San Giuseppe Allamano si aggiunge alla lunga schiera dei “santi sociali” che l’Ottocento ha donato al Piemonte, oggi, come molta parte dell’Occidente, bisognoso di riscoprire la sua identità cristiana
di Silvia Scaranari
Torino, da sempre città complessa da decifrare, oggi pare aver perso ogni sua identità. Chi cammina per le strade del centro può ancora percepire l’austera struttura e l’aristocratica architettura dei suoi palazzi, ma non ne respira più lo spirito fiero di un tempo. Oggi è una città in cui trionfano il relativismo e, spesso, l’individualismo Torino combatte tra una crescente crisi economica e la ricerca di nuove strade per sopravvivere, tra una denatalità devastante e una immigrazione decisamente sopra le sue possibilità di accoglienza decorosa.
Immigrazione a cui Torino dovrebbe essere abituata, poiché la sua storia, negli ultimi due secoli, è segnata da un flusso costante a partire dalla metà dell’Ottocento, quando migliaia di giovani e giovanissimi si sono riversati nella città provenendo dalla campagna. L’aristocratica Torino accoglie, ma spesso sfrutta, ed ecco che nasce quasi spontanea la cosiddetta “carità sociale”. L’aristocratica cittadina, liberale e massonica, vede emergere uno stuolo di cattolici impegnati che danno l’avvio a decine di opere di assistenza, supporto, consiglio, accoglienza, indirizzo. Torino diventa la città dei santi sociali, la città con il più alto numero di santi in un periodo storico definito, la metà dell’Ottocento: san Giuseppe Benedetto Cottolengo, san Giovanni Bosco, santa Maria Mazzarello, san Giuseppe Cafasso, il beato Faà di Bruno, il beato Federico Albert, san Leonardo Murialdo, le venerabili Giulia e Tancredi Falletti di Barolo.
Certamente dimentico qualcuno. Da domenica 20 ottobre 2024 dobbiamo però aggiungere san Giuseppe Allamano, canonizzato da Papa Francesco in piazza San Pietro.
Giuseppe Allamano nasce a Castelnuovo d’Asti il 21 gennaio 1851, in un contesto che sembra segnarne il futuro: lo stesso paese natale di san Giovanni Bosco. Il fratello della mamma è san Giuseppe Cafasso. Di intelligenza vivace, viene mandato a Torino, a studiare presso l’oratorio di Valdocco, il suo educatore e confessore, ed è proprio don Bosco che, cogliendone l’indubbia vocazione, vorrebbe farne un salesiano, ma il giovane ha altre prospettive e, quasi di nascosto, lascia l’oratorio per entrare nel Seminario diocesano, dove sarà ordinato sacerdote nel 1873, a 22 anni. Ottiene l’incarico di formare i giovani seminaristi e la guida del Convitto ecclesiastico.
A 29 anni diventa rettore del più importante santuario torinese, la Consolata. Sia il Convitto sia il santuario versano in pessime condizioni: disorganizzazione, scarsa cura verso i seminaristi. Subito l’Allamano cerca di porre rimedio, iniziando un rapporto personale con i giovani e infondendo un sacro ardore spirituale nei loro cuori.
Il santuario necessita di un radicale restauro e, pur senza risorse economiche, ma confidando nella Provvidenza, vi pone mano, portandolo all’attuale maestosa bellezza.
La dimensione cittadina non gli basta. Nel 1864, mentre era all’oratorio di don Bosco, aveva incontrato mons. Guglielmo Massaja, per decenni evangelizzatore dell’Etiopia, e la sua testimonianza aveva lasciato un segno profondo nel cuore dell’adolescente. Da adulto esprime al vescovo la sua volontà di partire per le missioni africane, ma ne è impedito a causa della salute cagionevole: aveva frequenti e fortissime emicranie, che lo accompagneranno tutta la vita. Se non può partire lui, perché non preparare altri giovani per le missioni? Inizia ad infondere nei seminaristi e nei giovani presbiteri un ardore missionario, ma per diversi anni è ostacolato in questo progetto dai vescovi locali, timorosi di perdere sacerdoti per le diocesi. Nella primavera del 1900, dopo una guarigione miracolosa da una gravissima polmonite, prende la decisione e durante la convalescenza, a Rivoli, scrive al vescovo, mons. Agostino Richelmy, suo amico dai tempi del Seminario, per sottoporgli il progetto della nuova congregazione: i Missionari della Consolata. Nel 1901 ne ottiene parere favorevole e inizia l’opera a cui, nel 1910, si affianca il ramo femminile.
La formazione dei suoi giovani non è solo teologica e spirituale: Allamano vuole una formazione a 360° gradi. Prima di tutto le lingue per poter comunicare, poi medicina e biologia, agricoltura ed economia, tecnologia e pedagogia, per essere pronti ad aiutare le popolazioni su diversi fronti. I primi sacerdoti partono nel 1909 per il Kenya, poi per l’Etiopia, e a macchia d’olio raggiungono tante altre aree africane. Con tutti mantiene un contatto personale: scrive tantissime lettere e si dedica a scrivere opuscoli per esortare, mantenere vivo lo spirito di preghiera e azione, basato sul motto Fate bene il bene, mentre per i cattolici italiani c’è una rivista tutta dedicata a informare e infiammare lo spirito, ancora oggi pubblicata: Missioni Consolata.
Si moltiplicano le case di formazione, ma per Allamano non basta. Bisogna sensibilizzare i cattolici verso le missioni, allora nel 1912 invia una lettera a tutti i superiori degli istituti missionari italiani per sollecitare il loro appoggio presso il Santo Padre, san Pio X, a cui chiede «un atto pubblico», un appello per le missioni. Il suo desiderio sarà esaudito, ma solo da Pio XI, che nel 1927 proclamerà la Giornata Mondiale delle Missioni, collocandola nella penultima domenica di ottobre. Allamano non vedrà coronato il suo sogno, perché muore a Torino il 16 febbraio 1926.
Oggi la sua salma è venerata presso la Casa Madre dei Missionari, in Corso Ferrucci 14, a Torino. La memoria liturgica cade il 16 febbraio.
Martedì, 22 ottobre 2024