Con lui scompare l’emblema di un mondo, un uomo che ha saputo unire bene azione e pensiero, passato e futuro. Affinché la sua testimonianza non venga scordata
di Marco Respinti
Il 12 dicembre con Lee Edwards (1932-2024) è scomparsa una figura emblematica del movimento conservatore statunitense, e, se è consentito, un amico. In persone come lui si sono amalgamati alla perfezione l’uomo di azione e l’uomo di pensiero, si è specchiata la cifra di una generazione, quelli venuti dopo si sono rinfrancati trovando posto sulle spalle di giganti.
Un popolo
In essenza, quello che, riguardo agli Stati Uniti d’America, la storiografia ha imparato a chiamare «movimento conservatore» (per mancanza di definizioni migliori, giacché l’espressione non certo priva di significato risulta però sempre più riduttiva e striminzita man mano che la prospettiva temporale si amplia) è stata l’esperienza di “un popolo”: un insieme di persone accomunate da un’intuizione che si è presto espressa in una comunità sorpresasi disposta, a un certo momento della storia di quel Paese, ad assumersi l’incombenza ‒ quanto coscientemente è impossibile dirlo, anche se possibilissimo è dire che la dose di incoscienza, benché non di superficialità, sia stata grande ‒ di provare a dare carne e sangue a idee. Uno dei maestri di quel mondo, Richard M. Weaver (1910-1963), ha firmato, nel 1948, un libriccino ‒ per molti aspetti aureo ‒ che con un titolo preciso, diventato presto un motto e una divisa, spiega il concetto meglio di tanti trattati: Ideas Have Consequences (University of Chicago Press, Chicago), «le idee hanno conseguenze», alle idee seguono i fatti.
Ora, i fatti conseguono sempre alle idee. Se si tratta di idee buone, i fatti potranno essere buoni, e viceversa, ma non è automatico. Servono operai nella vigna, volenterosi, generosi, pure un pizzico incauti. Uomini e donne che non hanno capito tutto preventivamente, ma che si danno, senza risparmiarsi, né misuratini nel calcolo del successo né consumati dall’ansia di prestazione, ma disponibili.
Quando nel 1964 il senatore Barry M. Goldwater (1909-1998) perse clamorosamente la corsa alla Casa Bianca dopo essersi coscientemente candidato a rappresentare quel popolo che al tempo ancora non sembrava e ancora poco sapeva di essere tale, quello stesso popolo embrionale cominciò a riconoscere se stesso, a riconoscersi in se stesso, a essere riconoscibile con il nome della sconfitta che non si arrende, della disfatta che si rialza, del fallimento che investe e ricostruisce. Quel popolo prese coscienza di tutto ciò solo strada facendo, ma è così, sempre, che l’uomo conosce le cose e la verità nella storia: lungo il tempo. Quel popolo si sorprese a essersi assunto il compito di riportare il Paese alla propria identità, nientemeno che al principio e fondamento. In questo onorava appieno la dignità del titolo di «conservatore». Che poi sia riuscito davvero a farlo è un altro discorso, ma la posta in gioco, fra alti e bassi, cadute e riprese, è sempre più consapevolmente stata quella.
Dei maestri
Protostoria e fulcro di quel movimento di popolo sono stati ambienti il cui nome è leggenda (non bugia, ma racconto eroico) come il periodico National Review, fondato nel 1955 da William F. Buckley Jr. (1925-2008), e l’organizzazione giovanile (per forza, allora erano tutti giovani e belli) Young Americans for Freedom (YAF), sorta nel 1960. Lee Edwards c’era, e la sua biografia è praticamente tutt’uno con quella storia.
Com’è stato autorevolmente scritto ‒ per esempio, e facendo scuola, dallo storico (e amico, un altro) George H. Nash in The Conservative Intellectual Movement in America Since 1945 (Basic Book, New York 1976; n. ed. ISI Books, Wilmington [Delaware] 2006) ‒, il movimento conservatore post-bellico statunitense nasce dal crogiuolo in cui si sono man mano amalgamate tensioni differenti come nella sintesi fra gli ingredienti di una pietanza equilibrata e saporosa. In realtà, con il senno di poi, e alla luce di successi e vittorie di quel mondo, tali differenze sono descrivibili senza fallacia più come enfasi su questo o su quell’aspetto di una cultura comunque condivisa che non come antagonismi, più come manifestazioni specifiche di una cultura comune che non come contrasti. Erano membra sparse da ricomporre in un corpo unitario, ma di ciò avrebbe potuto e poté incaricarsi solo la storia, come ha fatto.
In particolare, all’alba della storia di quel popolo si evidenziarono tre striature che marcavano maggiormente l’una la morale tradizionale e la filosofia politica classica, l’altra la libertà economica minacciata dalle mire dello Stato moderno, una terza il contrasto con il comunismo, soprattutto sovietico, allora trionfante. Ma, appunto, a ben guardare, e la distanza temporale aiuta, si trattava di sguardi sul medesimo obiettivo da angolature complementari.
Quei tre orientamenti sono stati ricondotti ora all’un pioniere di pensiero ora all’altro che in quei primi anni ammaestrarono una generazione, grazie al Cielo senza averne l’aria e l’allure, così da non risultare vecchi guru (benché anche loro giovani in età) impegnati «9 to 5» nel mestiere spocchioso di impartire paternali. Ammaestrarono con naturalezza, suscitando ammirazione e per imitazione. Russell Kirk (1918-1994), Whittaker Chambers (1901-1961), Friedrich A. von Hayek (1899-1992), Robert A. Nisbet (1913-1996), il succitato Weaver per non nominare che i principali, persino “da Wikipedia”.
Il «fusionismo»
Il primo riconoscimento cosciente del fatto che quelle tre sensibilità non fossero contraddizioni bensì sottolineature di aspetti fu articolato da Frank S. Meyer (1909-1972), e non senza critiche e contraccolpi, attraverso un neologismo dal suono non certo splendido ma dalla caratura forte, «fusionismo». Lo elaborò sempre più consapevolmente in opere come In Defense of Freedom: A Conservative Credo (Regnery, Chicago 1962) e The Conservative Mainstream (Arlington House, New Rochelle [New York] 1969), ma pure con la raccolta di saggi di maestri diversi che curò con il titolo What is Conservatism? (Holt, Rinehart and Winston, New York 1964). La grande ingiustizia che è stata fatta a Meyer è stata quella di intendere il fusionismo come il tentativo di mescolare componenti diverse, mentre in realtà fu la ricerca dell’unità perduta davanti alla frammentazione.
Riguardare ora la storia di quel popolo non significa cancellare, con la spugna del tempo, un po’ per miopia e un po’ per indulgenza inutile, le asperità in un “tutto va bene” vano: vuole piuttosto dire che la storia ha reso giustizia delle conseguenze migliori delle idee buone e delle braccia forti.
Gli Young Americans for Freedom furono il primo esperimento reale del «fusionismo», cioè di quella proposta che diventerà l’essenza stessa del conservatorismo statunitense generando una cultura importante di ricupero delle origini giacché di pensiero autentico, e non solo di nostalgia, dell’origine. Una cultura che si gettò per la prima volta in politica con Goldwater, che ebbe un importante momento ancora politico nella vittoria presidenziale di Ronald Reagan (1911-2004) nel 1980 e che poi ha avuto prosiegui coinvolgenti. Quando la YAF venne fondata come prima pignatta della pietanza fusionista, Lee Edwards fu uno dei suoi chef stellati. Diresse New Guard, il periodico di quell’organizzazione che due anni dopo, nel 1962, vide un giovanissimo Reagan entrare nel Comitato d’indirizzo e poi servire da presidente onorario per 42 anni. Nello stesso anno, la YAF organizzò eventi pubblici gremitissimi in cui il popolo dei conservatori cominciava a mostrarsi e in prima fila nel pubblico sedeva Goldwater. L’anno successivo, il 1963, vide nascere il «Draft Goldwater Committee», il comitato elettorale che alla fine ottenne a Goldwater la designazione a rappresentare il Partito Repubblicano nelle elezioni presidenziali del 1964 e Lee Edwards ne diresse la sezione mediatica. Da quel momento, talora apertamente e talaltra più discretamente, Edwards è stato uno degli artefici veri del conservatorismo come fusionismo.
Un «Mondo Piccolo» enorme
Nato a Chicago da una famiglia cattolica fortemente e intelligentemente anticomunista, Edwards conseguì il dottorato in Scienze politiche nell’Università Cattolica d’America di Washington con una tesi intitolata Congress and the Origins of the Cold War, 1946–1948. Era il 1986, tardi: l’attività politica e pubblicistica gli avevano allungato i tempi, ma Edwards, conseguito il baccalaureato in Inglese alla Duke University di Durham, in North Carolina, nel mezzo dei suoi vent’anni bazzicava l’Europa, aveva preso dimora a Parigi, seguiva corsi universitari alla Sorbona e lì visse la speranza e la tragedia della rivolta anticomunista ungherese del 1956.
Fece parte del côté statunitense del milieu cattolico tipico della Chiesa del Papa Venerabile Pio XII (1876-1958), il che vuol dire una miscela di mons. Fulton J. Sheen (1895-1979) e bei film in bianco e nero di una Hollywood che non c’è più: un «Mondo Piccolo» fatto di spazi enormi come enormi sono tutte le cose nordamericane che non aveva affatto bisogno di strafare per essere nel mondo ma non del mondo. Più volte ne ho ascoltato incantato i racconti di Annette Kirk, vedova di Russell Kirk, amica cara di sempre di Lee Edwards, presidente del Russell Kirk Center for Cultural Renewal di Mecosta, Michigan, dove il sottoscritto è uno dei Senior Fellow da quando, sono passati decenni, con lei, con Lee Edwards e con altri si tenevano, negli Stati Uniti, conferenze sul pensiero e sul lascito di Kirk, persino nel Rancho del Cielo, sulla Santa Ynez Mountain, a nordovest di Santa Barbara, in California, la tenuta appartenuta a Reagan e signora che dal 1998 è gestita dalla Young America’s Foundation, nata nel 1969 accanto alla vecchia YAF e in qualche modo sua succedanea.
Stenografo e narratore
Edwards è stato adamantino giornalista culturale come senior editor di The Wold & I, un sontuoso tomo di approfondimento politico-culturale irto di belle firme che vantava svariate decine di pagine ogni mese, prodotto nella medesima fucina da cui usciva, ed esce, il quotidiano conservatore The Washington Times. Ha scritto libri importanti e dedicato monografie a Goldwater, Reagan, Buckey Jr. ed Edwin Meese III, ministro della Giustizia sotto Reagan.
Indossati i panni dello storico, del movimento conservatore ha stenografato e raccontato come un vero narratore pezzi di storia importanti in libri come The Power of Ideas: The Heritage Foundation at 25 Years (Jameson Books, Ottawa [Illinois 1997], The Conservative Revolution: The Movement That Remade America (Free Press, New York 1999), Educating for Liberty: The First Half-Century of the Intercollegiate Studies Institute (Regnery, Washington 2003) e Leading the Way: The Story of Ed Feulner and the Heritage Foundation (Crown Forum, New York 2013) ripercorrendo ambienti, istituzioni, fatti e personaggi che sono stati anche la sua stessa vita, culminando poi nel libro di memorie Just Right: A Life in Pursuit of Liberty (ISI Books, 2017).
Lee Edwards è stato presidente della Philadelphia Society, un’altra comunità umana e culturale nata per raccogliere i cocci dell’universo Goldwater e divenuta un centro di gravità permanente, è stato Fellow della Heritage Foundation ed è stato professore aggregato di Politica sia nell’Università Cattolica d’America sia nell’Institute of World Politics, l’ateneo di Washington e di Reston, in Virginia, specializzato in sicurezza nazionale, intelligence e affari internazionali.
La bestia rossa
Tutta di Edwards è stata l’idea della Victims of Communism Memorial Foundation, fondata assieme all’amico e collega Edwin J. Feulner Jr., altro cattolico, e Cavaliere di Malta, co-fondatore e a lungo presidente della Heritage Foundation, istituita con un atto ufficiale del Congresso federale nel 1993. Una volta completata, la Fondazione è stata inaugurata nel 2007 dall’allora presidente George W. Bush attraverso il disvelamento di una statua in onore della libertà che si ammira a poca distanza dalla Union Station di Washington e che replica quella a cui si aggrapparono e su cui morirono gli studenti di Piazza Tiannamen la notte del 4 giugno 1989 a Pechino, schiacciati dai cingoli del comunismo cinese.
Ingrigito come un guerriero che ha visto molte primavere e molti inverni, da presidente emerito della Fondazione Lee Edwards ha fatto in tempo a vedere l’apertura del suo bel museo dedicato alle vittime dell’odio rosso nel giugno 2022.
Una forza inarrestabile, quella di Lee, lungo una vita intera, spesa bene a mettere a frutto il passato per costruire il futuro oggi: un conservatore, cioè, tondo.
Mi rendo conto adesso che di quelli come lui ora ce ne sono più in Cielo che sulla Terra. È un segno inequivocabile del tempo, se non addirittura dei tempi. Ma sono i Lee Edwards che aiutano a non perdere mai la speranza, anche quando le luci si affievoliscono: i Lee Edwards sempre sanior pars anche quando non maior pars.
Sabato, 21 dicembre 2024