Recensione di Chiara Mantovani, Cristianità n. 425 (2024)
Aude Dugast, filosofa di formazione, è dal 2012 postulatrice della causa di canonizzazione del genetista francese Jérôme Jean-Louis Marie Lejeune (1926-1994), dopo essere stata vice-postulatrice nell’inchiesta diocesana.
Non lo ha mai incontrato personalmente e, se avesse inteso scrivere un romanzo, non le sarebbe bastata l’immaginazione per inventare un personaggio come Jérôme Lejeune. Ma con la rigorosa aderenza alle testimonianze raccolte negli anni dai diretti protagonisti e attingendo alla monumentale mole dell’archivio epistolare e documentale, è riuscita a fornire in sedici capitoli un efficace ritratto dell’uomo e del medico Lejeune.
Il libro, pubblicato in Francia nel 2019, si articola in sedici capitoli, un Epilogo (pp. 461-462), una Postfazione di Birthe Lejeune (pp. 463-464), i Ringraziamenti (pp. 465-466), un Glossario a cura di Pierluigi Strippoli (pp. 467-468), una Bibliografia (p. 469) e un prezioso Indice dei nomi (pp. 471-476).
La vita reale di questo eccezionale scienziato assomiglia troppo alla normalità dei santi: avversità, nemici e tradimenti, soprusi e contrattempi, dolori e malattia, ma sempre accompagnati con puntualità indefettibile da amici straordinari, da alleati inaspettati, da occasioni provvidenziali — quelle che ordinariamente sono chiamate coincidenze — colte con coraggio e arguzia. Ma, sopra ogni altra cosa, risalta una vita piena dell’amore di una famiglia unita e della gratitudine amorevole dei destinatari della sua missione professionale: i pazienti di un bravo medico. Pazienti speciali, che da lui ricevono addirittura il nome della propria malattia: Lejeune è lo scopritore della causa genetica della «trisomia 21», e di altre patologie, compresa quella di un’altra sindrome che non vuole chiamare con il suo nome — tutti gli scopritori di qualcosa se ne sono fatti vanto, lui no —, bensì come un segno diagnostico che la identifichi facilmente per i colleghi a venire, la malattia «cri-du-chat». Pazienti che nell’indifferenza, quando non nel disprezzo della società in cui vivono, trovano nel grande luminare la semplicità dell’approccio, lo sguardo di autentico rispetto, l’affetto di chi vuole loro bene per quel che sono e che restituisce a tanti di loro la percezione della propria dignità.
Questi pazienti ancor oggi possono avere la speranza che anche per loro si profilerà una terapia. Lejeune diceva: «Troveremo. È impossibile non trovare. È uno sforzo intellettuale molto meno difficile che mandare un uomo sulla luna». Qualcuno ancor oggi si sta impegnando su questa strada, affidandosi alle sue intuizioni, tanto è il credito che il suo rigore scientifico ha guadagnato e l’esempio della sua vita ha suscitato.
Già, uno sforzo intellettuale, una questione di volerlo e di immaginare come realizzarlo, pensava Jérôme. Che molto presto si scontra con un ostacolo umanamente insormontabile. No, non sono i fondi economici sempre insufficienti: a quelli si è abituati. Non sono nemmeno i collaboratori, pur difficilmente reperibili: il suo entusiasmo e la sua competenza li fanno sempre arrivare. Non è nemmeno l’immensità del lavoro che ha davanti: una sfida epocale in un ambito, la genetica, che ha pochi decenni di esperienza. La montagna da scalare, drammaticamente impraticabile, è la commistione fra indifferenza, relativismo, eugenetica e utilitarismo. Le quali, negli anni in cui egli lavora più intensamente, si impongono nel pensiero filosofico e nella antropologia di riferimento della pratica medica: aborto, selezione embrionale, fecondazione artificiale, congelamento di embrioni, utero in affitto, eutanasia, suicidio assistito. Tutto si annuncia, si delinea e si realizza in quei tempi, sconvolgendo l’essenza stessa della professione medica.
Pian piano, a mano a mano che le evidenze scientifiche che egli illustra con tanta chiarezza a chiunque sia intellettualmente onesto e disposto ad ascoltare (e non solo ad udire) — che siano i partecipanti ad una serata parrocchiale o membri delle Nazioni Unite, parlamentari britannici o giudici del Tennessee o dell’Oregon, come anche vescovi residenti in Vaticano o in Europa — diventano sempre più ingombranti per l’etica, succede che gli inviti si diradano, le condivisioni e gli onori sfumano, le affermazioni categoriche suscitano richiami alla prudenza, quando non al silenzio.
Chi affronterà queste pagine, prima o poi si scoprirà con le lacrime che offuscano la lettura. Perché il ritratto che ne esce è quello di un amico che si sarebbe tanto voluto conoscere, di un sorriso che si vorrebbe aver incrociato. Di un uomo mite e umile di cuore, di intelligenza vivissima e perciò di profonda fede.
Questa vivace e avvincente biografia, la vita di uno scienziato libero — così recita il sottotitolo — permette di scoprire lo spessore umano di un uomo evangelicamente «semplice» e la complessità provocatoria dei tempi che ha vissuto. Ci sono molti personaggi noti, che hanno intrecciato il loro cammino con il suo, molti dei cosiddetti «grandi» della terra, re, regine, presidenti e miliardari di ogni nazione e di tutti i continenti. Alcuni suoi amici, veramente grandi — li nomino come si chiamavano quando lui li ha conosciuti — da Giovanni Paolo II (1978-2005) a don Carlo Caffarra (1938-2017), da don Elio Sgreccia (1928-2019) a Carlo Casini (1935-2020), da Madre Teresa di Calcutta (1910-1997) a mons. Fiorenzo Angelini (1916-2014), da Stanisław Grygiel (1934-2023) a Wanda Półtawska (1921-2023), disegnano un orizzonte culturale che è facile definire come l’ambito della difesa della vita nascente.
Ma sarebbe addirittura ancora poco considerare «solo» questo: la grandezza di Jérôme Lejeune, scienziato amante del vero e dunque della libertà, è di aver difeso la persona umana concreta, viva e reale dal corto circuito di tutto ciò che vorrebbe ridurla a cosa giudicabile, negoziabile, scartabile. Insieme e indissolubilmente, questa difesa è stata da lui ricollocata nell’ambito della eccellente alleanza tra scienza e fede, cioè dei due mezzi dati all’uomo per cercare, trovare e indagare la concretezza della realtà.
La mattina del 3 aprile 1994, Pasqua di Resurrezione, un suo amico scorge un’ombra di tristezza sul volto di Giovanni Paolo II, solo guardandolo in televisione e, con un presentimento, chiama la famiglia Lejeune per sapere come sta Jérôme: non si sbaglia, il Papa ha appena saputo che il suo fraterno amico è morto. Tre anni più tardi, nel 1997, durante la Giornata Mondiale della Gioventù a Parigi, pur nell’ambito di un programma assai impegnativo, il Pontefice riuscirà a recarsi in forma privata sulla tomba di famiglia e, al termine della preghiera personale e intensa, intonerà il canto della Salve Regina, affidando il suo fidato consulente a Colei che entrambi hanno amato teneramente fin dall’infanzia. E, forse, chiedendoLe che anche dal Paradiso lui possa continuare ad aiutarlo nella sua missione per l’uomo, a maggior gloria di Dio.
Chiara Mantovani