con parole tragicamente attuali: «Quando tanti popoli hanno fame, quando tante famiglie soffrono la miseria, quando tanti uomini vivono immersi nell’ignoranza, quando restano da costruire tante scuole, tanti ospedali, tante abitazioni degne di questo nome, ogni sperpero pubblico o privato, ogni spesa fatta per ostentazione nazionale o personale, ogni corsa estenuante agli armamenti diventa uno scandalo intollerabile. Noi abbiamo il dovere di denunciarlo. Vogliano i Responsabili ascoltarci, prima che sia troppo tardi» (7); e ancora dipingeva un quadro mondiale non molto diverso dall’attuale, ricordando che«tante terre sono ancora incolte, tante possibilità inesplorate, tante braccia senza lavoro, tanti giovani disoccupati, tante energie sciupate!» (8).
Fu quindi san Giovanni Paolo II a recarsi alla FAO il 12 novembre del 1979, pronunciando un discorso nel quale ricordava che «[…] è bene riconoscere come, purtroppo, l’esperienza attuale ancora dimostra crudelmente che la fame nel mondo non proviene sempre unicamente da circostanze geografiche, climatiche o agricole sfavorevoli, a cui voi cercate di sopperire gradualmente. La fame proviene anche dall’uomo stesso, dalle deficienze dell’organizzazione sociale che ostacola l’iniziativa personale, perfino dal terrore e dall’oppressione di sistemi ideologici e pratiche inumane» (9). Il Pontefice proseguiva quindi auspicando che le ricchezze produttive «[…] terrestri o marine siano conservate e mai sprecate e, affinché esse fruttifichino, moltiplicando la loro potenzialità senza distruggere imprudentemente l’equilibrio naturale che è servito come culla alla vita dell’uomo; in una parola, affinché la natura, allo stesso tempo rispettata e nobilitata, raggiunga il suo migliore rendimento a servizio dell’uomo, tutto ciò ci porta, in un certo senso, al disegno di Dio sulla creazione che il testo ispirato della Genesi ci descrive in modo arcaico ma suggestivo: “Dio fece l’uomo a sua immagine, creò uomo e donna… popolate la terra e sottomettetela… Dio Jahvè mise l’uomo nel giardino d’Eden per coltivarlo e conservarlo” (Gen 1,27-28; 2,16)» (10).
Anche nell’enciclica Centesimus annus vengono offerte indicazioni in tal senso: «Individuando nuovi bisogni e nuove modalità per il loro soddisfacimento, è necessario lasciarsi guidare da un’immagine integrale dell’uomo, che rispetti tutte le dimensioni del suo essere e subordini quelle materiali ed istintive a quelle interiori e spirituali. Al contrario, rivolgendosi direttamente ai suoi istinti e prescindendo in diverso modo dalla sua realtà personale cosciente e libera, si possono creare abitudini di consumo e stili di vita oggettivamente illeciti. Il sistema economico non possiede al suo interno criteri che consentano di distinguere correttamente le forme nuove e più elevate di soddisfacimento dei bisogni umani dai nuovi bisogni indotti, che ostacolano la formazione di una matura personalità. È perciò necessaria ed urgente una grande opera educativa e culturale, la quale comprenda l’educazione dei consumatori ad un uso responsabile del loro potere di scelta, la formazione di un alto senso di responsabilità nei produttori e, soprattutto, nei professionisti delle comunicazioni di massa, oltre che il necessario intervento delle pubbliche Autorità. […] alludo al fatto che anche la scelta di investire in un luogo piuttosto che in un altro è sempre una scelta morale e culturale» (11).
Il 5 dicembre 1992 Giovanni Paolo II tenne un’allocuzione ai partecipanti alla Conferenza Internazionale sulla Nutrizione, nella quale ricordò che «la fame provoca ogni giorno la morte di migliaia di bambini, di persone anziane e di individui appartenenti alle categorie più vulnerabili; una parte considerevole della popolazione mondiale non è in grado di procurarsi ogni giorno la quantità indispensabile di cibo; sulle moltitudini pesano gravemente la povertà, l’ignoranza e condizioni politiche che obbligano migliaia di loro a lasciare le proprie case per andare alla ricerca di una terra dove possano trovare di che nutrirsi» (12).
Infine, merita di essere ricordata l’udienza generale del 13 novembre 1996. Quel giorno il Pontefice ha voluto ricordare ai presenti, di ritorno dal vertice mondiale sull’alimentazione appena apertosi nella sede della FAO a Roma, la tragica […] condizione in cui si trovano attualmente più di ottocento milioni di persone per mancanza di cibo o per malnutrizione. È necessario compiere con urgenza tutti gli sforzi possibili per cancellare lo scandalo della coesistenza di persone carenti persino del necessario e di altre ricolme del superfluo» (13) e ha invitato a pregare «[…] perché le sofferenze di tanti innocenti e il sangue versato da fedeli servitori della Chiesa e della causa dell’uomo servano a sconfiggere l’odio e contribuiscano a far sorgere nell’amato continente africano un’era di rispetto reciproco e di fraterna accoglienza» (14).
Anche Papa Benedetto XVI(2005-2013) si è recato nella sede della FAO, nel 2009, levando alta la sua voce: «La Comunità internazionale sta affrontando in questi anni una grave crisi economico-finanziaria. Le statistiche testimoniano la drammatica crescita del numero di chi soffre la fame e a questo concorrono l’aumento dei prezzi dei prodotti alimentari, la diminuzione delle disponibilità economiche delle popolazioni più povere, il limitato accesso al mercato e al cibo. Tutto ciò mentre si conferma il dato che la terra può sufficientemente nutrire tutti i suoi abitanti. Infatti, sebbene in alcune regioni permangano bassi livelli di produzione agricola anche a causa di mutamenti climatici, globalmente tale produzione è sufficiente per soddisfare sia la domanda attuale, sia quella prevedibile in futuro. Questi dati indicano l’assenza di una relazione di causa-effetto tra la crescita della popolazione e la fame, e ciò è ulteriormente provato dalla deprecabile distruzione di derrate alimentari in funzione del lucro economico» (15). Il Papa, in quell’occasione, volle ricordare che «la terra può sufficientemente nutrire tutti i suoi abitanti», contrapponendosi a quanti ancora sostenevano il mito malthusiano del «sulla terra siamo in troppi», che negli anni 1970 faceva molta presa in larghi settori culturali e politici, giustificando, così, l’introduzione di varie pratiche di contraccezione o abortive o di sterilizzazione forzata (16).
Il Pontefice riprese nell’intervento alla FAO quanto già scritto nell’enciclica Caritas in veritate, affermando che «la fame non dipende tanto da scarsità materiale, quanto piuttosto da scarsità di risorse sociali, la più importante delle quali è di natura istituzionale. Manca, cioè, un assetto di istituzioni economiche in grado sia di garantire un accesso al cibo e all’acqua regolare e adeguato […], sia di fronteggiare le necessità connesse con i bisogni primari e con le emergenze di vere e proprie crisi alimentari». Proseguendo nella citazione dell’enciclica, affermò che «il problema dell’insicurezza alimentare va affrontato in una prospettiva di lungo periodo, eliminando le cause strutturali che lo provocano e promuovendo lo sviluppo agricolo dei Paesi più poveri mediante investimenti in infrastrutture rurali, in sistemi di irrigazione, in trasporti, in organizzazione dei mercati, in formazione e diffusione di tecniche agricole appropriate, capaci cioè di utilizzare al meglio le risorse umane, naturali e socio-economiche maggiormente accessibili a livello locale, in modo da garantire una loro sostenibilità anche nel lungo periodo» (17).
In quell’occasione Benedetto XVI ha osservato: «È importante ricordare — ho osservato sempre nell’Enciclica Caritas in veritate — che “il degrado della natura è […] strettamente connesso alla cultura che modella la convivenza umana: quando l’ecologia umana è rispettata dentro la società, anche l’ecologia ambientale ne trae beneficio”. È vero: “il sistema ecologico si regge sul rispetto di un progetto che riguarda sia la sana convivenza in società sia il buon rapporto con la natura”. Ed “il problema decisivo è la complessiva tenuta morale della società”. Pertanto, “i doveri che abbiamo verso l’ambiente si collegano con i doveri che abbiamo verso la persona considerata in se stessa e in relazione con gli altri. Non si possono esigere gli uni e conculcare gli altri. Questa è una grave antinomia della mentalità e della prassi odierna, che avvilisce la persona, sconvolge l’ambiente e danneggia la società”» (18).
Come Papa Benedetto XVI parlava di «lucro economico» in riferimento alla distruzione delle derrate alimentari, così Papa Francesco ha affermato: «Oggi si parla molto di diritti, dimenticando spesso i doveri; forse ci siamo preoccupati troppo poco di quanti soffrono la fame. È inoltre doloroso constatare che la lotta contro la fame e la denutrizione viene ostacolata dalla “priorità del mercato”, e dalla “preminenza del guadagno”, che hanno ridotto il cibo a una merce qualsiasi, soggetta a speculazione, anche finanziaria. E mentre si parla di nuovi diritti, l’affamato è lì, all’angolo della strada, e chiede diritto di cittadinanza, chiede di essere considerato nella sua condizione, di ricevere una sana alimentazione di base»(19).
Il Vangelo di Matteo riporta le parole di Gesù che alla fine dei tempi, dopo aver separato gli uni dagli altri dirà a quelli alla sua destra «Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo, perché ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere» (Mc 25, 34-35). Questo brano, se interpella tutti gli uomini, interpella ancor di più gli uomini riuniti negli Stati, quindi la politica locale degli Stati dove ancora oggi si soffre e si muore per la malnutrizione e dove è urgente eliminare tutti gli ostacoli che impediscono il progresso alimentare. Questo passo riguarda anche la politica internazionale degli Stati sviluppati, affinché aiutino i primi a sviluppare la loro agricoltura per «dar da mangiare agli affamati» con le moderne tecniche e ad accedere ai prestiti necessari per questo sviluppo.
Dove il problema della fame è ancora notevole?
Se nel 2016 l’Indice Globale della Fame (GHI) «mostra che i livelli di fame nei paesi in via di sviluppo si sono ridotti del 29%»(20) nell’Africa sub-sahariana, i dati di sette Paesi sono allarmanti e fra questi, in particolare, preoccupano la Repubblica Centrafricana e il Ciad, mentre complessivamente nel mondo sono 795 milioni le persone vittime della fame e 155 i milioni di minori di età inferiore ai cinque anni che soffrono per malnutrizione cronica (21) e di questi il 50% in Asia e il 30% in Africa. Nell’Africa occidentale dal 2000 al 2016 i bambini che soffrono la fame sono cresciuti di 4 milioni.
La situazione in Africa
Il Sahara, il deserto più vasto del mondo, che misura 9.200.000 km2, poco meno della superficie dell’Europa, ha subito notevoli fluttuazioni climatiche nel corso dei millenni. Studi condotti su sedimenti lacustri, carote di ghiaccio e altri dati geologici hanno rivelato che ha attraversato periodi di maggiore umidità, durante i quali le pianure desertiche si trasformavano in verdi oasi, e fasi di estrema aridità, durante le quali il deserto si estendeva su vaste aree. Questi cambiamenti sono il risultato di complesse interazioni tra vari fattori climatici, geologici e astronomici, come variazioni nell’orbita terrestre, nei livelli di gas serra, nell’attività solare e nei pattern di circolazione atmosferica. Inoltre, l’attività umana, come la deforestazione e l’agricoltura intensiva, può aver contribuito ad accelerare il processo di desertificazione in alcune aree.
Interessante è la zona del Ciad, e in particolar modo lo sono i monti dell’Ennedi-Tibesti, costellati di grotte che si aprono nelle rocce di arenaria e abitate da uomini già diecimila anni fa, nel Neolitico. Si trattava di uomini dediti alla pastorizia, che lasciarono traccia della loro presenza e della loro attività con pitture rupestri, o anche incisioni, le più vecchie delle quali risalgono a ottomila anni or sono. Queste pitture, che presentano tecniche differenti a seconda delle varie epoche nelle quali sono state dipinte, raffigurano scene di animali domestici e di animali selvatici come coccodrilli, elefanti e giraffe, di pastori riuniti in gruppi a conferma che non vi è stato sempre il deserto ma che, con i periodici cambiamenti climatici, vi sono state anche terre discretamente fertili e ricoperte di vegetazione, dove venivano allevati cavalli, bufali, zebre (22).
Oggi è possibile incontrare qualche pastore nomade o seminomade dei Tubu, una popolazione poco nota e diffusa dalla Libia al Ciad e al Niger che vive di pastorizia, trovando riparo in capanne di stuoie e allevando cammelli, capre e pecore. Di religione animistica e successivamente convertiti all’islam, furono ostili agli italiani e ai francesi.
Secondo il geologo e climatologo Stefan Kröpelinvi sono segnali che il clima nel Sahara sta cambiando e che nelle regioni circostanti, in seguito all’aumento delle precipitazioni, crescono le zone verdi. A questo si aggiunga il grande progetto della «muraglia verde», che attraversa tutta l’Africa, dalla costa occidentale a quella orientale sotto il Sahel, di cui dirò nel prossimo paragrafo.
Il comboniano padre Giulio Albanese afferma che «[…] nel cosiddetto Neolitico subpluviale, o fase umida dell’Olocene, compreso tra il 7.000 e il 3.000 a.C., il Sahara era verde e il lago Ciad più grande del Mar Caspio (per inciso ancora cinquant’anni fa le acque di questo bacino occupavano 26.000 km quadrati, oggi ridotti a meno di 5.000 e con le sponde affollate dalla maggiore popolazione di rifugiati climatici al mondo). Sta di fatto che l’allarmante processo di desertificazione che oggi spinge sempre più a meridione, nella fascia subsahariana, duemila anni fa non costituiva un problema per le popolazioni autoctone sahariane. Per comprendere quanto il clima sia cambiato, basti pensare che il Sahel — che oggi comprende parte del territorio degli Stati del Senegal, del Mali, della Mauritania, del Niger, del Burkina Faso, del Ciad e del Sudan — al tempo dei Garamanti (23) era una florida savana. Da lì provenivano le fiere dei giochi gladiatori, i leoni e gli elefanti che Annibale utilizzò nella seconda Guerra punica contro i Romani. Dunque, lo sviluppo della civiltà dei Garamanti è ascrivibile a condizioni ambientali molto diverse da quelle odierne» (24). In questa regione si possono ancora oggi osservare «[…] tracce di sistemi di canalizzazione non più in uso che, presumibilmente, costituivano lo strumento più idoneo per la raccolta delle acque piovane. Non a caso questo territorio è denominato dai tuareg con l’appellativo “Targa”, che in lingua berbera significa “canale d’irrigazione”, e da qui la denominazione di “targi”, abitanti della Targa, il cui plurale è appunto “tuareg”. Questo, in sostanza, significa che in passato le condizioni meteorologiche erano molto diverse da quelle attuali» (25).
«Una lunga serie di testi, inoltre, datati tra il Primo Periodo Intermedio e il Medio Regno — scrive l’archeologa Rosanna Montanaro —, raccontano di come nel paese aleggiasse una profonda crisi sociale ma anche (presumibilmente) ecologica e climatica (come è accaduto anche per il resto del bacino del Mediterraneo). Secondo varie ricerche paleoclimatiche, intorno al 2200 a.C. termina la “Fase Umida Neolitica”. In Egitto ciò provoca, probabilmente, un drastico calo del regime di piena del Nilo il quale, a sua volta, influenza inevitabilmente anche le vicende politiche, sociali ed economiche del paese. Infatti in Egitto, così come l’ordine politico dipende da un unico sovrano, la cui assenza getta il paese nel caos, anche l’equilibrio climatico ed ecologico, fondamentale per una società interamente agricola, quale è quella egiziana, si fonda sostanzialmente sui regimi di piena del fiume da cui trae linfa» (26). Rovinose tempeste di sabbia e una terribile penuria d’acqua portarono alla disperazione gli egiziani, che compirono atti di cannibalismo soprattutto nei confronti dei bambini, come si legge nel Testo della Carestia del nomarca (governatore provinciale) di Hieraconpolis, Ankhitify (secolo XXII a.C.).
L’Africa, come anche il resto del mondo, ha subìto nei secoli passati considerevoli carestie. Se quella sopra citata è la prima carestia della quale abbiamo una traccia scritta nei papiri egiziani, altre hanno colpito, successivamente, questo continente.
Scriveva il card. Angelo Sodano (1927-2022) nel 1996: «Se fino al XIX secolo, le carestie che decimavano popolazioni intere erano dovute il più delle volte a cause naturali, oggigiorno le carestie sono più circoscritte e provocate quasi sempre dall’azione dell’uomo. È sufficiente far riferimento ad alcune regioni o ad alcuni paesi per convincersene: Etiopia, Cambogia, ex-Jugoslavia, Rwanda, Haiti. In un’epoca in cui l’uomo, meglio che in passato, ha la possibilità di far fronte alle carestie, tali situazioni costituiscono un vero disonore per l’umanità» (27).
Venendo a tempi a noi più vicini, in Africa vi fu una gravissima carestia negli anni 1931-1934 nell’Alto Giuba: vi furono sei stagioni di mancate o insufficienti precipitazioni, accompagnate da invasioni di cavallette e da epidemie di meningite, morbillo e varicella fra la popolazione, nonché epidemie fra il bestiame. Questa fase di siccità «[…] che si innesta su una situazione preesistente di grave malessere sociale ed economico» (28),terminò solo nella stagione Gu (29) del 1934, causando sessantamila morti, cioè un quarto della popolazione dedita all’agricoltura, e la morte di moltissimi animali, specialmente bovini, essenziali per l’alimentazione di questo popolo.
Fra il 1940 e il 1948, a causa del regime di approvvigionamento dei beni alimentari stabilito dalla Francia, il Marocco conobbe gravi carestie, che causarono circa duecentomila morti; nel 1943, a causa di una migrazione in Congo, il Ruanda-Burundi conobbe una carestia che causò trecentomila morti; l’isola di Capoverde nel secolo XX conobbe varie carestie: quella del 1900-1903 con ventimila morti, quella del 1920-1922 con venticinquemila, e quelle del 1940-1943 e del 1946-1948 con rispettivamente ventimila e trentamila morti per fame. Il Malawi nel 1949 soffrì per una grave carestia causata sia dalla siccità, sia dall’eccesivo sfruttamento del terreno. Altre gravi carestie, dovute sia a cause politiche sia a siccità, interessarono l’Etiopia: nel 1958, con circa centomila morti, nel 1972-1973, con sessantamila vittime, e nel 1998-2000, con un numero di morti imprecisato. La Nigeria, con il Biafra, allora Stato indipendente, soffrì una grave carestia, causata da questioni politiche, negli anni 1967-1970, e vi si contarono un milione di morti, mentre il Sahel, che si sviluppa nella fascia compresa fra la savana a sud e il deserto del Sahara a nord, conobbe molte gravi carestie: a quella del 1680 — fra le prime carestie africane conosciute — si aggiungono quelle dal 1967 al 1972, con un numero di vittime per fame calcolato in circa un milione. Dagli anni 1980 nel Sahel sono, tuttavia, in aumento le precipitazioni.
La siccità e i conflitti causarono una grave carestia in Uganda nel 1980-1981, con trentamila morti, mentre il Sudan, per cause sempre legate a guerre civili e crisi politiche, conobbe varie carestie nel corso del secolo scorso, con decine di migliaia di morti. Infine, la Somalia patì carestie per cause naturali, dovute soprattutto alla siccità, nel 1991-1992 e nel 2011-2012. Quest’ultima carestia avvenne sempre a seguito di una gravissima siccità, che interessò tutta l’Africa Orientale, e i morti per fame furono centinaia di migliaia (30).
La Grande Muraglia Verde
Nel quadro sempre più fosco della situazione mondiale, aggravato da minacciosi conflitti che riempiono ogni giorno lo spazio dei notiziari, le iniziative belle, grandi o piccole che siano, trovano poco spazio e vengono poco divulgate. Eppure ci sono.
Siamo tutti portati a drammatizzare la situazione del mondo, certamente molto preoccupante per le guerre in corso, per i morti e i feriti, le distruzioni, il rischio di un conflitto mondiale. E si drammatizza anche la questione del cosiddetto «riscaldamento globale», che porterebbe a un cambiamento climatico pericoloso additando le attività antropiche quali sue principali responsabili. Tuttavia, sulla questione non vi è uniformità di vedute e molti ritengono che l’attuale fase di riscaldamento del clima sia o un fenomeno ciclico, come i dati storici dimostrerebbero, o legato all’attività solare. Come scrive Mario Giaccio, già professore ordinario di Tecnologia e Innovazione e di Tecnologia ed Economia delle fonti di energia nel Dipartimento di Scienze dell’Università «G. D’Annunzio» di Chieti-Pescara, «se si esaminano le procedure con le quali vengono prodotti i report dell’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC), si comprende facilmente che tali report non sono documenti scientifici ma istruzioni politiche» (31). In questo quadro dalle tinte fosche si contrappone, in Africa, pur in mezzo a molte difficoltà di ordine economico e in una situazione resa difficile dai conflitti locali, un tentativo di arginare l’avanzata del deserto, la realizzazione, cioè, di una grande opera, precisamente della Great Green Wall (Ggw),in italiano Grande Muraglia Verde.
L’idea di questa opera fu lanciata nel 1952 dal biologo e botanico inglese Richard St. Barbe Baker (1889-1982), poi rivista nella fase esecutiva e iniziata solo nel 2007, quando il progetto è stato accolto dalla «Conferenza dei capi di Stato e di governo dei Paesi membri della Comunità degli Stati Sahel-Sahariani (Cen-Sad) durante la loro settima sessione ordinaria tenutasi a Ouagadougou, in Burkina Faso, dal 1° al 2 giugno 2005. L’Unione africana (Ua) ha poi ufficialmente approvato questo indirizzo nel corso del suo ottavo vertice svoltosi ad Addis Abeba, in Etiopia, dal 22 al 30 gennaio 2007, attribuendo all’iniziativa la denominazione “The Great Wall for the Sahara and the Sahel Initiative (Ggwssi)”» (32).
Ma che cos’è la Grande Muraglia Verde?
Si tratta della riforestazione di una fascia sub-desertica del Sahel, cioè a sud del deserto del Sahara, profonda quindici chilometri — erano cinquanta nel progetto del professor Barbe Baker — e lunga quasi ottomila chilometri — più della Grande Muraglia Cinese —, che va dalla costa dell’Oceano Atlantico nel Senegal fino al Mar Rosso in Etiopia, interessando undici Paesi africani: Senegal, Mauritania, Mali, Burkina-Faso, Niger, Nigeria, Ciad, Sudan, Etiopia, Eritrea e Gibuti, per una superficie di circa cento milioni di ettari, e potrà creare dieci milioni di posti di lavoro.
Il rinverdimento della fascia in questione, la cui desertificazione è peggiorata a causa non solo della siccità, ma anche di altri fattori, come incendi, deforestazione, inquinamento, sfruttamento agricolo troppo intenso con conseguente impoverimento della fertilità del suolo ed anche delle falde acquifere, ha lo scopo di fermare l’avanzata verso sud del deserto, misurabile in due chilometri all’anno, pari a duecento chilometri al secolo, creando un ambiente diverso, più umido, che acceleri il ciclo dell’acqua, aumentando le precipitazioni atmosferiche e la disponibilità di acqua per le popolazioni locali.
Non dobbiamo, però, immaginare questa muraglia come una fila ininterrotta di alberi, come una siepe che fermi la sabbia spinta dai venti. Essa è piuttosto la realizzazione di «foreste capaci di crescere in ambienti aridi, di parchi agroforestali, di zone agricole vere e proprie, e di altre destinate alla pastorizia» (33).La FAO assicura che questa realizzazione «[…] dissuaderà molte persone dall’intraprendere pericolosi, e talvolta inutili, viaggi verso l’Europa» (34).
Per eseguire quest’opera, che dovrebbe mutare l’aspetto di una parte almeno del Sahel e migliorare la condizione di vita dei popoli, superando il grave problema della fame, sono state scelte alcune piante autoctone.
Il baobab (Adansonia digitata) è una pianta di straordinaria longevità, appartenente alla famiglia delle Malvaceae. Questa pianta «[…] raggiunge facilmente i 10 metri di diametro e i 20 metri di altezza, e la maggior parte dei baobab vive 500 anni, anche se in alcune parti dell’Africa ne sono stati descritti esemplari che sembra risalgano a 5.000 anni fa» (35). Molti sono gli usi: febbrifugo, cura delle infiammazioni del tubo digerente, antimalarico; si ricavano dalle foglie la vitamina C, acido uronico, ramnosio, tannini, tartrato di potassio, provitamina A, mentre dai semi si estrae olio ricco di acidi grassi essenziali, utili per alleviare le scottature. Ogni pianta può immagazzinare fino a dodicimila litri di acqua. Un’altra pianta molto utilizzata è l’acacia ad ombrello(Vachellia tortilis), particolarmente resistente alla siccità. Le sue radici raggiungono l’acqua, della quale necessita per vivere, a notevoli profondità, anche superiori ai trenta metri. Si tratta di una specie della famiglia delle Fabaceae (già leguminose) che ha una chioma, come dice il nome, a ombrello e che può rimanere dell’aspetto di un arbusto alto circa un metro e mezzo se c’è siccità, ma cresce anche fino a venti e più metri di altezza qualora le condizioni in cui vive siano migliori. Come tutte le Fabaceae anche questa acacia è in grado di sfruttare l’azoto atmosferico grazie ai batteri azotofissatori che vivono sulle radici, essendo l’azoto un elemento fondamentale per la crescita di ogni pianta e sopperendo così alla scarsità di questo elemento tipica dei suoli aridi. Crescendo, queste piante riformano quell’humus necessario per rendere il terreno di nuovo fertile: il deserto non solo non avanza più, ma, anche se lentamente, può essere riconquistato dalla vegetazione. Un’altra pianta tipica della zona del Sahel, adatta al clima desertico, è il Combretum glutinosum della famigliaCombretaceaee dell’ordineMyrtales, ricco di acido gallico, ellagico, glicosidi e flavonoidi e utilizzato in loco nella medicina tradizionale per combattere varie malattie, influenza e reumatismi.
Fino alla primavera del 2023 erano state piantate alcune decine di milioni di piante e recuperati circa venti milioni di ettari, tuttavia molto rimane ancora da fare. Nel clima desertico della zona interessata sono pochi i mesi dell’anno nei quali si può operare e non sempre la manodopera necessaria è disponibile. E non basta piantare ma è necessario, successivamente, mantenere le giovani piante e controllarne l’accrescimento. Tutto ciò richiede una spesa ipotizzata di oltre 30 miliardi di dollari. Finora si è spesa circa la metà della somma prevista. Il completamento di questa opera è condizionato da vari fattori: la volontà politica dei singoli Stati coinvolti, l’onestà dei loro politici, la disponibilità finanziaria, la pace sociale e la pace fra le nazioni, che oggi appaiono ancora molto lontane.
Il «Grand Ethiopian Renaissance Dam»
Se quello sopra descritto è un colossale e interessante progetto per l’Africa, altri sono stati realizzati o sono in corso di realizzazione per recuperare terre coltivabili dal deserto, quindi per dare cibo alle popolazioni e, soprattutto, per avere acqua a disposizione. E proprio la disponibilità di acqua è causa di tensioni fra gli Stati e interessa gli studi geopolitici: l’Etiopia ha costruito la diga detta Grand Ethiopian Renaissance Dam (acronimo: GERD) inaugurata il 20 febbraio 2022, che fornisce acqua alla settima centrale idroelettrica al mondo per grandezza, ma ha tolto a Egitto e Sudan la disponibilità di milioni di metri cubi di acqua del Nilo. «Con una potenza installata di 6,45 gigawatt, è la più grande centrale idroelettrica in Africa, nonché la settima al mondo per grandezza. Se per Addis Abeba i vantaggi della GERD sono molteplici — vale a dire, produzione di energia idroelettrica destinata al consumo interno e a mercati di esportazione, regolazione dei flussi idrici verso valle, prevenzione di alluvioni, creazione di molti posti di lavoro ecc… — per Egitto e Sudan questa imponente infrastruttura ha ridotto in maniera sensibile l’afflusso di acqua proveniente dal Nilo. Non è ancora disponibile il dato relativo al quantitativo certo di risorsa idrica “persa” da Khartoum e Il Cairo ma, stando a varie fonti, si tratta di molti milioni di m³ d’acqua all’anno, quanto basta per aumentare la tensione regionale tra tre rilevanti Paesi africani» (36).
L’Egitto: la diga di Assuan e il più grande fiume artificiale al mondo
Produrre il cibo necessario per sfamare la popolazione è per l’Egitto una sfida epocale. Con lo scoppio della guerra fra Russia e Ucraina e il blocco delle navi ucraine cariche di grano, l’Egitto ha avuto grandi problemi di approvvigionamento di grano, mais, soia ed è quindi andata incontro a preoccupanti carenze alimentari. La sterlina egiziana è stata svalutata tre volte nell’anno, l’inflazione è vicina al 40% e il debito pubblico ha raggiunto il 90% del PIL. Il 30% della popolazione vive in condizione di povertà (37).
Fin dai tempi dei faraoni questa terra deve affrontare il problema dell’irrigazione dei campi; se un tempo si affidava al grande Nilo e alle sue stagionali inondazioni, che ricoprivano ogni anno di fertile limo le terre coltivate, oggi, con il forte aumento della popolazione, che ha superato i cento milioni, ha la necessità di sottrarre nuovi spazi al deserto da destinare alla coltivazione e disporre di più acqua per soddisfare le esigenze di una popolazione in costante crescita.
Nel 1971 l’Egitto inaugurò la Nuova Grande Diga di Assuan, la cui costruzione era iniziata nel 1960, dopo che la prima diga, inaugurata nel 1902 e innalzata ben due volte nel 1912 e nel 1933, era risultata insufficiente a contenere le piene del Nilo. La Nuova Grande Diga è impressionante, come tutto lo è in Africa, date le dimensioni del continente: «lunga 3600 metri e larga 980 metri alla base e 40 sulla sommità, per un’altezza di 111 metri, con una capacità di 43 milioni di metri cubi. Le chiuse, se aperte al massimo, possono far uscire fino a 11000 metri cubi di acqua al secondo. Il bacino artificiale formato dalla diga ha creato il Lago Nasser, questo ha una superficie di circa 6000 chilometri quadrati, è lungo 480 km e largo fino a 16 km e contiene tra i 150 e i 165 km cubi di acqua» (38). Con dodici generatori di corrente fornisce metà dell’elettricità necessaria all’Egitto.
L’Egitto, con il New Delta Project, sta anche costruendo il più grande fiume artificiale del mondo, che sarà lungo 114 chilometri, dei quali ventidue interrati nelle condotte. Esso consentirà di strappare al deserto una superficie di 9.200 km2 con la quale potrà rifornire di cibo la popolazione ed esportare il surplus nei Paesi del Mediterraneo. Nelle vicinanze di questo fiume verrà costruita la nuova capitale, una città di alcuni milioni di abitanti, che dovrebbe ridurre la concentrazione abitativa delle altre. «Il New Delta Project si inserisce in questo quadro di grandi e vistose iniziative sponsorizzate e finanziate dal governo egiziano per assicurare una maggiore sicurezza alimentare. Come accennato, Il Cairo ha l’obiettivo di costruire il più lungo fiume artificiale al mondo che, in ottica governativa, andrà a rifornire di acqua una porzione di territorio davvero notevole, grande quasi come la nostra Basilicata. Le risorse idriche saranno fornite tramite la potente centrale di Al-Hamam, il più grande impianto di trattamento delle acque reflue agricole del mondo. A pieno regime, Al-Hamam tratterà sei milioni di m³ d’acqua al giorno che verranno impiegati per irrigare i numerosissimi campi che il governo ha intenzione di convertire da deserto a terreno coltivabile. Il fiume artificiale sarà costruito insieme ad una lunga rete di canali in cui l’acqua riconvertita dalla centrale sarà immessa per essere presa di volta in volta a scopi irrigui. Il meccanismo è simile a quello di una gigantesca arteria idrica da cui attingere in caso di necessità» (39).
Le Foggara, dai tempi preistorici ad oggi
Altre soluzioni per coltivare zone desertiche guardano al passato e, con le nuove tecniche, le antiche soluzioni tornano in uso. Si tratta delle Foggara o qanat, cioè tunnel sotterranei, che esistono da oltre tremila anni e sono anche citati dallo storico greco Polibio (206-118 a.C). Permettono la formazione di oasi utili per alcune colture e si sono evolute fin dalle epoche preistoriche. Sono frutto dell’ingegneria idraulica che sfrutta il fenomeno della condensa. «Si tratta di un sistema di piccole gallerie sotterranee drenanti, dalle quali sgorga l’acqua senza che ci sia una sorgente all’inizio del tunnel. In corrispondenza del tunnel sotterraneo, in superficie, si trovano delle costruzioni simili a piccoli e stretti pozzi, situati a circa 8–10 metri l’uno dall’altro, che comunicano con il tunnel principale e per effetto dell’inclinazione del tunnel e della differenza di temperatura, l’umidità si accumula per condensa formando così un piccolo rivolo d’acqua. Non sono pozzi, non vanno in profondità, non depauperano nulla, non intaccano il capitale idrico della falda; raccolgono solo ciò che andrebbe disperso (si può arrivare a raccogliere in una notte 5 litri d’acqua per una superficie di 20 metri quadrati). La foggara è convogliata sotto le case e le caverne e costituisce anche un sistema di condizionamento delle abitazioni, fino a terminare in una depressione ben delimitata che, così abilmente alimentata, diventa il giardino delle classiche palme da dattero (Phoenix dactylifera). Grazie alla loro ombra è così possibile veder crescere erbe aromatiche, fiori medicinali, frutti; non a caso gli Egizi nei periodi di crisi e siccità traevano sussistenza e cibo proprio dalle oasi in cui ancora oggi si coltivano, oltre ai datteri, agrumi, miglio, ortaggi, orzo e frutta» (40).
Il Sahara Forest Project
Un cenno merita, infine, un innovativo progetto realizzato in Giordania, che potrà estendersi anche ad alcune zone desertiche dell’Africa. Il Sahara Forest Project sfrutta l’acqua marina che viene portata all’interno del deserto con pompe, o fatta scorrere se l’area interessata è più bassa del livello del mare, quindi desalinizzata per evaporazione e successiva condensazione e utilizzata per la produzione agricola. Su tre ettari di deserto così trasformato si raccolgono centotrenta tonnellate di ortaggi su tre ettari e si desalinizzano diecimila litri di acqua al giorno offrendo lavoro a ottocento persone.
Conclusione
Il 26 agosto 2015 mons. Nicolas Djomo, vescovo di Tshumbe e presidente della Conferenza Episcopale della Repubblica Democratica del Congo, ha lanciato un pressante appello ai giovani africani della Gioventù Cattolica Panafricana riunita a Kinshasa, la capitale congolese. In quella occasione ha chiesto ai giovani di restare in Africa: «Voi siete il tesoro dell’Africa. La Chiesa conta su di voi, il vostro continente ha bisogno di voi» (41), invitandoli a non lasciarsi «[…] ingannare dall’illusione di lasciare i vostri Paesi alla ricerca di impieghi inesistenti in Europa e in America» e a utilizzare «[…] i vostri talenti e le altre risorse a vostra disposizione per rinnovare e trasformare il nostro continente e per la promozione della giustizia, della pace e della riconciliazione durature in Africa»(42).
L’Africa ha bisogno che i giovani rimangano a coltivare la loro feconda terra e che trasformino in fertili campi il deserto, consapevoli che «con il sudore del tuo volto mangerai il pane» (43), invece di farsi ingannare da facili guadagni ricavati da «impieghi inesistenti».
L’Africa ha bisogno dei giovani, come ha anche bisogno di ricevere il supporto culturale e tecnico dall’Occidente, frutto di secoli di crescita, iniziata nel lontano Medioevo, quando i monaci «[…] dissodano la terra, la bonificano, piantano alberi da frutto, seminano il grano, curano le vigne, allevano gli animali […]. Altro che secoli bui: la luce del Medioevo è dovuta in gran parte al monachesimo» (44).
L’Africa, come il mondo intero, ha bisogno della pace fra i popoli, perché solo con la pace è possibile vincere la fame.
Vedrà il mondo questo giorno?
Note:
1) Cfr., in ultimo, Francesco, Discorso ai membri del corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede per la presentazione degli auguri per il nuovo anno, 8-1-2024.
2) Cfr. Fame nel mondo: la situazione oggi e i cambiamenti previsti per il futuro, nel sito web <https://www.savethechildren.it/blog-notizie/fame-nel-mondo-la-situazione-oggi-e-i-cambiamenti-previsti-il-futuro> (gli indirizzi Internet dell’intero articolo sono stati consultati il 4-3-2024).
3) Cfr., sul tema, Daniele Fazio, Le opere di misericordia corporale, in Cristianità, anno XVLII, n. 395, gennaio febbraio 2019, pp. 31-62; nonché Idem, Le opere di misericordia spirituale, ibid., anno XVLI, n. 392, luglio-agosto 2018, pp. 41-68.
4) Sull’approccio della Chiesa cattolica alla questione in quegli anni, cfr. Francesco Vito (1902-1968) (a cura di), Il problema della fame nel mondo, Vita e Pensiero, Milano 1965.
5) Cfr. Pontificio Consiglio «Cor Unum», La fame nel mondo. Una sfida per tutti: lo sviluppo solidale, 4-10-1996. Fino a diversa indicazione le citazioni che seguono si riferiscono a questo documento.
6) Pio XII, Discorso ai partecipanti alla VIII sessione della Conferenza della FAO, 10-11-1955.
7) San Paolo VI, Discorso in occasione del 25° anniversario della FAO, 16-11-1970, n. 9.
8) Ibid., n. 10.
9) San Giovanni Paolo II, Discorso alla FAO,del 12-11-1979, n. 10.
10) Ibid., n.13.
11) Idem, Lettera enciclica «Centesimus annus» nel centenario della Rerum novarum, 1°-5-1991, n. 36.
12) Idem, Allocuzione ai partecipanti alla Conferenza Internazionale sulla nutrizione, 5-12-1992, n. 2.
13) San Giovanni Paolo II, Udienza generale, 13-11-1996, n. 1.
14) Ibid., n. 2.
15) Benedetto XVI, Visita alla FAO in occasione della 36a sessione della Conferenza Generale dell’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Alimentazione e l’Agricoltura, 16-11-2009, n. 2.
16) Cfr. Pontificio Consiglio della Famiglia, Dichiarazione sulla caduta della fecondità nel mondo, del 27-2-1998, anche in Cristianità, anno XXVI, n. 281, settembre 1998, pp. 3-7; sul tema della «bomba P», cfr. Lorenzo Cantoni, Il problema della popolazione mondiale e le politiche demografiche. Aspetti etici, Edizioni di «Cristianità», Piacenza 1994.
17) Benedetto XVI, Visita alla FAO in occasione della 36a sessione della Conferenza Generale dell’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Alimentazione e l’Agricoltura, cit., n. 2.
18) Ibidem.
19) Francesco, Discorso alla II Conferenza Internazionale sulla nutrizione presso la sede della FAO a Roma, 20-11-2014, n. 1.
20) Fondazione CESVI, Indice globale della fame, nel sito web <https://www.globalhungerindex.org/pdf/it/2016.pdf>, p. 8.
21) Cfr. Save the Children, Una fame da morire. Vecchie e nuove sfide nel contrasto alla malnutrizione,nel sito web <https://s3.savethechildren.it/public/files/uploads/pubblicazioni/una-fame-da-morire_0.pdf>.
22) Cfr. Adalberto Porrino, Desertificazione e perdita di vegetazione del pianeta, nel sito web <https://www.ilsussidiario.net/news/scienzainatto-desertificazione-e-perdita-di-vegetazione-del-pianeta/2544821>.
23) Popolazione di lingua bèrbera della regione del Fezzan [Libia] che fondarono un regno sviluppatosi fra il 500 a.C. e il 500 d.C. con capitale Garama. Furono sottomessi da Lucio Cornelio Balbo (60-13 a.C.) nel 19 a.C. e favorirono le spedizioni romane in Etiopia e in Sudan.
24) Giulio Albanese M.C.C.I., Quando il deserto era verdeggiante, in L’Osservatore Romano. Quotidiano politico religioso, 15-7-2022.
25) Ibidem.
26) Rosanna Montanaro, Catastrofi naturali ed antropiche come fattori di crisi? Il passaggio dall’antico regno al primo periodo intermedio, in Ahmes. Archaeological Heritage & Multidisciplinary Egyptological Studies, vol. 2, CNR edizioni, Roma 2015, pp. 27-44 (p. 30).
27) Card. Angelo Sodano,in Pontificio Consiglio «Cor Unum», La fame nel mondo una sfida per tutti: lo sviluppo solidale,cit.
28) Carlo Scaramella, La carestia del 1931-34 nell’Alto Giuba, Somalia italiana in Africa. Rivista trimestrale di studi e documentazione dell’Istituto italiano per l’Africa e l’Oriente, anno LII, n. 4, dicembre 1997, pp. 536-577 (p. 552), anche nel sito web <https://www.jstor.org/stable/40761226>.
29) Nella Somalia si distinguono quattro stagioni, due delle piogge e due secche. Gu è la stagione delle piogge, che corrisponde ai nostri mesi da aprile a giugno, quando i prati si ricoprono di fiori e ritorna la vita sociale; Jilal è la stagione che va da gennaio a marzo ed è la più siccitosa e difficile da affrontare; Dayr è l’altra stagione delle piogge, che va da ottobre a dicembre, quando possono aversi gravi alluvioni; Hagai è la stagione semi-arida, che va da luglio a settembre.
30) Cfr. Cormac Ó Gráda, Storia delle carestie,trad. it., il Mulino, Bologna 2011, pp. 22-23,ed Elenco delle carestie, in Wikipedia, nel sito web <https://it.frwiki.wiki/wiki/Liste_de_famines>.
31) Mario Giaccio, Il Climatismo: una nuova ideologia, 21mo Secolo, Milano 2015, IV di copertina.
32) G. Albanese M.C.C.I., Quando il deserto era verdeggiante, cit.
33) Roberto Giovannini, Una «muraglia verde» per fermare il Sahara. L’Africa adesso ci crede, in La Stampa, 11-12-2011.
34) Tommaso Carboni, Africa, un muro di alberi contro la grande migrazione, in La Stampa, 21-12-2017.
35) Stefano Manfredini; Silvia Vertuani e Valentina Buzzoni (del Dipartimento di Scienze Farmaceutiche dell’Università di Ferrara), Il Baobab farmacista, in L’integratore nutrizionale, anno V, n. 4, novembre-dicembre 2002, pp. 25-29.
36) Filippo Verre, L’Egitto e la costruzione del più grande fiume artificiale al mondo. Scenari e implicazioni idro-strategiche, in Silvae. Rivista tecnico-scientifica ambientale dell’Arma dei Carabinieri, del 5-6-2023, nel sito web <https://www.carabinieri.it/media—comunicazione/silvae/la-rivista/aree-tematiche/attualita/l-egitto-e-la-costruzione-del-pi%C3%B9-grande-fiume-artificiale-al-mondo.-scenari-e-implicazioni-idro-strategiche>.
37) Cfr. Aldo Liga, Egitto: vota un gigante alle corde, dell’8-12-2023, nel sito web <https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/egitto-vota-un-gigante-alle-corde-155913>.
38) La Diga Alta di Assuan: storia, curiosità, nel sito web <https://italiano.memphistours.com/Egitto/Guida/Aswan/wiki/La-Diga-Alta>.
39) F. Verre, art. cit.
40) Alberto Grieco, Fermare la desertificazione: il recupero delle oasi con tecniche tradizionali, nel sito web <https://www.architetturaecosostenibile.it/architettura/criteri-progettuali/fermare-desertificazione-recupero-oasi-tecniche-tradizionali-510>.
41) Radio Vaticana, Archivio Radiogiornale ore 14, del 2-8-2015, nel sito web <https://www.archivioradiovaticana.va/radiogiornale.asp?data=25/08/2015>.
42) Appello del vescovo ai giovani africani: «Restate per costruire», ibidem. Cfr. anche RECOWA. Regional Episcopal Conference of West Africa/CERAO. Conference Episcopale Regionale de l’Afrique de l’Ouest, «Conserviamo la Speranza!», in Cristianità, anno XLVII, n. 397, maggio-giugno 2019, pp. 56-62, e la presentazione di Andrea Morigi al documento, ibid., p. 55.
43) Gen 3,19.
44) Susanna Manzin, Pane & Focolare,D’Ettoris Editore, Crotone 2016, p. 68.