Marco Invernizzi, Cristianità n. 426 (2024)
Una delle cose più difficili da comprendere e da accettare per il cattolico contemporaneo, che crede di essere cristiano e di appartenere sinceramente alla Chiesa cattolica, è di riconoscere che nell’epoca post 1989, chiamata dal card. Joseph Ratzinger (1927-2022) l’epoca della «dittatura del relativismo» (1), il nemico principale dell’opera evangelizzatrice della Sposa di Cristo non sono più le ideologie «forti» del secolo XX, ma l’indifferenza e l’accidia nei confronti delle «cose ultime» da parte della grande maggioranza delle persone. Per fare un confronto con la politica, mentre nel XX secolo a ogni tornata elettorale si cercava di capire se il Partito Comunista Italiano (PCI) o la Democrazia Cristiana (DC) avessero incrementato o diminuito i propri voti, oggi la prima cosa che si osserva è quanto siano diminuiti gli elettori recatisi alle urne. Se le cose stanno così, il primo ostacolo alla nuova evangelizzazione e il primo fattore di crisi dentro la Chiesa si trovano nel cuore dei fedeli, nell’indifferenza o nel concepire la fede soltanto come possibile soluzione dei propri problemi personali, trascurando completamente il dovere dell’apostolato o della testimonianza pubblica. Se la nuova evangelizzazione possa essere la soluzione alla crisi nella Chiesa contemporanea, dipende anzitutto dall’auto-evangelizzazione delle comunità cristiane e soprattutto dei singoli: ciascuno faccia un esame di coscienza prima di rispondere.
Chiesa, crisi e comunione
Il dono del riconoscimento ecclesiale, che Alleanza Cattolica ha ricevuto nel 2012, non è qualcosa di puramente simbolico ma il segno di un’appartenenza (2). Così, appartenere anche giuridicamente a un corpo aumenta pure le sofferenze, oltre alle grazie. Ciò fa sì che non possiamo guardare dall’esterno, come se la cosa non ci riguardasse, le sofferenze, le persecuzioni e anche i tradimenti che toccano il corpo di Cristo: «se un membro soffre, soffrono con esso tutte le altre membra; se un membro è onorato, ne gioiscono con esso tutte le altre membra (cfr. 1Cor 12,26)» (3).
La sofferenza è strettamente legata all’amore. Si soffre per ciò che si ama e quanto più si ama tanto più si soffre per le persecuzioni subite ma anche per le debolezze dell’amato. È molto importante purificare il nostro amore per la Chiesa, corpo mistico del Signore, affinché sia un amore che prevede anche la sopportazione delle debolezze di questo corpo, perfino dei peccati, perché sono le nostre debolezze e i nostri peccati.
La crisi nella Chiesa
La Chiesa cattolica non è soltanto semper reformanda, ma costantemente in crisi (4). È importante comprendere che non si tratta di una crisi della Chiesa ma nella Chiesa: essa, infatti, è il corpo di Cristo, il cui capo non può conoscere crisi, ma il suo corpo certamente sì, fin dall’inizio della sua storia. Sono state molte le crisi avvenute all’interno del corpo di Cristo nella storia: la crisi fra san Paolo e i giudaizzanti che volevano la Legge ebraica obbligatoria anche per i pagani, la crisi ariana del secolo IV, la crisi in occasione della lotta per le investiture nel secolo XI, la crisi che portò alla Riforma protestante nel secolo XVI, la crisi del Settecento culminata nella soppressione della Compagnia di Gesù da parte della Santa Sede nel 1773, infine la crisi contemporanea cominciata con l’eresia modernista a cavallo del secolo XX, nuovamente esplosa nel periodo successivo al Concilio Ecumenico Vaticano II (1962-1965) e non ancora conclusa (5).
Queste sono soltanto alcune delle principali crisi. Crisi in alcuni casi dottrinali, perché riguardanti il rifiuto di alcuni punti fondamentali della dottrina cattolica, ma più spesso crisi dovute a difficoltà inerenti al rapporto fede-mondo: crisi pastorali, potremmo dire, iniziate a causa dell’ostilità del mondo ma poi penetrate nella Chiesa.
Ogni crisi può essere salutare, come ha spesso sostenuto Papa Francesco, purché non degeneri in una divisione fra due diversi modi di concepire e di vivere la fede, che può condurre a una separazione astiosa, come nel caso dello scisma «ortodosso» del 1054 (6). Quando una divisione diventa così radicale andrebbe subito denunciata e bloccata, perché rischia di diventare insanabile.
Quale che sia la gravità di una crisi, essa è permessa da Dio per purificare la fede dei cristiani e non deve dunque spaventare o, peggio, indurre ad abbandonare la Chiesa, che rimane sempre la via ordinaria per la salvezza eterna, anche quando la crisi sembra colpire i Pastori, il loro insegnamento o la loro condotta. Non solo, ma il Magistero del Pontefice e dei vescovi in comunione con lui rimane comunque la guida ordinaria verso la salvezza, perché assistito dallo Spirito Santo (7).
La crisi attuale
La crisi nata all’inizio del Novecento sembra diventata ormai insanabile durante il pontificato di Francesco. Come premessa necessaria, bisogna rispondere a una domanda fondamentale: siamo di fronte alla stessa crisi, che nasce appunto con il modernismo durante i pontificati di Leone XIII (1878-1903) e di san Pio X (1903-1914), viene assorbita e attenuata nelle sue conseguenze durante i pontificati di Benedetto XV (1914-1922) e Pio XI (1922-1939), e riesplode con Pio XII (1939-1958)? È la stessa crisi che raggiunge un momento di grande rilevanza soprattutto mediatica con il Concilio Vaticano II e negli anni successivi, con l’assunzione del marxismo come filosofia sottostante alla forma più diffusa di «teologia della liberazione» e con il dilagare di un progressismo che ha esercitato per decenni una sorta di dittatura nei seminari, nelle università e nella cultura cattolica in generale, grazie anche a un vero e proprio «magistero parallelo» (8) dei teologi in opposizione a quello dei Pastori? È quella stessa crisi che continua durante i pontificati di san Paolo VI (1963-1978), san Giovanni Paolo II (1978-2005) e Benedetto XVI (2005-2013), che cercano di attuare il Magistero del Concilio in continuità con la Tradizione ecclesiale, per arrivare poi a uno scontro sempre più radicale interno alla Chiesa durante il pontificato di Francesco, accusato da «componenti» della Chiesa di volere sovvertire punti importanti della fede cattolica per attuare una pastorale di ricerca delle persone che, a diverso titolo, si sono allontanate dalla sposa di Cristo?
Ossia, siamo di fronte a un’unica crisi che si prolunga per tutto il secolo XX fra chi vuole rimanere fedele alla Chiesa di sempre, sebbene con diverse motivazioni e gradazioni, e chi invece vuole, con altrettante diversità al suo interno, una Chiesa capace di «penetrare» nella cultura dominante, per testimoniare la salvezza portata da Cristo in un mondo ormai completamente secolarizzato? E queste due modalità dell’essere cristiano, cioè la conservazione della fede nella sua integralità e il tentativo di proporla a tutti, compresi i più lontani, sono incompatibili oppure sono due fasi necessarie e complementari?
Oggi sembra che fra questi due «mondi cattolici» contrapposti non ci sia più volontà di dialogo: se qualcosa proviene da «Bergoglio», come con disprezzo viene chiamato il Pontefice, anche se espressione della più rigorosa fedeltà alla Tradizione, viene spesso rifiutato o addirittura accusato di essere strumentale per «far passare» le riforme con cui vorrebbe sconvolgere la Chiesa. All’opposto, ogni domanda legittima, non provocatoria, ogni osservazione critica fatta con rispetto e disponibilità all’obbedienza di un documento del regnante Pontefice così come di altri episodi della storia recente della Chiesa, vengono considerati come una messa in discussione della comunione ecclesiale.
Vi è un’altra osservazione preliminare da fare: di fronte ai due schieramenti vi è il Magistero, tutto il Magistero da san Pio X a Francesco, certamente segnato da stili e sfumature anche molto diverse, ma unito dalla volontà esplicita di continuare senza fratture bensì riformando la vita della Chiesa e la sua proiezione nel mondo nella continuità dell’unico soggetto che è la stessa Chiesa (9). Anche in due dei recenti documenti più contestati, Amoris laetitia, di Papa Francesco (2016) (10) e Fiducia supplicans, del Dicastero per la Dottrina della Fede (2023), nelle proposizioni criticate per come sono esposte, non solo non vi è la volontà esplicita di contraddire la dottrina precedente, ma vi è la ripetuta conferma della continuità con tale dottrina, sebbene con gli aggiornamenti resi necessari dai cambiamenti avvenuti. Questo non significa che i testi siano esenti da ambiguità, che hanno suscitato perplessità e domande legittime, nonché il disorientamento di interi episcopati, soprattutto nel continente africano, che si aggiunge all’insofferenza dell’episcopato nordamericano nei confronti del progressismo egemone, accanto ad attacchi polemici e oggettivamente lesivi della comunione ecclesiale.
Questo punto è importante perché indica nella fedeltà al Magistero l’unica via possibile per comporre la divisione, un Magistero che cambia nello stile e nelle priorità pastorali, così come nelle decisioni disciplinari, ma che comunque implica l’obbedienza da parte dei fedeli (11). In proposito, ricordo due episodi clamorosi nella storia della Chiesa che mostrano come i santi furono sempre obbedienti anche di fronte a decisioni discutibili che verranno ritirate, quali sono state la soppressione della Compagnia di Gesù (12) e la condanna di alcune proposizioni del beato Antonio Rosmini Serbati (1797-1855) (13).
Questa riflessione serve anche per operare un esame di coscienza. Capita ormai di incontrare persone che ritengono come determinati Pastori, anche Papi, siano dei nemici il cui insegnamento non vada mai diffuso. O, peggio, esiste in alcuni il «retropensiero» che alcuni Pastori enuncino certe tesi perfettamente ortodosse per confondere i fedeli facendo, con esse, passare anche le tesi ereticali.
Queste persone non credono più, di fatto, nella portata salvifica della Chiesa, quella esistente con i Pastori del momento, non quella idealizzata nei loro desideri. Questi atteggiamenti sono favoriti da determinati media, alcuni dei quali si professano cattolici, che seminano astio continuamente attaccando pastori e lo stesso Pontefice, manifestando un evidente disprezzo. Di essi ha parlato il cardinale Raniero Cantalamessa O.F.M. durante una predica quaresimale alla Curia romana: «meritano tutto il rispetto e la stima [quando] rilevano le storture della società o della Chiesa», mentre non svolgono la loro missione se «si accaniscono contro qualcuno per partito preso, semplicemente perché non appartiene al proprio schieramento». Tutto ciò «con cattiveria, con intento distruttivo, non costruttivo. Povero chi finisce oggi in questo tritacarne, sia egli un laico o un ecclesiastico» (14).
Il corpo di Cristo e il suo Vicario
La prerogativa della Chiesa cattolica di avere un Magistero ordinario al quale il fedele deve comunque portare l’«ossequio dell’intelligenza» è un dono straordinario che ha impedito nei secoli la penetrazione delle divisioni le quali, per esempio, caratterizzano la storia e l’attualità delle Chiese ortodosse e delle comunità protestanti (15). La divisione è una prerogativa del demonio, l’unità un dono spesso faticoso da accettare e da perseguire, ma certamente evangelico.
In un bel libro, don Roberto Regoli ha mostrato come la figura del Papa sia diventata ancora più importante durante il pontificato di Benedetto XVI (16). Nei momenti di crisi il cattolico deve guardare a Roma, alla sede di Pietro; di fronte ai dubbi e alle incertezze il fedele deve soprattutto fare riferimento a quel Magistero che riceve l’assistenza dello Spirito Santo, anche se la sua infallibilità è garantita soltanto in alcune circostanze specifiche. È a tutto il Magistero ordinario e universale che bisogna prestare obbedienza se si vuole ritrovare l’unità perduta.
Le cose si complicano quando sono proprio il Papa e il suo insegnamento a essere messi in discussione. Cercherò di ricostruire come sia stata presentata e percepita la nuova evangelizzazione nel corso del Novecento e nei primi decenni del secolo XXI, e come si sia manifestata la divisione nei confronti dei Papi succedutisi nella sede di Pietro. Divisa di fronte al rapporto da tenere con il mondo moderno fra progressisti e conservatori, la Chiesa ha visto al suo interno crescere due atteggiamenti contrapposti durante i pontificati del venerabile Pio XII, di san Giovanni XXIII (1958-1963), di san Paolo VI, di san Giovanni Paolo II, di Benedetto XVI e di Francesco. Due «partiti» si sono fronteggiati durante questi circa cento anni. Quasi tutti i Papi sono stati contestati da «destra» e da «sinistra» — uso per semplificare queste categorie che male si adattano alla realtà ecclesiale (17). Paolo VI è stato contestato da sinistra per la pubblicazione dell’enciclica Humanae vitae nel 1968, ma le prime ferite all’unità sono arrivate da «destra», in seguito alla sospensione a divinis dell’arcivescovo Marcel François Lefebvre (1905-1991) nel 1976 e alla successiva scomunica del presule, che nel 1988 avrebbe consacrato illegittimamente vescovi quattro dei suoi sacerdoti.
In entrambi i casi è mancata la fiducia nell’autorità della Chiesa, nell’assistenza al Pontefice da parte dello Spirito Santo. Si è considerata la Chiesa alla stregua di una realtà soltanto umana, come se fosse un partito diviso in correnti. Da una parte, si è spinta la Chiesa verso una riforma radicale, non soltanto degli aspetti mutevoli legati a una determinata condizione storica, e non la si è considerata come portatrice della Verità, dell’unico Salvatore; dall’altra parte si è pensato che la Chiesa tridentina non dovesse essere riformata con prudenza e pazienza per evangelizzare il mondo contemporaneo. Così è scoppiata una lotta fratricida non ancora finita: da una parte la Scrittura, dall’altra la Tradizione, dimenticando l’et et, garanzia dell’essere autenticamente cattolici. Certo, il modernismo ha ferito profondamente la Chiesa all’inizio del Novecento e forse non è mai scomparso, riproponendosi nel post-Concilio con una maggiore pericolosità, tanto da far dire al filosofo francese Jacques Maritain (1882-1973) che il primo era «un modesto raffreddore da fieno» (18) rispetto al successivo. Esso esplose con tutta la sua forza contro l’enciclica Humanae vitae di san Paolo VI — che nel 1968 condannava la contraccezione — mostrando che quella rivoluzione sessuale e antropologica, che avrebbe preso il nome di Sessantotto dall’anno in cui era scoppiata, aveva contaminato anche il mondo della cultura cattolica. Ma la legittima reazione non era sufficiente per rispondere alla sfida della Rivoluzione, ormai divenuta «culturale». Come ogni errore anche quello che spingeva a opporsi all’enciclica paolina rispondeva a un’esigenza di verità e il modo di affrontare il tema della retta sessualità andava ripensato e riformulato, presentando l’amore umano e la sessualità come un dono divino, e non tanto come una serie di divieti o come una jattura. Lo farà san Giovanni Paolo II con la «teologia del corpo», ma già la Humanae vitae conteneva in nuce un modo di presentare l’insegnamento della Chiesa sulla sessualità che ne rimarcava la bellezza nell’ordine della Creazione.
Contro san Giovanni Paolo II sono state raccolte le firme dei teologi progressisti che lo contestavano perché reclamava la loro obbedienza al Magistero (19), ma lo scisma è arrivato sull’altro fronte con la scomunica di mons. Lefebvre. Papa Ratzinger toglie la scomunica ai quattro presuli «tradizionalisti» (20) dopo avere liberalizzato l’uso del Messale Romano del 1962 (21), ma non si ricompone la frattura, mentre viene contestato sistematicamente dagli ambienti progressisti, sia come prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, sia negli anni del pontificato (2005-2013). Papa Francesco verrà contestato principalmente dai diversi ambienti conservatori, in generale ma soprattutto in occasione della pubblicazione dei documenti Amoris laetitia e Fiducia supplicans; gli ambienti progressisti, invece, lo criticheranno per non aver portato a termine le riforme da loro auspicate, nonostante il progressismo continui a essere egemone culturalmente e a conservare molte posizioni di rilievo nell’organismo ecclesiale, rendendo — soprattutto in alcune Chiese nordeuropee, e in quella tedesca in particolare, di fatto scismatiche — sempre più debole o ignorata la dottrina, ormai ritenuta irrilevante da molti. Fra i risultati negativi di ciò vanno segnalati almeno l’intolleranza nei confronti della celebrazione della Messa nella forma straordinaria del rito romano e l’indulgenza nei confronti di forme e ambienti apertamente eterodossi.
In tutti questi decenni chi ha risentito della divisione è stata soprattutto la nuova evangelizzazione, rilanciata dal Magistero, prima indirettamente, poi vero nomine, a partire da san Giovanni Paolo II, nel 1979: quando troppa è l’attenzione, diventata quasi morbosa, sulle vicende interne della Chiesa, quest’ultima diventa incapace e anche poco credibile per proiettare all’esterno il suo messaggio di salvezza.
Un altro paradigma
Mi ritornano spesso alla mente le parole del fondatore di Alleanza Cattolica, Giovanni Cantoni (1938-2020), quando, di fronte all’acuirsi della crisi nella Chiesa all’inizio del pontificato di Papa Francesco, sosteneva con uno dei suoi frequenti e penetranti aforismi che «noi giochiamo in un altro campionato». Che cosa voleva dire? Il riferimento era a quale atteggiamento Alleanza Cattolica avrebbe dovuto assumere di fronte alla divisione nella Chiesa — che stava crescendo e sarebbe cresciuta — fra cosiddetti tradizionalisti e cosiddetti progressisti. «Giocare in un altro campionato» per Cantoni voleva dire che era un altro lo sguardo con cui dovevamo osservare la vita della Chiesa e i suoi rapporti con il mondo contemporaneo. La soluzione non era e non è concentrarsi sulla difesa della dottrina o al contrario metterla da parte per favorire le buone relazioni con chi ha abbandonato la fede o non la ha mai conosciuta, ma appunto «giocare in un altro campionato» cioè, nella logica dell’et et, tenere alla dottrina come a qualcosa di santo (22) e contemporaneamente cercare le modalità, le parole adatte, e soprattutto approfondire la fede per comunicarla meglio, in un modo attrattivo e adeguato al linguaggio e alla mentalità delle persone a cui ci si deve rivolgere. Dottrina e pastorale, dunque: non l’una senza l’altra, ma nemmeno la pastorale senza la dottrina o, peggio, la pastorale che nella prassi dimentica o vanifica la dottrina.
Cantoni invitava a uscire dalla logica dello scontro fra cosiddetti tradizionalisti e progressisti, cosiddetti perché un cattolico di per sé è l’uno e l’altro, cioè fonda sulla Tradizione e la Scrittura la propria fede e sa che la stessa fede incarnata nella cultura genera, come ha generato soprattutto in Occidente, un progresso materiale oltre che spirituale e intellettuale (23). Ma qual era l’altro campionato? Qual era il paradigma a cui fare riferimento? Ancora una volta era ed è il Magistero a indicare la strada. Che cosa unisce l’insegnamento dei Pontefici da Pio XII a Francesco, al di là di differenze di stile, di atteggiamenti e di cultura, anche sensibili? La risposta sta nella convinzione contenuta nel Magistero, secondo cui negli antichi Paesi cristiani si è rotto quel rapporto tra fede e cultura che costituisce il maggior dramma della nostra epoca, come scrive san Paolo VI nell’esortazione apostolica Evangeli nuntiandi (24), e di conseguenza sorge la necessità di una nuova evangelizzazione, che successivamente ha portato Benedetto XVI a istituire un nuovo dicastero, dedicato appunto alla nuova evangelizzazione.
Se così stanno le cose, la soluzione non consiste nella contrapposizione fra dottrina e azione, fra chi si preoccupa della prima e chi pratica soltanto la seconda senza attenzione, anzi spesso con avversione, per la dottrina. Sbaglia chi pensa in modo fondamentalista che sia sufficiente dire pubblicamente la verità per sentirsi assolti in coscienza, quasi che la fede sia qualcosa di magico che si realizza perché viene pronunciata una formula. Ma sbaglia anche chi pensa che non ci sia bisogno di alcuna dottrina della fede, e che l’essenziale sia compiere delle buone azioni che nascono dalla fede, come aiutare i poveri, soccorrere gli ammalati, curare le persone ferite dalle piaghe spirituali e materiali del nostro tempo.
Indubbiamente esistono priorità diverse, a seconda degli ambienti, delle associazioni e dei vari movimenti, dei pastori con le loro diverse sensibilità, ma la domanda che bisognerebbe porre a ogni cattolico è un’altra: che cosa fai, quanto preghi, come ti sacrifichi e ti impegni per trasmettere la fede ai tuoi contemporanei? Come ti poni in sostanza verso la nuova evangelizzazione? Se sei un parroco, hai cercato di adeguare la pastorale alla missionarietà richiesta da tutti i Pontefici moderni fino a Papa Francesco? Se sei un laico, che cosa cerchi di fare nel tuo ambiente perché possa penetrare la fede?
La nuova evangelizzazione
Che cosa significa nuova evangelizzazione? Il termine venne usato per la prima volta da san Giovanni Paolo II nel giugno 1979 durante il suo primo e importantissimo viaggio pastorale in Polonia, ma in realtà il tema di sottofondo è molto precedente e sostanzialmente già presente nel Magistero di Pio XII.
Qual è il tema messo a fuoco dalla nuova evangelizzazione? Il punto di partenza è la constatazione del venire meno della società cristiana e della centralità della Chiesa cattolica nella vita pubblica dei Paesi occidentali. Questo modo di guardare e giudicare il portato secolaristico della modernità era cominciato molto prima del 1979: la raccolta degli interventi pontifici sul tema significativamente esordisce con il pontificato di Pio XII (25). Il fenomeno che ha creato questa situazione può essere identificato genericamente nel secolarismo, cioè in quella separazione tra fede e cultura sopra evocata come dramma dell’epoca di allora e di oggi. Peraltro, è indubbio che il tema della nuova evangelizzazione divenne attuale soprattutto dieci anni dopo il 1979, in seguito alla rimozione del Muro di Berlino e alla successiva dissoluzione dell’Unione Sovietica, nel 1991, che segnò la fine della Guerra Fredda.
Nuova evangelizzazione e Vaticano II
Inoltre, il tema della nuova evangelizzazione è sottinteso in molti documenti del Concilio Vaticano II. La lettura dell’Enchiridion della nuova evangelizzazione è molto utile perché dai documenti del Magistero riporta in successione — ma anche attraverso l’indice dei temi — le parti relative alla nuova evangelizzazione. Molto importante è il discorso con cui Papa san Giovanni XXIII inaugura l’11 ottobre 1962 i lavori conciliari e dove il Pontefice detta la linea dei lavori da intraprendere: guardare con amore la dottrina di sempre, ma approfondirla per diventare capaci di riproporla con le parole adatte a renderla comprensibile all’uomo contemporaneo. Rileggere oggi i documenti del Vaticano II mostra come quelle parole rappresentino lo sforzo, legittimo e doveroso, di evangelizzare gli uomini che si erano allontanati, partendo da come si trovano, senza giudicarli o condannarli, ma aiutandoli a convertirsi. Tutti ormai conoscono la lettura rivoluzionaria data ai lavori conciliari da parte di chi ha voluto trasformare il Concilio in un punto di partenza per costruire una nuova Chiesa, slegata dalla precedente (26). Ma è anche altrettanto evidente come il Magistero dei Papi si sia sempre opposto a questa lettura arbitraria (27), fino alla definitiva posizione espressa da Benedetto XVI nel già ricordato discorso alla Curia romana, del 2005, in cui parlò del Concilio Vaticano II come di una «riforma nella continuità dell’unico soggetto Chiesa» (28). Riforma e continuità, dunque, cioè cambiamento dello stile di comunicazione e di atteggiamento verso gli uomini del mondo contemporaneo, ma nella fedeltà alla dottrina di sempre.
Il Concilio si chiudeva con un discorso di Paolo VI, il 7 dicembre 1965, che rinnovava l’appello del suo predecessore all’evangelizzazione del mondo contemporaneo. Spesso si presenta il Vaticano II come un Concilio rivoluzionario perché ha voluto riconciliare la Chiesa con il mondo moderno, superando le contrapposizioni del passato. Spesso chi sostiene superficialmente queste posizioni non ha letto i documenti dell’assise, ma si richiama al cosiddetto «spirito del Concilio», cioè alla lettura che ne danno coloro che sostengono appunto la tesi della «rottura» con la Chiesa precedente. Ora, se è indubbio che la Chiesa ha voluto «riformare» il linguaggio e il modo di presentare la fede nel modo più attrattivo possibile per gli uomini del tempo, è altrettanto vero che lo ha fatto nella continuità di un giudizio severo sulla modernità, «un tempo, che ognuno riconosce come rivolto alla conquista del regno della terra piuttosto che al regno dei cieli; un tempo, in cui la dimenticanza di Dio si fa abituale e sembra, a torto, suggerita dal progresso scientifico; un tempo, in cui l’atto fondamentale della personalità umana, resa più cosciente di sé e della sua libertà, tende a pronunciarsi per la propria autonomia assoluta, affrancandosi da ogni legge trascendente; un tempo, in cui il laicismo sembra la conseguenza legittima del pensiero moderno e la saggezza ultima dell’ordinamento temporale della società; un tempo, inoltre, nel quale le espressioni dello spirito raggiungono vertici d’irrazionalità e di desolazione; un tempo, infine, che registra anche nelle grandi religioni etniche del mondo turbamenti e decadenze non prima sperimentate» (29). Non proprio uno sprovveduto ottimismo, come si è voluto far credere. Certo, nel prosieguo del discorso si parla di fiducia nell’uomo, di dialogo, di sforzo straordinario della Chiesa per «parlare» all’uomo che a causa della modernità si è allontanato dalla fede, ma lo si fa sempre nella piena consapevolezza che la spiritualità del Buon Samaritano a cui si richiama il Concilio ha come prospettiva la guarigione e la salvezza: «L’umanesimo laico profano alla fine è apparso nella terribile statura ed ha, in un certo senso, sfidato il Concilio. La religione del Dio che si è fatto Uomo s’è incontrata con la religione (perché tale è) dell’uomo che si fa Dio. Che cosa è avvenuto? uno scontro, una lotta, un anatema? poteva essere; ma non è avvenuto. L’antica storia del Samaritano è stata il paradigma della spiritualità del Concilio. Una simpatia immensa lo ha tutto pervaso. La scoperta dei bisogni umani (e tanto maggiori sono, quanto più grande si fa il figlio della terra) ha assorbito l’attenzione del nostro Sinodo. Dategli merito di questo almeno, voi umanisti moderni, rinunciatari alla trascendenza delle cose supreme, e riconoscerete il nostro nuovo umanesimo: anche noi, noi più di tutti, siamo i cultori dell’uomo» (30).
1975: tra comunismo e missione
Dopo il Concilio, la Chiesa conobbe una stagione difficile a causa dell’aggressione esterna, nell’Occidente non comunista, da parte di quella rivoluzione antropologica che prese il nome dall’anno 1968. Il Sessantotto era una rivolta contro l’insegnamento cristiano sulla vita, sulla famiglia, sulla sessualità e metteva in discussione il principio di autorità ai diversi livelli della vita sociale. Esso aveva due dimensioni, una politica che sfociò anche nel terrorismo senza peraltro incontrare grandi successi sulla lunga distanza, e una invece antropologica, che sradicò un’intera generazione dalle sue radici cristiane (31). Questa rivoluzione ebbe conseguenze di lunga durata anche dentro la Chiesa, provocando un massiccio abbandono dell’appartenenza e della pratica della vita religiosa da parte soprattutto dei giovani. Il mondo cattolico fu colto impreparato da una rivoluzione culturale che aveva avuto i suoi primi episodi nei campus universitari americani, nelle manifestazioni contro la guerra nel Vietnam del Sud (1955-1975), e si era poi trasferita in Europa culminando nel celebre «maggio francese», dove per oltre un mese un quartiere di Parigi passò sotto l’esclusivo controllo degli studenti in rivolta. I cattolici e le forze conservatrici in generale non si erano accorti negli anni precedenti che l’avanzare del secolarismo ideologico stava cambiando il senso comune degli europei, a partire dai giovani, non si erano neanche accorti di come la vita religiosa delle parrocchie stava diventando una pratica abitudinaria e non avevano colto l’invito del Concilio Vaticano II ad approfondire la fede per poterla poi trasmettere in un contesto sociale in veloce cambiamento (32). Cattolici e conservatori stettero all’inizio come alla finestra, sperando che passasse il pericolo come accadde in Francia con la reazione vincente guidata dal generale Charles De Gaulle (1890-1970). Ma non si avvidero che, se stava passando il rischio «politico» di un avvento al potere in Occidente delle forze comuniste, non sarebbe passata senza lasciare una profonda ferita antropologica la rivoluzione culturale: i fedeli cattolici, soprattutto i giovani, lasciarono le organizzazioni ecclesiali, come testimonierà il servo di Dio monsignor Luigi Giussani (1922-2005) in una intervista al giornalista Roberto «Robi» Ronza (33), e come spiegherà Joseph Ratzinger, raccontando ciò che avveniva nelle università tedesche in quegli anni (34).
«Humanae vitae» ed «Evangelii nuntiandi»
Fra i primi a comprendere la portata di quanto stava accadendo fu Paolo VI. Nello stesso 1968 pubblicò la sua enciclica dedicata al tema della trasmissione della vita proprio nel periodo in cui, con l’invenzione e con la commercializzazione della pillola anticoncezionale, si potevano separare con metodi artificiali la sessualità e la trasmissione della vita. L’enciclica era un esplicito rifiuto di ogni metodo e strumento contraccettivo e ricordava come l’unione sessuale fra i coniugi e la trasmissione della vita fossero princìpi costitutivi e inscindibili del matrimonio secondo tutta la tradizione magisteriale della Chiesa. Il suo insegnamento venne però rifiutato o contestato da settori importanti del mondo cattolico, specialmente quello culturale e politico (35). Era questo il segno che un pensiero ormai non più cattolico stava entrando o era già penetrato fra i credenti impegnati (36): come disse Paolo VI, il «fumo di satana» stava penetrando nel popolo di Dio, provocando l’«autodemolizione» della stessa Chiesa (37). Il Pontefice passò gli ultimi dieci anni del suo pontificato a cercare di correggere l’interpretazione corrente del Concilio come rottura rispetto alla Tradizione e alla storia precedente della Chiesa. Egli si rendeva conto, come peraltro aveva fatto il suo predecessore convocando il Concilio, che la Chiesa in Occidente non faceva più presa sul popolo perché la religione e la cultura stavano andando in direzioni opposte. Per questo motivo pubblicò nel 1975 la Evangelii nuntiandi, in cui ricordava che per sanare la frattura fra Vangelo e cultura fosse necessaria una ripresa della missione evangelizzatrice che investisse anche la cultura e mirasse a rimodificare in senso evangelico i criteri di giudizio, oltre che i comportamenti, degli uomini contemporanei. L’anno 1975 era un anno particolare perché, con la caduta di Saigon, capitale del Vietnam libero, nelle mani del Vietnam comunista, il rischio di una espansione mondiale del comunismo, guidata dall’URSS, sembrava inevitabile e tangibile. Agli scontenti del comunismo «burocratico» dell’Unione Sovietica veniva offerta un’alternativa, quella «maoista» cinese, più seducente per i giovani occidentali, anche se al termine della Rivoluzione culturale, nel 1975, ancora non si conoscevano i danni terribili provocati nei nove anni precedenti dalla sanguinosa «riforma» voluta dal dittatore cinese Mao Zedong (1893-1976) (38).
E tuttavia, nonostante i successi nel mondo, l’idea comunista era in crisi, non soltanto nella sua versione sovietica, ma anche in quella «cinese», che non riuscì a uscire dal Paese di origine e a suscitare in Europa consensi significativi.
Alla fine degli anni 1970 il pontificato di Paolo VI volgeva al tramonto. Il Papa era visibilmente stanco e provato dal «tradimento» riservato alla sua ultima enciclica, la Humanae vitae. L’acuirsi del terrorismo in Italia, con il rapimento e l’assassinio del segretario della DC on. Aldo Moro (1916-1978), avrebbe accentuato il suo dolore, come si vide chiaramente negli accorati appelli pubblici per la sua liberazione e, soprattutto, nel giorno dei funerali celebrati dallo stesso Pontefice nella basilica di San Giovanni in Laterano, il 13 maggio 1978.
Il 1975 però era soprattutto un Anno Santo e, a dispetto di una Chiesa sconfitta, o almeno apparentemente in profondo disarmo, il Papa continuava a insegnare e a raccomandare l’essenza missionaria della fede cristiana, come era stato confermato nell’ultimo Concilio, e lo fece con queste parole: «la Missione, cioè l’annuncio del Vangelo a tutte le genti, non è superata, non è in se stessa facoltativa; essa è fondata sul disegno divino, sulla teologia della salvezza, sull’autorità perennemente affermata della Chiesa e sulla documentazione recente e solenne del Concilio Vaticano II» (39). Ma la missione riguarda tutta la Chiesa, sia quella che opera in prima linea sia quella già impiantata da secoli. Il Papa si riferisce a entrambe le situazioni: «Le due situazioni hanno un comune bisogno: quello della coscienza missionaria, che la Chiesa ha sviluppato in questi ultimi tempi e che il Concilio ha tradotto in termini teologici e moderni. Si tratta ora di approfondire questa dottrina missionaria per scoprirla come radice stessa del piano divino della salvezza; è dottrina essenziale e vitale, non solo complementare e facoltativa; è lo sforzo normale e instancabile che il Popolo di Dio, la Chiesa, deve compiere per realizzare il programma che lo definisce: essere apostolico e universale» (40).
1989: il Muro rimosso
Dopo la morte di Paolo VI e il brevissimo pontificato di soli trentatré giorni del card. Albino Luciani (1916-1978) con il nome di Giovanni Paolo I, fu eletto Pontefice Karol Wojtyła, un cardinale polacco, arcivescovo di Cracovia, che prese il nome di Giovanni Paolo II.
Durante il suo lungo pontificato (1978-2005), nel novembre del 1989, avvenne la rimozione del Muro eretto nel 1962 per dividere in due l’ex capitale del Reich, Berlino: una di quelle date che segnano uno spartiacque nella storia del mondo e che naturalmente ebbe un impatto importantissimo anche nella vita della Chiesa, soprattutto riguardo alla nuova evangelizzazione. Tuttavia, durante gli anni 1980, san Giovanni Paolo II aveva ripetutamente trattato il tema, sia auspicando il ritorno dell’Europa alle sue radici culturali, sia denunciando il secolarismo e l’ateismo e ricordando come questi due fenomeni culturali potevano essere sconfitti soltanto con una nuova evangelizzazione. Furono gli anni del tramonto delle ideologie e, contemporaneamente, del rischio di una guerra atomica, proprio perché il comunismo sovietico avrebbe potuto tentare il «tutto per tutto» per uscire dalla crisi di sistema in cui dal 1979 iniziava sempre più chiaramente a dibattersi. Poco prima del 1989 il Papa formulò una delle descrizioni più significative della nuova evangelizzazione, nell’ambito dell’esortazione apostolica Christifideles laici sull’apostolato dei laici: «Interi paesi e nazioni, dove la religione e la vita cristiana erano un tempo quanto mai fiorenti e capaci di dar origine a comunità di fede viva e operosa, sono ora messi a dura prova, e talvolta sono persino radicalmente trasformati, dal continuo diffondersi dell’indifferentismo, del secolarismo e dell’ateismo. Si tratta, in particolare, dei paesi e delle nazioni del cosiddetto Primo Mondo, nel quale il benessere economico e il consumismo, anche se frammisti a paurose situazioni di povertà e di miseria, ispirano e sostengono una vita vissuta “come se Dio non esistesse”» (41). Se questa poteva essere la situazione, per esempio, dei Paesi dell’Europa settentrionale, dove l’erosione del cristianesimo, specialmente nella confessione protestante, riguardava molto in profondità il corpo sociale, altrove, sempre in antichi Paesi cristiani, l’erosione della fede era meno avanzata, ma comunque preoccupante: «In altre regioni o nazioni, invece, si conservano tuttora molto vive tradizioni di pietà e di religiosità popolare cristiana; ma questo patrimonio morale e spirituale rischia oggi d’essere disperso sotto l’impatto di molteplici processi, tra i quali emergono la secolarizzazione e la diffusione delle sette». Dunque, il rimedio era un grande disegno di apostolato, un rinnovato entusiasmo per la diffusione della fede, nella convinzione che soltanto Cristo avrebbe potuto comunicare la bellezza e dare un senso alla vita di uomini imbevuti di consumismo e di materialismo pratico, che avevano sostituito il marxismo come «pensiero dominante» dopo il 1989. Era, appunto, l’auspicio di una nuova stagione missionaria, rivolta non soltanto ad gentes, ma anche a coloro che vivevano in Occidente accanto ai cristiani e però avevano perso la fede o non l’avevano mai avuta: «Solo una nuova evangelizzazione può assicurare la crescita di una fede limpida e profonda, capace di fare di queste tradizioni una forza di autentica libertà» (42).
Il Muro si aprì — e poi fu in parte smantellato a poco a poco dai berlinesi — nella notte del 9 novembre 1989. San Giovanni Paolo II aveva avuto certamente un ruolo, soprattutto legato ai fatti di Polonia, dove il suo primo viaggio apostolico nel giugno del 1979 aveva accentuato la reazione anticomunista dei polacchi, soprattutto quella dei lavoratori inquadrati nel sindacato Solidarność. Fra l’altro, proprio durante questo viaggio il Papa usò per la prima volta il termine «nuova evangelizzazione» e lo fece precisamente a Nowa Huta, il nuovo grande quartiere industriale nei pressi di Cracovia, che nelle intenzioni del regime avrebbe dovuto essere senza una chiesa per indicare la completa autosufficienza dell’uomo comunista: qui il 9 giugno disse che «in questi nuovi tempi, in queste nuove condizioni di vita — torna ad essere annunziato il Vangelo. È iniziata una nuova evangelizzazione, quasi si trattasse di un secondo annuncio, anche se in realtà è sempre lo stesso» (43).
Tutto il Magistero di Papa san Giovanni Paolo II e tutta la sua azione diplomatica — che non abrogò l’Ostpolitik dei suoi predecessori ma preferì rivolgersi direttamente ai popoli oppressi dal socialismo reale — erano un invito al popolo polacco non a insorgere ma a scoprire le proprie radici, da cui scaturiva una identità nazionale certamente in antitesi al regime: in questo senso il Papa faceva riferimento a una vera e propria seconda evangelizzazione dopo la prima e dopo il lungo periodo comunista nel quale l’annuncio del Vangelo era stato proibito o almeno fortemente ostacolato.
La libertà di comunicazione fra Est e Ovest che si instaurò con la fine della Guerra Fredda permise alla Chiesa di svolgere liberamente il proprio apostolato nei Paesi dove era stata oppressa, anche in Russia, seppure con tutte le difficoltà dovute alla presenza maggioritaria della Chiesa ortodossa, particolarmente gelosa della propria rappresentanza esclusiva in quello che riteneva essere il proprio «territorio canonico».
Due anni dopo il novembre del 1989, il Papa riunì i vescovi europei per un’assemblea sinodale speciale dedicata all’Europa, che egli stesso concluse, dicendo fra l’altro: «Il filo conduttore dei nostri lavori è stato la libertà. Vi è certamente in questo un certo riflesso degli avvenimenti, degli avvenimenti inaspettati dell’anno 1989. Guardando con gli occhi della fede cerchiamo di scoprire in questi avvenimenti i “segni dei tempi”, cioè il “kairós” biblico che si manifesta nella storia umana» (44).
Era la prima volta dopo la conquista del potere da parte dei partiti comunisti nell’Europa orientale che era possibile una riunione di tutti i vescovi europei. Adesso la Chiesa in Europa poteva veramente respirare con due polmoni, quello occidentale e quello orientale. Il Pontefice aveva anticipato i tempi con la proclamazione dei santi fratelli Cirillo (826/827-869) e Metodio (815/825-885) a compatroni d’Europa insieme con san Benedetto da Norcia (480-547) nel 1980, con la lettera apostolica Egregiae virtutis (45), ma adesso il Magistero del Papa sull’Europa poteva veramente rivolgersi a tutti i popoli, finalmente liberi di accettare la proposta cristiana, senza dover rischiare la vita o la libertà.
Aprendo nell’isola caraibica di Santo Domingo, il 12 ottobre 1992 — cinquecento anni dopo lo sbarco in America di Cristoforo Colombo (1451-1506) —, i lavori della IV Conferenza Generale dell’Episcopato Latino-americano, san Giovanni Paolo II spiegava sempre più in dettaglio che cosa intendesse per nuova evangelizzazione: «La nuova evangelizzazione non consiste in un “nuovo vangelo”, che deriverebbe sempre da noi stessi, dalla nostra cultura, dalla nostra analisi delle necessità dell’uomo. Perché questo non sarebbe “vangelo”, ma pura invenzione umana e non vi sarebbe in esso salvezza. Né si tratta di tagliare fuori dal Vangelo tutto ciò che sembra difficilmente assimilabile alla mentalità odierna. Non è la cultura la misura del Vangelo, ma è Gesù Cristo la misura di ogni cultura e di ogni azione umana. No, la nuova evangelizzazione non nasce dal desiderio di “piacere agli uomini” o di “guadagnare il loro favore” (cf. Gal 1, 10), ma dalla responsabilità verso il dono che Dio ci ha fatto in Cristo, nel quale abbiamo accesso alla verità su Dio e sull’uomo, e alla possibilità della vita autentica. La nuova evangelizzazione ha, come punto di partenza, la certezza che in Cristo c’è una “imperscrutabile ricchezza” (cf. Ef 3, 8), che nessuna cultura né epoca alcuna possono esaurire e alla quale possiamo sempre ricorrere noi uomini per arricchirci (cf. Assemblea Speciale Sinodo dei Vescovi per l’Europa, Dichiarazione conclusiva, 3). Questa ricchezza è, innanzitutto, Cristo stesso, la sua persona, perché Egli è la nostra salvezza. Noi uomini, di qualsiasi epoca e cultura, possiamo, avvicinandoci a Lui attraverso la fede e l’incorporazione al suo Corpo che è la Chiesa, trovare risposte a queste domande, sempre antiche e sempre nuove, con le quali affrontiamo il mistero della nostra esistenza, e che portiamo indelebilmente impresse nel nostro cuore fin dalla creazione e dalla ferita del peccato» (46).
Fu uno dei discorsi più importanti in tema di nuova evangelizzazione. Il Pontefice ribadì con forza che la nuova evangelizzazione non poteva confondersi con false cristologie in dissenso con il vero Cristo insegnato dal Magistero della Chiesa, al cui insegnamento i teologi dovevano allinearsi evitando di professare «teologie parallele». La novità della nuova evangelizzazione stava nel metodo e nell’entusiasmo, nella «parresia» dei cristiani. Non si tratta di imporre un modello, anche se vero, ma di attrarre l’uomo contemporaneo a una Persona, il Figlio di Dio, con un conseguente, radicale cambiamento della stessa vita sociale. «La nuova evangelizzazione deve fornire, dunque, una risposta integrale, pronta, agile, che renda più forte la fede cattolica, sulle sue verità fondamentali, sulle sue dimensioni individuali, famigliari e sociali» (47).
La dimensione sociale della nuova evangelizzazione
Nello stesso discorso il Papa affrontò il tema del legame fra l’evangelizzazione e la dottrina sociale. È evidente che in una società secolarizzata — nel senso ideologico del termine —, prima di ogni discorso riguardante la dottrina sociale è necessario annunciare Cristo e la sua salvezza e soltanto successivamente si possono affrontare i temi sociali e politici. Come questo possa avvenire, con quali modalità anche cronologiche, credo debba essere lasciato alla pratica pastorale. Quel che è certo è che deve avvenire, secondo l’insegnamento del Papa, o almeno che i cattolici devono provare a manifestarlo concretamente, perché «la sollecitudine per il sociale “fa parte della missione evangelizzatrice della Chiesa” (Sollicitudo rei socialis, 41) ed è anche “parte essenziale del messaggio cristiano, perché tale dottrina ne propone le dirette conseguenze nella vita della società e inquadra il lavoro quotidiano e le lotte per la giustizia nella testimonianza a Cristo Salvatore” (Centesimus annus, 5)» (48). Fra queste conseguenze vi è anche l’attenzione ai poveri. Il Papa rifiutò in quel contesto ogni ideologizzazione del tema della povertà, perché la salvezza è per tutti gli uomini, ma ribadì anche l’«opzione preferenziale» per i poveri da parte della Chiesa. Chi ha voluto allora — ma vale anche oggi — contrapporre il cristianesimo dei «valori non negoziabili» a quello «del sociale» attento ai poveri, trova una costante smentita nell’insegnamento della Chiesa e in particolare in questo discorso di san Giovanni Paolo II.
In un’altra occasione, pure del 1992, il Papa tornò sul legame fra evangelizzazione e dottrina sociale, ricordandone l’importanza assoluta e chiedendosi — domande ancora oggi valide — se i cattolici, Pastori e fedeli, siano veramente obbedienti alle indicazioni del Magistero su tale punto: «Essa [la dottrina sociale] è compresa e accettata negli ambienti culturali e pastorali così diversi presenti all’interno della Chiesa? E se si è convinti che questa dottrina è destinata, per la sua stessa natura, a dare sostegno all’edificazione di una società giusta, sul piano nazionale come sul piano internazionale, non bisognerebbe interrogarsi su cosa si fa affinché essa arrivi agli uomini e alle donne da cui dipende la sorte di queste società, all’interno e all’esterno della Chiesa?» (49). Il Pontefice non ebbe dubbi in proposito, perché considerava la diffusione della dottrina sociale uno degli strumenti scelti dallo Spirito santo affinché la Chiesa fosse presente e potesse evangelizzare il mondo. Ma si tratta di una domanda che anche oggi ogni vescovo, parroco, movimento o associazione veramente fedele all’insegnamento pontificio dovrebbero porsi.
Cultura ed evangelizzazione
Nonostante le parole dei Pontefici sul legame tra fede e cultura, la sua vigenza stenta a penetrare nel modo di vivere la fede di molti cristiani, allora come adesso, forse perché essi patiscono una sudditanza psicologica nei confronti del pensiero dominante oppure per il prezzo che si paga oggi per dare giudizi culturali ispirati alla fede — giudizi evidentemente in controtendenza rispetto al pensiero unico dominante — oppure, ancora, per quel timore di essere marginalizzati dall’ambiente in cui si vive o si lavora. Quale che sia il motivo, la rottura fra Vangelo e cultura denunciata da Paolo VI nel 1975 rimane il dramma della nostra epoca, anche mezzo secolo dopo.
San Giovanni Paolo II è stato chiaro sull’importanza dell’inculturazione: «l’evangelizzazione delle culture rappresenta la forma più profonda e globale di evangelizzare una società, poiché attraverso di essa il messaggio di Cristo penetra nelle coscienze delle persone e si proietta nell’“ethos” di un popolo, nelle sue attività vitali, nelle sue istituzioni e in tutte le strutture (cf. Discorso agli intellettuali e al mondo universitario, Medellín 5 luglio 1986, n. 2)» (50).
Il Papa poneva allora un problema rimasto irrisolto e che tuttora causa incertezze e divisioni nel mondo cattolico. In un mondo diventato indifferente alla fede proprio perché si è distaccato dai princìpi cristiani, non basta rivolgersi agli uomini come singoli, ma è necessario anche cercare di trasformare la cultura dominante, superando il «pensiero unico» che la domina, perché è evidente il condizionamento che questa cultura esercita sui singoli, soprattutto sui giovani, su chi è in via di formazione. «L’assenza di quei valori cristiani fondamentali nella cultura della modernità non solo ha offuscato la dimensione del trascendente, portando molte persone all’indifferentismo religioso — anche in America Latina — ma è allo stesso tempo causa determinante della disillusione sociale in cui è maturata la crisi di questa cultura. Seguendo l’autonomia introdotta dal razionalismo, oggi si tende a basare i valori soprattutto su consensi sociali soggettivi che, non di rado, portano a posizioni contrarie persino all’etica naturale stessa. Si pensi al dramma dell’aborto, agli abusi nell’ingegneria genetica, e agli attacchi alla vita e alla dignità della persona» (51). Papa san Giovanni Paolo II parlava ai vescovi latinoamericani, ma credo che le sue parole si possano riferire a tutto il mondo occidentale. Infatti, egli portò espressamente la riflessione su un piano universale, sostenendo che «di fronte al complesso fenomeno della modernità, è necessario dar vita a una alternativa culturale pienamente cristiana. Se la vera cultura è quella che esprime i valori universali della persona, chi può proiettare più luce sulla realtà dell’uomo, sulla sua dignità e ragion d’essere, sulla sua libertà e sul suo destino, se non il Vangelo di Cristo?» (52).
Si tratta dunque di promuovere un apostolato della cultura, che cerchi di servirsi dei grandi mezzi di comunicazione, ma che si accontenti anche di tribune più ridotte, a cominciare dagli amici che si possono invitare in una casa privata, per esempio, per presentare un libro o un film. La nuova evangelizzazione ha bisogno di operatori preparati — ripete san Giovanni Paolo II — e la preparazione di queste figure è compito di coloro che desiderano veramente cambiare le cose. È importante anche riflettere su che cosa si intenda per cultura, come ha fatto diverse volte lo stesso santo Pontefice. Essa non riguarda soltanto gli intellettuali o i chierici, ma tutti, veramente tutti. Lo ricorda Papa Francesco nella Giornata Missionaria del 2024, dedicata soprattutto alla trasmissione della fede ai malati, agli emarginati, agli ultimi in generale (53). Questa attenzione alle persone che soffrono è strettamente legata al cambiamento culturale della società: più diminuisce la cultura dell’individualismo, del consumismo, dello «scarto», cioè della non attenzione al prossimo, più aumenta la cultura contraria, quella che muove chi cerca la verità e il bene e li vuole donare a tutti.
Uno sforzo importante per mettere la cultura al centro della pastorale della Chiesa italiana fu compiuto nel Convegno dei cattolici italiani svoltosi a Palermo nel novembre del 1995, il terzo dopo quelli di Roma (1976) e di Loreto (1985). A Loreto, san Giovanni Paolo II aveva invitato esplicitamente i cattolici italiani a diventare protagonisti di un grande ed entusiasmante impegno missionario volto a trasformare la cultura del tempo: «Occorre superare, carissimi fratelli e sorelle, quella frattura tra Vangelo e cultura che è, anche per l’Italia, il dramma della nostra epoca; occorre por mano a un’opera di inculturazione della fede che raggiunga e trasformi, mediante la forza del Vangelo, i criteri di giudizio, i valori determinanti, le linee di pensiero e i modelli di vita (cf. Paolo VI, Evangelii nuntiandi, 19-20), in modo che il cristianesimo continui ad offrire, anche all’uomo della società industriale avanzata, il senso e l’orientamento dell’esistenza» (54). Se a Loreto erano stati protagonisti i movimenti e le associazioni nate dopo il Concilio, a Palermo tutta la Chiesa italiana venne invitata a procedere, come un unico corpo, come protagonista della nuova evangelizzazione del Paese, attraverso un «progetto culturale» che la vedesse protagonista, senza più le mediazioni partitiche alle quali la Chiesa aveva di fatto delegato l’azione pubblica nel secondo dopoguerra (55). Protagonista di questo decennio era stato, e lo sarà ancora a lungo, il card. Camillo Ruini, che, come presidente della Conferenza Episcopale Italiana (CEI), aveva cercato di realizzare il disegno del Papa per la nuova evangelizzazione. In un messaggio ai vescovi italiani dell’11 novembre 1996, il Papa, dopo aver ricordato il Convegno di Palermo, ribadiva il percorso che la Chiesa italiana avrebbe dovuto seguire: «Nella stagione di profondi cambiamenti che l’Italia sta attraversando, e mentre sono forti le correnti di scristianizzazione che mettono in discussione il fondamento stesso della sua grande tradizione cristiana, è quanto mai opportuno ed importante che la Chiesa dia speciale attenzione e priorità all’evangelizzazione della cultura e all’inculturazione della fede, facendo convergere attorno a un progetto preciso, articolato e dinamico, le molteplici energie delle sue componenti: dalle parrocchie alle scuole e ai centri di ricerca, dai teologi al laicato e agli Istituti di vita consacrata» (56). Due direttive, dunque, difendere le tradizioni cristiane del Paese e rievangelizzarlo, in particolare la sua cultura.
Tante domande si affollano una dietro l’altra nella mente di chi cerca di comprendere che cosa sia successo in quegli anni, nei quali l’«eccezione italiana», come Papa Wojtyła chiama il nostro Paese, combattè e resistette al processo di scristianizzazione, ma non riuscì a invertire la rotta nonostante lo straordinario e lungo pontificato di un santo.
Il Terzo Millennio
Il 2000 si avvicinava negli anni immediatamente precedenti san Giovanni Paolo II concentrò molti discorsi sul passaggio di millennio. La nuova evangelizzazione anche nel terzo millennio era al centro della sua attenzione. Ai vescovi irlandesi, il 26 giugno 1999, ricordava che «la nuova evangelizzazione è urgente soprattutto in vista delle numerose e complesse motivazioni che rendono difficile la trasmissione della fede da una generazione all’altra, con il risultato che la conoscenza delle verità della fede e della pratica religiosa, in particolare fra i giovani adulti, è in declino» (57). Consapevole del declino in corso, il Papa sembrava confidare molto nella nuova evangelizzazione per neutralizzare gli effetti delle «strutture di peccato» che devastavano il mondo contemporaneo. Straordinaria, da questo punto di vista, è l’udienza generale del 25 agosto 1999, perché ricostruisce tutto l’iter che il Pontefice aveva in mente per opporsi al declino dell’umanità attratta dal peccato: «Il dramma della situazione contemporanea, che sembra abbandonare alcuni valori morali fondamentali, dipende in gran parte dalla perdita del senso del peccato. Su questo punto avvertiamo quanto grande debba essere il cammino della “nuova evangelizzazione”» (58). Citando l’esortazione apostolica Reconciliatio et paenitentia (1984), il Papa ricordava come il peccato non sia mai soltanto personale, ma abbia sempre delle conseguenze sulla società e contribuisca alla nascita delle strutture di peccato che costituiscono un moltiplicatore del male: «Esiste una spaventosa forza di attrazione del male che fa giudicare “normali” e “inevitabili” molti atteggiamenti. Il male si accresce e preme con effetti devastanti sulle coscienze, che rimangono disorientate e non sono neppure in grado di discernere. Se si pensa poi alle strutture di peccato che frenano lo sviluppo dei popoli più svantaggiati sotto il profilo economico e politico (cfr Sollicitudo rei socialis, 37), verrebbe quasi da arrendersi di fronte a un male morale che sembra ineluttabile. Tante persone avvertono l’impotenza e lo smarrimento di fronte a una situazione schiacciante che appare senza via d’uscita. Ma l’annuncio della vittoria di Cristo sul male ci dà la certezza che anche le strutture più consolidate dal male possono essere vinte e sostituite da “strutture di bene” (cfr Ibidem, 39)» (59).
Poi, finalmente, venne l’anno giubilare. Ricco di tante iniziative, il Papa lo concluse il 6 gennaio dell’anno successivo, il 2001, con la lettera apostolica Novo millennio ineunte, nella quale affinò ulteriormente il suo progetto, basato sulla consapevolezza della fine della società cristiana e del dovere di ogni battezzato di operare per rievangelizzare la propria epoca: «È ormai tramontata, anche nei Paesi di antica evangelizzazione, la situazione di una “società cristiana”, che, pur tra le tante debolezze che sempre segnano l’umano, si rifaceva esplicitamente ai valori evangelici. Oggi si deve affrontare con coraggio una situazione che si fa sempre più varia e impegnativa, nel contesto della globalizzazione e del nuovo e mutevole intreccio di popoli e culture che la caratterizza. Ho tante volte ripetuto in questi anni l’appello della nuova evangelizzazione. Lo ribadisco ora, soprattutto per indicare che occorre riaccendere in noi lo slancio delle origini, lasciandoci pervadere dall’ardore della predicazione apostolica seguita alla Pentecoste. Dobbiamo rivivere in noi il sentimento infuocato di Paolo, il quale esclamava: “Guai a me se non predicassi il Vangelo!” (1 Cor 9,16)» (60).
Un Dicastero per la Nuova Evangelizzazione
Anche con il pontificato di Benedetto XVI la nuova evangelizzazione rimane centrale nel Magistero al punto da sentire l’esigenza di istituire nella Curia un nuovo dicastero con lo scopo di «1°. approfondire il significato teologico e pastorale della nuova evangelizzazione; 2°. promuovere e favorire, in stretta collaborazione con le Conferenze Episcopali interessate, che potranno avere un organismo ad hoc, lo studio, la diffusione e l’attuazione del Magistero pontificio relativo alle tematiche connesse con la nuova evangelizzazione; 3°. far conoscere e sostenere iniziative legate alla nuova evangelizzazione già in atto nelle diverse Chiese particolari e promuoverne la realizzazione di nuove, coinvolgendo attivamente anche le risorse presenti negli Istituti di Vita Consacrata e nelle Società di Vita Apostolica, come pure nelle aggregazioni di fedeli e nelle nuove comunità; 4°. studiare e favorire l’utilizzo delle moderne forme di comunicazione, come strumenti per la nuova evangelizzazione; 5°. promuovere l’uso del Catechismo della Chiesa Cattolica, quale formulazione essenziale e completa del contenuto della fede per gli uomini del nostro tempo» (61).
Gli scopi indicati nel documento favoriscono una riflessione. Papa già da cinque anni, Benedetto XVI riprese le indicazioni dei predecessori, in particolare ricordando l’esortazione apostolica di san Paolo VI Evangelii nuntiandi, un vero e proprio testo di riferimento per tutti i pontificati successivi, e in particolare i numerosi spunti offerti dal lungo e ampio insegnamento del suo diretto predecessore. Parlando ai vescovi della sua patria, nel 2005, aveva ricordato il clima di ostilità culturale in cui la nuova evangelizzazione deve essere proposta oggi: «Sappiamo che secolarismo e scristianizzazione progrediscono, che il relativismo cresce, che l’influsso dell’etica e della morale cattoliche diminuisce sempre più. Non poche persone abbandonano la Chiesa, o se vi rimangono, accettano soltanto una parte dell’insegnamento cattolico, scegliendo solo alcuni aspetti del cristianesimo. Preoccupante rimane la situazione religiosa nell’Est, dove, come sappiamo, la maggioranza della popolazione non è battezzata e non ha alcun contatto con la Chiesa e, spesso, non conosce affatto né Cristo né la Chiesa. Riconosciamo in queste realtà altrettante sfide» (62).
Benedetto XVI parlava ai confratelli tedeschi, pochi mesi prima della Giornata Mondiale della Gioventù di Colonia, impostata sull’adorazione eucaristica, che sarebbe stata un grande successo di partecipazione e di devozione. Che cosa era successo di drammatico nella chiesa tedesca in pochi anni, da renderla così avviluppata oggi in una spirale di opposizione a Roma?
Incontrando la prima assemblea plenaria del nuovo dicastero, il 30 maggio 2011, Papa Benedetto XVI tiene uno dei discorsi più esaustivi sul significato della nuova evangelizzazione. «Il termine “nuova evangelizzazione” — dirà il Papa — richiama l’esigenza di una rinnovata modalità di annuncio, soprattutto per coloro che vivono in un contesto, come quello attuale, in cui gli sviluppi della secolarizzazione hanno lasciato pesanti tracce anche in Paesi di tradizione cristiana» (63). Il riferimento cui guardare, dopo il Signore Gesù e l’entusiasmo degli apostoli che cominciarono la prima evangelizzazione, devono essere i documenti del Concilio Vaticano II. Il riferimento non è scontato o retorico. Papa Ratzinger è stato accusato di essere stato l’affossatore del Vaticano II, unitamente al suo predecessore. L’accusa è tipica del mondo progressista, cioè di quei settori della Chiesa che leggono il Concilio come una «rottura» con la storia precedente della Chiesa. Anche alcuni dei cosiddetti tradizionalisti, cioè coloro che usano la tradizione come chiave di lettura del Magistero, criticavano nei due Pontefici, san Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, il continuo richiamo al Vaticano II. Per i due Papi invece i testi del Concilio erano il punto di riferimento della nuova evangelizzazione, perché la Chiesa aveva preso atto in quel contesto — in realtà anche prima — della necessità di un nuovo modo di annunciare il Vangelo a un uomo sempre più secolarizzato. Perciò risultano importanti le parole pronunciate in occasione della prima assemblea plenaria: «Con sguardo lungimirante, i Padri conciliari videro all’orizzonte il cambiamento culturale che oggi è facilmente verificabile. Proprio questa mutata situazione, che ha creato una condizione inaspettata per i credenti, richiede una particolare attenzione per l’annuncio del Vangelo, per rendere ragione della propria fede in situazioni differenti dal passato. La crisi che si sperimenta porta con sé i tratti dell’esclusione di Dio dalla vita delle persone, di una generalizzata indifferenza nei confronti della stessa fede cristiana, fino al tentativo di marginalizzarla dalla vita pubblica. Nei decenni passati era ancora possibile ritrovare un generale senso cristiano che unificava il comune sentire di intere generazioni, cresciute all’ombra della fede che aveva plasmato la cultura. Oggi, purtroppo, si assiste al dramma della frammentarietà che non consente più di avere un riferimento unificante; inoltre, si verifica spesso il fenomeno di persone che desiderano appartenere alla Chiesa, ma sono fortemente plasmate da una visione della vita in contrasto con la fede» (64).
Eppure, questa «frammentarietà» si può superare, perché lo Spirito Santo non ha smesso di operare. La nuova evangelizzazione ha bisogno però di apostoli, che mancano, o che non sono adeguatamente formati. Il punto è fondamentale: bisogna voler comunicare la fede, anche se questo non basta; bisogna prepararsi per farlo bene. Il riferimento al Catechismo come quinto punto del testo che ha istituito il dicastero è indicativo di quanto il Papa ritenesse indispensabile lo studio della dottrina della fede e la preparazione, anche se provoca amarezza il constatare come il Catechismo del 1992 sia stato venduto in mezzo milione di copie solo in Italia in poche settimane — lo dice ai vescovi tedeschi lo stesso Papa nel discorso appena citato —, ma non sia affatto diventato il punto di riferimento dottrinale delle comunità cristiane.
In un altro discorso rivolto a ottomila evangelizzatori in una Messa celebrata per la nuova evangelizzazione il 16 ottobre 2011, Benedetto XVI fornisce altre importanti indicazioni, per esempio riguardo alla storia: «La teologia della storia è un aspetto importante, essenziale della nuova evangelizzazione, perché gli uomini del nostro tempo, dopo la nefasta stagione degli imperi totalitari del XX secolo, hanno bisogno di ritrovare uno sguardo complessivo sul mondo e sul tempo, uno sguardo veramente libero, pacifico, quello sguardo che il Concilio Vaticano II ha trasmesso nei suoi Documenti, e che i miei Predecessori, il Servo di Dio Paolo VI e il Beato Giovanni Paolo II, hanno illustrato con il loro Magistero» (65). E anche qui mi sembrano molto indicativi sia il richiamo alla teologia della storia, cioè al fatto che nel tempo operino due amori per due città in lotta fra loro, per parafrasare sant’Agostino (354-430) (66), sia il richiamo ai documenti del Magistero dei predecessori e del Concilio Vaticano II, che indica continuità e soprattutto la necessità per i cristiani di avere dei criteri di giudizio per valutare le vicende storiche.
Dieci anni di Papa Francesco
Il Santo Padre Francesco diventa Papa nel 2013 dopo la drammatica scelta di Benedetto XVI di lasciare il ministero petrino. Questi decide di ritirarsi in preghiera come Papa emerito perché ritiene di non avere più le forze necessarie per guidare la Chiesa: lo dirà ripetutamente anche per smentire le tesi complottistiche che crescono numerose dopo il gesto che non ha precedenti, ma che Benedetto XVI compie con piena consapevolezza, come lui stesso racconta nella biografia di Peter Seewald (67).
Papa Francesco non ha parlato spesso di nuova evangelizzazione ma ha auspicato che la pastorale della Chiesa sia completamente orientata alla missione. Il richiamo alla nuova evangelizzazione è presente in ogni capitolo del testo programmatico, l’esortazione apostolica Evangelii gaudium, che viene promulgata pochi mesi dopo il Sinodo dei vescovi sulla nuova evangelizzazione (68).
La sua idea di evangelizzazione parte dal primato della grazia, cioè dal fatto che Dio vuole la Chiesa evangelizzatrice e noi dobbiamo semplicemente entrare in questa prospettiva (69). Non è un dato scontato e banale, ma ci aiuta a comprendere che Dio si è scelto un popolo, prima Israele poi la comunità dei credenti in Cristo, per annunciare a tutti la salvezza e se è così allora l’evangelizzazione, in questo caso la seconda, non è un optional, ma costituisce il modo di essere dei cristiani nel mondo.
In duemila anni di cristianesimo la Chiesa ha portato la fede a diversi popoli, che l’hanno incarnata ciascuno nella propria cultura: «Se ben intesa, la diversità culturale non minaccia l’unità della Chiesa» (70). Il punto è molto importante, tanto più in un mondo dove la fede viene accolta da popoli con caratteristiche culturali sempre più diverse, in Asia e in Africa per esempio. «Non renderebbe giustizia alla logica dell’incarna-zione — spiega Papa Francesco — pensare ad un cristianesimo monoculturale e monocorde. Sebbene sia vero che alcune culture sono state strettamente legate alla predicazione del Vangelo e allo sviluppo di un pensiero cristiano, il messaggio rivelato non si identifica con nessuna di esse e possiede un contenuto transculturale. Perciò, nell’evangelizzazione di nuove culture o di culture che non hanno accolto la predicazione cristiana, non è indispensabile imporre una determinata forma culturale, per quanto bella e antica, insieme con la proposta evangelica. Il messaggio che annunciamo presenta sempre un qualche rivestimento culturale, però a volte nella Chiesa cadiamo nella vanitosa sacralizzazione della propria cultura, e con ciò possiamo mostrare più fanatismo che autentico fervore evangelizzatore» (71).
Questa proposta evangelica deve essere promossa da tutti i battezzati: «La nuova evangelizzazione deve implicare un nuovo protagonismo di ciascuno dei battezzati. Questa convinzione si trasforma in un appello diretto ad ogni cristiano, perché nessuno rinunci al proprio impegno di evangelizzazione, dal momento che, se uno ha realmente fatto esperienza dell’amore di Dio che lo salva, non ha bisogno di molto tempo di preparazione per andare ad annunciarlo, non può attendere che gli vengano impartite molte lezioni o lunghe istruzioni. Ogni cristiano è missionario nella misura in cui si è incontrato con l’amore di Dio in Cristo Gesù; non diciamo più che siamo “discepoli” e “missionari”, ma che siamo sempre “discepoli-missionari”» (72).
Papa Francesco dedica molti paragrafi dei suoi documenti all’evangelizzazione della cultura, sia a quella delle culture professionali sia alla cultura nel suo insieme, attraverso la teologia, soprattutto pensando ai Paesi in cui i cristiani sono una minoranza, ormai i più numerosi. Nel testo, inoltre, trova un ruolo importante la pietà popolare, «autentica espressione dell’azione missionaria spontanea del Popolo di Dio» (73). Tutto deve convergere al fine, cioè alla trasmissione della fede anche a chi non l’ha mai neppure conosciuta. Penso che non sia stata colta in profondità l’ansia missionaria presente nel Magistero di Francesco, a vantaggio invece di altre tematiche. Eppure, è evidente, in tanti passaggi di Evangelii gaudium, quanto sia elevata l’attenzione di Francesco, per esempio, alla predicazione missionaria, dal dialogo da persona a persona come inizio dell’apostolato, alla predicazione — a cominciare dall’omelia e dalla comunicazione della Parola di Dio — e al modo di predicare: «Un dialogo è molto di più che la comunicazione di una verità. Si realizza per il piacere di parlare e per il bene concreto che si comunica tra coloro che si vogliono bene per mezzo delle parole. È un bene che non consiste in cose, ma nelle stesse persone che scambievolmente si donano nel dialogo. La predicazione puramente moralista o indottrinante, ed anche quella che si trasforma in una lezione di esegesi, riducono questa comunicazione tra i cuori che si dà nell’omelia e che deve avere un carattere quasi sacramentale: “La fede viene dall’ascolto e l’ascolto riguarda la parola di Cristo” (Rm 10,17)» (74).
L’acuirsi della divisione
Durante il pontificato di Francesco la divisione interna alla Chiesa di cui ho parlato all’inizio si è indubbiamente estesa: essa non riguarda più soltanto piccole frange di tradizionalisti in bilico fra rimanere nella Chiesa, pur non condividendo quasi nulla del Magistero petrino e lasciarla per aderire alla Fraternità San Pio X o a gruppi «sedevacantisti» o a nuove forme scismatiche un po’ «fai da te», come quelle del vescovo Carlo Maria Viganò o di don Alessandro Minutella. La divisione si è allargata a settori della Chiesa che non hanno mai aderito a una prospettiva culturale di tipo tradizionalistico ma, in misura sempre più vistosa, anche perché eccitati da mezzi di comunicazione specializzati nell’esasperare le polemiche, hanno cominciato a criticare pubblicamente molti dei provvedimenti e degli interventi del Papa o dei suoi collaboratori ritenuti in contrasto con la Tradizione della Chiesa.
Questo è il fatto, preoccupante ma purtroppo reale. Sono così cominciate le raccolte periodiche di firme contro Papa Francesco, speculari a quelle contro san Giovanni Paolo II ma di segno contrario, a volte con prese di posizione pubbliche di alcuni cardinali ma soprattutto di singoli o gruppi di fedeli, per quanto non particolarmente numerosi.
In questo clima esasperato è diventato difficile distinguere le domande legittime da quelle provocatorie, lo sconcerto di molti dall’evidente volontà divisiva di altri, le preoccupazioni di vescovi e fedeli sofferenti per certe scelte dalle polemiche giornalistiche. Quello che appare dall’e-sterno del mondo cristiano è una Chiesa divisa e litigiosa, che invece di preoccuparsi della grande maggioranza degli uomini — ormai non più raggiunti dal messaggio evangelico — si concentra quasi esclusivamente sui propri problemi, per quanto rilevanti possano essere.
Credo che per comprendere questa impasse e cercare di uscirne si debba tornare al discorso di Benedetto XVI del dicembre 2005, quando parlò di «riforma» e di «continuità» a proposito del Vaticano II. Proprio al Concilio si deve guardare e del resto, vista l’importanza di un’assise del genere nella vita della Chiesa, la cosa non dovrebbe stupire. Il Concilio venne convocato per dare la risposta della Chiesa a un mondo cambiato. Per questo volle essere pastorale e non toccare la dottrina. Esso voleva «riformare» alcuni aspetti della vita della Chiesa per renderla più capace di attrarre gli uomini del proprio tempo, e contemporaneamente esprimere la propria «continuità» con la Chiesa di sempre. Vi fu chi non voleva alcuna riforma e chi non tollerava la continuità con la Tradizione. Da qui i due «partiti» contrapposti e la relativa divisione nella Chiesa.
Il presente e il futuro della Chiesa
Provo a venire a oggi. Da una parte si tratta di cercare di recuperare alla fede chi vive in situazioni irregolari e manifesta qualche segnale di avvicinamento alla Chiesa, dall’altra parte si deve mantenere ferma la verità che non cambia. Se non serve ad avvicinare alla fede il tacere la verità, per esempio sul matrimonio o sulla condizione omosessuale, d’altro canto non serve nemmeno limitarsi a enunciare la verità senza cercare di intessere una relazione con le persone lontane, che possa favorire la loro conversione. Le due fasi possono stare insieme? A mio avviso devono stare insieme e sono la condizione per cui si possa parlare di una nuova evangelizzazione. Ma purtroppo siamo lontanissimi dal realizzare questa aspettativa.
Per fare degli esempi concreti, Amoris laetitia ha cercato di enunciare la verità sul matrimonio e contemporaneamente di non escludere il rapporto con le persone che vivono in situazioni irregolari come i divorziati risposati, mentre Fiducia supplicans ha cercato di ricordare che la Chiesa non rifiuta nessuna benedizione alle persone omosessuali, senza mutare la dottrina sul matrimonio che è solo fra uomo e donna. Ci sono riusciti? A giudicare dalle reazioni e dalle interpretazioni direi di no. Vi erano, soprattutto nel testo del Dicastero della Dottrina della Fede, dei margini di ambiguità, per dimostrare la massima apertura possibile della Chiesa, che però hanno sconcertato e creato una divisione ulteriore. Forse bisognava tener conto di quanto sia difficile mettere per iscritto quali possano essere gli atteggiamenti pastorali più adatti in situazioni diverse e complicate, proprie di quando un sacerdote di trova di fronte a una coppia irregolare o di omosessuali. Invece di affidarsi al buon senso e alla prudenza dei sacerdoti, si è cercato di indicare delle soluzioni oggettivamente difficili da descrivere, che tenessero conto sia della dottrina sia del tenue legame con la coppia che non deve essere spezzato. Si può dire anche che il santo popolo fedele di Dio, richiamato spesso da Papa Francesco come una sorta di «luogo teologico» che non sbaglia in materia di fede, abbia percepito e manifestato di fronte al testo una sorta di smarrimento che aiuta e ha aiutato lo stesso Pontefice a spiegare ulteriormente il testo: «Il Popolo di Dio è santo in ragione di questa unzione che lo rende infallibile “in credendo”. Questo significa che quando crede non si sbaglia, anche se non trova parole per esprimere la sua fede» (75).
Conclusioni
Tornando al tema più generale e all’istituzione del Dicastero per la Promozione della Nuova Evangelizzazione, sorge spontanea una certa delusione. Che cosa è penetrato e rimasto di oltre mezzo secolo di Magistero dedicato alla nuova evangelizzazione? Perché per esempio non sono celebrate nelle parrocchie le Messe per la nuova evangelizzazione che pur Benedetto XVI ha celebrato per il dicastero da lui fondato? E per quale motivo Papa Francesco non ne ha celebrate? Perché nelle parrocchie non sono mai nati gruppi di fedeli dedicati alla nuova evangelizzazione della stragrande maggioranza degli abitanti nel quartiere o del Paese? Perché il «sogno» di Papa Francesco di una pastorale tutta dedita alla missione, non solo ad extra ma anche all’interno della Chiesa, non si è realizzato neanche nelle migliori parrocchie?
Sono domande che meriterebbero una risposta o almeno una riflessione. Non ho soluzioni e soprattutto non è il mio compito. Ma le domande restano e la necessità di risposte serie pure. Soltanto una comunità cristiana che vuole «uscire» dall’autoreferenzialità potrà essere missionaria nel suo ambiente, cioè potrà favorire una nuova evangelizzazione.
È indubbio, infatti, che il disegno di Satana di scardinare la civiltà cristiana nata in Occidente si è realizzato attraverso il processo rivoluzionario iniziato con la Riforma protestante ed è continuato anche dopo la fine dell’epoca delle ideologie (1789-1989), quando una sorta di «dittatura del relativismo» sembra essere diventato il pensiero unico e dominante dell’epoca attuale. È pur vero che la Chiesa, minoritaria ma presente, rimane ferita ma non sconfitta dall’eresia modernista, che essenzialmente è un peccato contro la speranza. Quando il 4 marzo 2024 l’Assemblea Nazionale della Repubblica Francese ha inserito, prima nazione al mondo, il «diritto» all’aborto nella propria Costituzione, con il voto di tutti i partiti presenti salvo pochissimi parlamentari a titolo personale, la «piccola» Chiesa francese ha alzato la bandiera della vita promuovendo una giornata di preghiera e digiuno contro l’offesa recata al bene comune e alla giustizia.
Queste minoranze cristiane saranno capaci di incarnare le indicazioni del Magistero per una nuova evangelizzazione e così dare corpo alla speranza nell’avvento del Cuore Immacolato di Maria promesso dalla Madonna a Fatima?
Marco Invernizzi
Note:
1) «Il relativismo, cioè il lasciarsi portare “qua e là da qualsiasi vento di dottrina”, appare come l’unico atteggiamento all’altezza dei tempi odierni. Si va costituendo una dittatura del relativismo che non riconosce nulla come definitivo e che lascia come ultima misura solo il proprio io e le sue voglie» (Card. Joseph Ratzinger, Omelia durante la Messa pro eligendo Romano Pontifice, 18-4-2005).
2) Cfr. Il riconoscimento di Alleanza Cattolica come associazione privata di fedeli con personalità giuridica privata, in Cristianità, anno XL, aprile-giugno 2012, n. 364, pp. 1-3.
3) Concilio Ecumenico Vaticano II, Costituzione dogmatica sulla Chiesa «Lumen gentium», del 21-11-1964, n. 7. La questione dell’appartenenza è molto importante soprattutto nella società moderna, che vede la crisi delle istituzioni basilari che per secoli hanno garantito la trasmissione della fede, in particolare la famiglia e la parrocchia. Nessuno può essere cristiano senza un ambiente che lo sostenga e che abbia per lui una importanza primaria: su questo tema cfr., per esempio, Ugo Borghello, L’appartenenza primaria. Una teoria generale, saggio introduttivo di Pierpaolo Donati, Cantagalli, Siena 2018.
4) Papa Francesco ha dedicato un discorso alla crisi nella Chiesa, parlando alla Curia romana e al collegio cardinalizio, che merita di essere letto integralmente, ma soprattutto ricorda come la crisi può essere occasione di conversione se vissuta alla luce del Vangelo: «Chi non guarda la crisi alla luce del Vangelo, si limita a fare l’autopsia di un cadavere: guarda la crisi, ma senza la speranza del Vangelo, senza la luce del Vangelo. Siamo spaventati dalla crisi non solo perché abbiamo dimenticato di valutarla come il Vangelo ci invita a farlo, ma perché abbiamo scordato che il Vangelo è il primo a metterci in crisi. È il Vangelo che ci mette in crisi. Ma se troviamo di nuovo il coraggio e l’umiltà di dire ad alta voce che il tempo della crisi è un tempo dello Spirito, allora, anche davanti all’esperienza del buio, della debolezza, della fragilità, delle contraddizioni, dello smarrimento, non ci sentiremo più schiacciati, ma conserveremo costantemente un’intima fiducia che le cose stanno per assumere una nuova forma, scaturita esclusivamente dall’esperienza di una Grazia nascosta nel buio. “Perché l’oro si prova con il fuoco e gli uomini ben accetti nel crogiuolo del dolore” (Sir 2,5)» (Francesco, Discorso ai membri del Collegio Cardinalizio e della Curia Romana per la presentazione degli auguri natalizi, 21-12-2020, n. 6).
5) Per una breve illustrazione delle principali eresie cristiane cfr. monsignor Léon Cristiani (1879-1971), Breve storia delle eresie, trad. it., Edizioni Paoline, Catania 1960.
6) «La novità introdotta dalla crisi voluta dallo Spirito non è mai una novità in contrapposizione al vecchio, bensì una novità che germoglia dal vecchio e lo rende sempre fecondo. Gesù usa un’espressione che esprime in maniera semplice e chiara questo passaggio: “Se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto” (Gv 12,24). L’atto di morire del seme è un atto ambivalente, perché nello stesso tempo segna la fine di qualcosa e l’inizio di qualcos’altro» (Francesco, Discorso ai membri del Collegio Cardinalizio e della Curia Romana per la presentazione degli auguri natalizi, cit., n. 7).
7) «Il Magistero ordinario e universale del Papa e dei Vescovi in comunione con lui insegna ai fedeli la verità da credere, la carità da praticare, la beatitudine da sperare» (Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 2034).
8) Congregazione per la Dottrina della Fede, Istruzione «Donum Veritatis» sulla vocazione ecclesiale del teologo, del 24-5-1990, n. 33.
9) Cfr. Benedetto XVI, Discorso alla Curia Romana in occasione della presentazione degli auguri natalizi, 22-12-2005.
10) Cfr. Laura Boccenti, «Amoris laetitia». La via della misericordia e don Pietro Cantoni O.M.M.E., Riflessioni a proposito dell’esortazione post-sinodale «Amoris laetitia» di Papa Francesco, in Cristianità, anno XLIV, aprile-giugno 2016, n. 380, pp. 5-16 e 17-34.
11) Suggerisco, a chiunque volesse approfondire il tema, due testi sulla centralità del Magistero nella vita della Chiesa: don P. Cantoni, Oralità e Magistero. Il problema teologico del Magistero ordinario, D’Ettoris, Crotone 2014, ed Enrico Cattaneo S.J., Trasmettere la fede. Tradizione, Scrittura e Magistero nella Chiesa. Percorsi di teologia fondamentale, San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 1999 (2a ed. riveduta e corretta, Roma 2013).
12) Si tratta dell’episodio forse più vergognoso di sudditanza alle pressioni delle Corti europee da parte della Santa Sede, avvenuto alla fine del secolo XVIII in tutti i Paesi europei e culminato nella soppressione della Compagnia da parte di Papa Clemente XIV (1769-1774) nel 1773 — con i brevi Dominus ac Redemptor e Gravissimi ex causis —, segnato anche dalla morte del padre generale Lorenzo Ricci (1703-1775), prigioniero della Santa Sede in Castel Sant’Angelo a Roma, due anni dopo la soppressione e l’arresto: sul caso cfr., fra l’altro, William V. Bangert, Storia della Compagnia di Gesù, trad. it., a cura di Mario Colpo S.J., Marietti 1820, Genova-Milano 2009, pp. 387-458. La Compagnia rimase in vita anche dal punto di vista formale grazie al rifiuto di sopprimerla da parte delle autorità politiche in Prussia e nella Russia Bianca: cfr. Marek Inglot S.J., La Compagnia di Gesù nell’impero russo (1772-1829) e la sua parte nella restaurazione generale della Compagnia, Editrice Gregoriana, Roma 1997, e Sabrina Pavone, Una strana alleanza. La Compagnia di Gesù in Russia dal 1772 al 1820, Bibliopolis, Napoli 2008.
13) Cfr. Ignazio Cantoni, Beato Antonio Rosmini-Serbati (1797-1855),in Cristianità, anno XXXVIII, gennaio-marzo 2010, n. 355, pp. 79-83, con bibliografia essenziale.
14) Cantalamessa: i «denti» dei media possono distruggere ma anche «purificare», in Vatican News, 23-2-2024.
15) «Il Romano Pontefice e i Vescovi “sono i dottori autentici, cioè rivestiti dell’autorità di Cristo, che predicano al popolo loro affidato la fede da credere e da applicare nella pratica della vita” (LG 25).
16) Cfr. Roberto Regoli, Oltre la crisi della Chiesa. Il pontificato di Benedetto XVI, Lindau, Torino 2016.
17) Con altra terminologia: «[…] all’interno della Chiesa travagliata ed erosa dal progressismo — nuova forma di sadduceismo — non mancano purtroppo anche nuovi farisei, ossia pseudo-tradizionalisti» (Giovanni Cantoni, L’Italia tra Rivoluzione e Contro-Rivoluzione, 1972, ora in Idem, Scritti sulla Rivoluzione e sulla nazione. 1972-2006, premessa e cura di Oscar Sanguinetti, Edizioni di «Cristianità», Piacenza 2023, pp. 113-180).
18) Jacques Maritain, Il contadino della Garonna. Un vecchio laico interroga se stesso sul mondo d’oggi, trad. it., Morcelliana, Brescia 1966, p. 16.
19) Cfr. don P. Cantoni, Il Magistero contestato, in Cristianità, anno XVII, ottobre 1989, n. 174, pp. 7-14.
20) Cfr. Congregazione per i Vescovi, Decreto di remissione della scomunica latae sententiae ai vescovi della Fraternità sacerdotale san Pio X, 21-1-2009; cfr. anche Idem, Lettera ai vescovi della Chiesa cattolica riguardo alla remissione della scomunica dei 4 vescovi consacrati dall’arcivescovo Lefebvre, 10-3-2009.
21) Cfr. Idem, Litterae Apostolicae «Motu Proprio datae» «Summorum Pontificum», 7-7-2007.
22) «[…] occorre che questa dottrina certa ed immutabile, alla quale si deve prestare un assenso fedele, sia approfondita ed esposta secondo quanto è richiesto dai nostri tempi. Altro è infatti il deposito della Fede, cioè le verità che sono contenute nella nostra veneranda dottrina, altro è il modo con il quale esse sono annunziate, sempre però nello stesso senso e nella stessa accezione» (San Giovanni XXIII, Discorso alla solenne apertura del Concilio Vaticano II, 11-10-1962).
23) Cfr., fra le diverse sue opere sul tema, Rodney Stark (1934-2022), La vittoria dell’Occidente. La negletta storia del trionfo della modernità, trad. it., Lindau, Torino 2014.
24) «La rottura tra Vangelo e cultura è senza dubbio il dramma della nostra epoca, come lo fu anche di altre» (san Paolo VI, Esortazione apostolica «Evangelii nuntiandi», dell’8-12-1975, n. 20).
25) Cfr. Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione, Enchiridion della nuova evangelizzazione. Testi del Magistero pontificio e conciliare. 1939-2012, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2012. Il miglior libro sul tema è quello del Pro-Prefetto del Dicastero per l’Evangelizzazione, mons. Rino Fisichella, La nuova evangelizzazione, Mondadori, Milano 2012.
26) Si tratta della lettura dialettica fornita dalla Scuola di Bologna, in particolare nell’opera Storia del Concilio Vaticano II, diretta da Giuseppe Alberigo (1926-2007), 5 voll., il Mulino, Bologna 1995-2001; cfr. la critica di questa interpretazione del Vaticano II da parte del card. Agostino Marchetto, Il Concilio Ecumenico Vaticano II. Per una sua corretta ermeneutica, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2012, e Idem, Il Concilio ecumenico Vaticano II. Contrappunto per la sua storia, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2005.
27) Cfr. G. Cantoni, Dal Concilio ecumenico Vaticano II al secondo Sinodo straordinario, in Cristianità, anno XIII, ottobre 1985, n. 126, pp. 3-4.
28) Cfr. Benedetto XVI, Discorso alla Curia Romana in occasione della presentazione degli auguri natalizi, cit.
29) San Paolo VI, Allocuzione in occasione dell’ultima sessione pubblica del Concilio Ecumenico Vaticano II, del 7-12-1965.
30) Ibidem.
31) Cfr., fra l’altro, Enzo Peserico (1959-2008), Gli anni del desiderio e del piombo. Sessantotto, terrorismo e Rivoluzione, Sugarco, Milano 2008.
32) Peraltro, i vescovi italiani avevano annunciato il pericolo con una lettera pastorale del 25 marzo 1960 dedicata all’avanzata del laicismo nel corpo sociale: cfr. Francesco Pappalardo, L’analisi del laicismo in una Lettera pastorale dei vescovi italiani del 1960, in Marco Invernizzi e Paolo Martinucci(a cura di), Dal «centrismo» al Sessantotto, Ares, Milano 2007, pp. 341-357.
33) Cfr. Luigi Giussani, Conversazioni con Robi Ronza. Il Movimento di Comunione e Liberazione. 1954-1986, Rizzoli, Milano 2014.
34) Cfr. Peter Seewald, Benedetto XVI. Una vita, trad. it., Garzanti, Milano 2020, passim.
35) Cfr. card. Angelo Bagnasco, «Humanae vitae» a cinquant’anni dalla sua promulgazione, in Cristianità, anno XLVI, settembre-ottobre 2018, pp. 57-62.
36) Così san Paolo VI parlò al filosofo francese Jean Guitton (1901-1999) l’8 settembre 1977: «Ciò che mi colpisce, quando considero il mondo cattolico, è che all’interno del cattolicesimo sembra talvolta predominare un pensiero di tipo non-cattolico, e può avvenire che questo pensiero non cattolico all’interno del cattolicesimo diventi domani il più forte. Ma esso non rappresenterà mai il pensiero della Chiesa» (cit. in Jean Guitton, Paolo VI segreto, trad. it., San Paolo, Cinisello Balsamo [Milano] 2002, pp. 152-153).
37) Entrambe le drammatiche espressioni sono note: «da qualche fessura sia entrato il fumo di Satana nel tempio di Dio» (Omelia nel corso della Santa Messa celebrata in occasione del IX anniversario dell’incoronazione, nella Solennità dei Santi Apostoli Pietro e Paolo, del 29-6-1972, nel sito web <https://www.vatican.va/content/paul-vi/it/homilies/1972/documents/hf_p-vi_hom_19720629.html>; sintesi con citazioni testuali); e «La Chiesa attraversa, oggi, un momento di inquietudine. Taluni si esercitano nell’autocritica, si direbbe perfino nell’autodemolizione» (Allocuzione agli alunni del Pontificio Seminario Lombardo, del 7-12-1968, in Insegnamenti, 16 voll., Tipografia Poliglotta Vaticana, Città del Vaticano 1965-1979, vol. VI, 1968, p. 1.188; sintesi con citazioni testuali; nel sito web <https://www.vatican.va/content/paul-vi/it/speeches/1968/december/documents/hf_p-vi_spe_19681207_seminario-lombardo.html>). Gli indirizzi internet dell’intero articolo sono stati consultati l’8-5-2024.
38) Cfr. la biografia di Mao scritta da Jung Chang (autrice del best seller Cigni selvatici. Tre figlie della Cina, TEA 2010) e da Jon Halliday, Mao. La storia sconosciuta, trad. it., Longanesi Milano 2006; sulla Cina odierna cfr. Federico Rampini, Fermare Pechino. Capire la Cina per salvare l’Occidente, Mondadori, Milano 2021.
39) San Paolo VI, Messaggio per la Giornata missionaria, 20-9-1975.
40) Ibidem.
41) Giovanni Paolo II, Esortazione apostolica post-sinodale «Christifideles laici» su vocazione e missione dei laici nella Chiesa e nel mondo, del 30-12-1988.
42) Ibidem.
43) Idem, Omelia nel Santuario della Santa Croce a Mogila, 9-6-1979, n. 1.
44) Idem, Discorso alla conclusione dei lavori dell’Assemblea Speciale per l’Europa del Sinodo dei Vescovi, 13-12-1991, n. 2.
45) Cfr. Idem, Lettera apostolica «Egregiae virtutis» con la quale i santi Cirillo e Metodio vengono proclamati compatroni d’Europa, 31-12-1980.
46) Idem, Discorso in apertura dei lavori della IV Conferenza Generale dell’Episcopato Latinoamericano, 12-10-1992, n. 6.
47) Ibid., n. 11.
48) Ibidem.
49) Idem, Discorso all’assemblea plenaria del Pontificio Consiglio Iustitia et Pax, 12-11-1992.
50) Idem, Discorso alla IV Conferenza Generale dell’Episcopato Latinoamericano, cit., n. 20.
51) Ibid., n. 21.
52) Ibid., n. 22.
53) «E non dimentichiamo che ogni cristiano è chiamato a prendere parte a questa missione universale con la propria testimonianza evangelica in ogni ambiente, così che tutta la Chiesa esca continuamente con il suo Signore e Maestro verso i “crocicchi delle strade” del mondo di oggi. Sì, “oggi il dramma della Chiesa è che Gesù continua a bussare alla porta, ma dal di dentro, perché lo lasciamo uscire! Tante volte si finisce per essere una Chiesa […] che non lascia uscire il Signore, che lo tiene come “cosa propria”, mentre il Signore è venuto per la missione e ci vuole missionari” (Discorso ai partecipanti al convegno promosso dal Dicastero per i laici, la famiglia e la vita, 18 febbraio 2023). Che tutti noi, battezzati, ci disponiamo ad andare di nuovo, ognuno secondo la propria condizione di vita, per avviare un nuovo movimento missionario, come agli albori del cristianesimo!» (Francesco, Messaggio per la Giornata Missionaria Mondiale 2024, 25-1-2024).
54) Giovanni Paolo II, Discorso al Convegno della Chiesa italiana, 11-4-1985.
55) Cfr. Conferenza Episcopale Italiana, Il Vangelo della carità per una nuova società in Italia. Atti del 3º Convegno ecclesiale (Palermo, 20-24 novembre 1995), AVE 1997.
56) Giovanni Paolo II, Messaggio ai vescovi italiani riuniti in assemblea a Collevalenza, 11-11-1996.
57) Idem, Discorso ai vescovi irlandesi in visita «ad limina apostolorum», 26-6-1999.
58) Idem, Udienza generale, 25-8-1999.
59) Ibidem.
60) Idem, Lettera apostolica «Novo millennio ineunte» al termine del grande giubileo dell’anno Duemila, 6-1-2001.
61) Benedetto XVI, Lettera apostolica in forma di «Motu Proprio» «Ubicumque et semper», del 21-9-2010.
62) Idem, Discorso all’incontro con i vescovi della Germania, 21-8-2005.
63) Idem, Discorso all’Assemblea plenaria del Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione, 30-5-2011.
64) Ibidem.
65) Idem, Omelia alla santa Messa per la nuova evangelizzazione, 16-10-2011.
66) Cfr.: «Due amori dunque diedero origine a due città, alla terrena l’amor di sé fino all’indifferenza per Iddio, alla celeste l’amore a Dio fino all’indifferenza per sé» (sant’Agostino, La Città di Dio, libro XIV, 28).
67) Cfr. P. Seewald, op. cit., pp. 1153-1154.
68) Cfr. Francesco, Esortazione apostolica post-sinodale «Evangelii gaudium» sull’annuncio del Vangelo nel mondo attuale, 24-11-2013.
69) «Non è una mera formalità se cominciano ogni giorno la nostra Assise con la preghiera: questo risponde alla realtà stessa. Solo il precedere di Dio rende possibile il camminare nostro, il cooperare nostro, che è sempre un cooperare, non una nostra pura decisione. Perciò è importante sempre sapere che la prima parola, l’iniziativa vera, l’attività vera viene da Dio e solo inserendoci in questa iniziativa divina, solo implorando questa iniziativa divina, possiamo anche noi divenire — con Lui e in Lui — evangelizzatori. Dio è l’inizio sempre, e sempre solo Lui può fare Pentecoste, può creare la Chiesa, può mostrare la realtà del suo essere con noi. Ma dall’altra parte, però, questo Dio, che è sempre l’inizio, vuole anche il coinvolgimento nostro, vuole coinvolgere la nostra attività, così che le attività sono teandriche, per così dire, fatte da Dio, ma con il coinvolgimento nostro e implicando il nostro essere, tutta la nostra attività.
«Quindi quando facciamo noi la nuova evangelizzazione è sempre cooperazione con Dio, sta nell’insieme con Dio, è fondata sulla preghiera e sulla sua presenza reale» (Benedetto XVI, Meditazione nel corso della prima congregazione generale del Sinodo dei vescovi su «La nuova evangelizzazione per la trasmissione della fede cristiana», 8-12-2012).
70) Francesco, Esortazione apostolica post-sinodale «Evangelii gaudium» sull’annuncio del Vangelo nel mondo attuale, cit., n. 117.
71) Ibidem.
72) Ibid., n. 120.
73) Ibid., n. 122.
74) Ibid., n. 142.
75) Ibid., n. 119.