di Don Giovanni Poggiali
Fino a circa tre secoli fa, nessuno metteva in discussione l’esistenza storica di Gesù di Nazaret e la credibilità dei Vangeli. Con il periodo di egemonia dell’Illuminismo e con l’esaltazione della ragione come riferimento assoluto, divenne ordinaria la verifica dell’attendibilità degli eventi storici vagliandone i documenti e verificando le fonti. Questa ricerca sul Gesù storico era caratterizzata anche da dubbi e da contestazioni intorno alla sua figura e agli stessi racconti evangelici. Non erano più sufficienti la tradizione di fede e le convinzioni tramandate dalle generazioni precedenti. Il metodo applicato alle fonti cercava di ricostruire un testo nella forma originaria, per discernere le diverse varianti esistenti e per vagliarne quindi l’attendibilità storica ma questo sistema, in sé buono, portava a ridurre la portata storica dei Vangeli a vantaggio di principi filosofici ed ermeneutici esclusivamente razionali.
1. La nascita dei Vangeli
Con la morte di Gesù e la sua risurrezione, l’annuncio del Vangelo si diffonde, a partire da Gerusalemme, cioè dalla sponda orientale del Mare Mediterraneo, in Asia, nel nord Africa e in Europa fino a Roma. Fondamentale era la predicazione orale, in quanto Gesù non ha lasciato nulla di scritto e la memoria era la tecnica fondamentale per trasmettere la Buona Novella. Solo dopo vent’anni circa dalla morte del Fondatore, iniziarono a prendere forma i primi scritti del Nuovo Testamento (NT), le Lettere dell’apostolo Paolo e, dopo circa trent’anni di predicazione orale, presero forma i primi tre Vangeli chiamati «sinottici» — quello di Matteo, quello di Marco e quello di Luca —, perché leggibili insieme con un unico sguardo, in parallelo.
Un primo nucleo dei Vangeli, secondo la critica storica recente, soprattutto quella di autori tedeschi, è stato ricavato dalla predicazione orale facendone schemi e attraverso la raccolta di materiale omogeneo — parabole, miracoli, detti, discorsi e così via —, messo insieme con un lavoro di redazione scritta a partire dalla seconda metà del I secolo.
Infatti, sono tre, secondo gli studiosi, le fasi di formazione dei Vangeli: la vita stessa di Gesù, la tradizione orale e la redazione evangelica scritta.
La predicazione di Gesù colpiva gli uditori. Nessuno parlava come lui e risolveva ogni questione con una originalità mai udita prima. Le frasi venivano ripetute e mandate a memoria utilizzando tecniche come l’andamento ritmico, la ripetizione di parole che si potessero ricordare, antitesi, parallelismi, assonanze, parabole ed esempi di vita quotidiana. La tradizione orale risulta attendibile attraverso particolari quali la verifica e la concordanza della redazione finale dei Vangeli che è la stessa in tutte le comunità del Mediterraneo ed è conforme nella sequenza narrativa e del testo. Gli Apostoli sono garanti di questo passaggio dalla fase orale a quella scritta, perché non soltanto sono decisive le loro testimonianze personali per aver vissuto con il Maestro, ma anche perché dopo la risurrezione di Gesù la predicazione evangelica si è svolta sotto la loro cura e la loro autorità. Tutto il materiale elaborato, quindi, era a disposizione degli evangelisti che, oltre alle loro ricerche personali, potevano disporre di elementi vagliati e solidi. Ciò che conta — al di là degli studi anche complessi sui sinottici, sulla loro composizione e sulla eventuale dipendenza l’uno dagli altri — è il fatto che esiste una sostanziale concordanza delle fonti sulla predicazione del Maestro e sugli eventi principali della sua vita. Il Magistero della Chiesa, nel documento del Concilio Vaticano II (1962-1965) Dei Verbum,sulla divina Rivelazione, afferma infatti «senza esitazione la storicità» dei quattro Vangeli (n. 19). Infatti, se, per esempio, analizziamo l’evangelista Luca, all’inizio del suo Vangelo egli ricorda le accurate ricerche storiche che proseguirà nella seconda parte della sua opera, gli Atti degli Apostoli, per indicarne la fondatezza storica, ricercata con acribìa, nonché con meticolosa e con accurata precisione. Luca usava le stesse tecniche adoperate dagli storici di professione, come per esempio l’ateniese Tucidide (460 ca.-399 a.C.). Si può affermare che l’intera opera di Luca sia una opera storica, non solo teologica, come d’altronde tutti i testi evangelici. La metodologia della ricerca storica, a livello critico, scientifico ed epistemologico, nasce in Età Moderna, ma i prodromi e i prerequisiti derivano dal confronto con l’età classica di cui anche i Vangeli, se vogliamo, sono parte.
2. I manoscritti del Nuovo Testamento
I Vangeli rimangono il testo più documentato della storia antica. Nella cultura greco-romana, le opere venivano normalmente trascritte su un rotolo di papiro, una pianta del delta del Nilo, o su pergamena, ricavata dalla pelle di pecora, di capra o di vitello. Anche la maggior parte dei manoscritti del NT ci sono giunti su questi materiali. Il passaggio dal rotolo alla pergamena fu una novità rilevante, usata fino al comparire della carta nel XIV secolo, e i fogli di pergamena venivano rilegati attraverso dei fili per comporre i primi «libri» o «codici». I più antichi frammenti di papiri del NT sono infatti pagine di codici. Il codice aveva il vantaggio di contenere tutti e quattro i Vangeli e le lettere di Paolo, cosa impossibile per un rotolo di papiro che al massimo era lungo dieci metri e poteva contenere solo alcuni libri neotestamentari. I due più antichi manoscritti sono chiamati «maggiori», perché contengono tutta la Bibbia, il Codice Vaticano e il Codice Sinaitico. Entrambi sono della prima metà del IV sec. e sono codici pergamenacei. Gli amanuensi, spesso monaci che silenziosamente dai loro scriptoria copiavano i testi biblici proprio da «certosini», rispettavano scrupolosamente il testo sacro senza aggiungervi nulla perché sapevano l’importanza del loro lavoro per le generazioni future. Copiarono i testi con grande fedeltà, da luoghi geografici diversi e lontani e non potevano mettersi d’accordo per manipolarli come qualcuno ha sostenuto. Le migliaia di copie manoscritte contengono tutte lo stesso contenuto, con alcuni errori di ortografia riportati nei precisi apparati critici delle varie edizioni, sviste inevitabili per un amanuense che scriveva diverse ore al giorno ripiegato sul suo scriptorium con la sola luce del giorno.
3. Le tracce semitiche del testo greco
I quattro Vangeli ci sono pervenuti nella lingua greca, mentre gli originali degli evangelisti sono andati perduti. Gli studiosi convergono in maggioranza sulla idea che le versioni autentiche siano state scritte in greco, che era come l’inglese dell’epoca, ma ci sono opinioni diverse soprattutto per il Vangelo di Matteo scritto secondo alcuni nell’originale aramaico, come attestano i Padri fin dall’antichità: per esempio san Papia (70 ca.-130), vescovo di Hierapolis, nell’attuale Turchia. In effetti, l’analisi filologica del greco neotestamentario rivela un sottofondo ebraico e aramaico del testo sia nel lessico, sia nella struttura morfologica e sintattica. Joachim Jeremias (1900-1979), teologo tedesco e uno dei massimi esperti di lingue semitiche, afferma infatti che la lingua madre di Gesù era la variazione galilaica dell’aramaico occidentale. L’aramaico era la lingua orale del popolo, soprattutto in Galilea, mentre l’ebraico era la lingua scritta.
Una prima evidenza che appare negli scritti evangelici sono le parole aramaiche o ebraiche non tradotte nel testo greco. Parole, o brevi frasi, indimenticabili per i discepoli di lingua semitica che le ricordavano anche a parecchi anni di distanza. Anzitutto la parola «Abbà», «Padre», un unicum nella letteratura mondiale, che Gesù per la prima volta usa per comunicare con Dio Padre. Presente almeno tre volte nel Nuovo Testamento, fra Vangeli e Lettere di san Paolo, questa parola esprime uno tra i significati più importanti che, secondo Jeremias, in qualche modo riassume tutto il contenuto del Vangelo: Dio è Padre misericordioso, in comunione con il Figlio e con ciascuno di noi. Troviamo poi la parola «Amen», ripetuta più volte, che significa «Io credo», «così sia», che deriva dal verbo ebraico «Aman», «credere». Oppure la parola «bar», «figlio», da cui «Bariona», «figlio di Giona» (cfr. Mt 16,17), oppure «Bartimeo», «figlio di Timeo» (cfr. Mc 10,46). Quindi la parola «lemà»che significa «perché», inserita per esempio nella frase di Mt 27,46: «Elì, Elì, lemà sabactàni?», che significa «Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato»; «kum» o «qum», «alzati!» (cfr. Mc 5,41: «Talità kum», che significa: «Fanciulla, io ti dico: àlzati!») e così via. Tante sono le parole ebraiche disseminate nei testi che ci indicano come la cultura e lo sfondo evangelico siano semitici e che gli scritti provengano dalla Palestina e non siano l’invenzione di una comunità post-pasquale, che in maniera fantasiosa ha poi aggiunto qualcosa o addirittura creato gli stessi scritti. Anche le «parabole» di Gesù sono uniche nel panorama letterario dell’antico giudaismo. Abbiamo poi i modi di dire tipici della cultura semitica, i «parallelismi antitetici», cioè il contrapporre due frasi, una affermativa e una negativa, come ad esempio: «Il cielo e la terra passeranno ma le mie parole non passeranno» (Mt 24, 35). Sono presenti diverse altre tecniche, come, per esempio, la sovrabbondanza di termini, parlare cioè con la ripetizione delle parole come in Lc 8,5: «Il seminatore uscì a seminare il suo seme. Mentre seminava, una parte cadde lungo la strada e fu calpestata». Vediamo come la parola «seminare» e derivati siano abbondanti: seminatore, seminare, seme, seminava. Risulta chiaro, per uno storico, che il testo greco è stato scritto attingendo a testimoni oculari diretti della predicazione di Gesù, testimoni fedeli al suo messaggio originario.
4. Lo studio sulla ricerca del Gesù storico
Dalla seconda metà del 1700 la pacifica ammissione della storicità dei Vangeli viene meno. Gotthold Ephraim Lessing (1729-1781), filosofo tedesco, dà alle stampe alcuni estratti del manoscritto di una opera colossale di Hermann Samuel Reimarus (1694-1768), filosofo illuminista tedesco, il quale ammette che la figura di Gesù è mitica ed è stata inventata dai suoi discepoli: è questa la fase della ricerca denominata «Old Quest». L’ebreo olandese Baruch Spinoza (1632-1677), filosofo razionalista, affermava che il metodo per interpretare la Scrittura non deve essere diverso da quello utilizzato per interpretare la natura e, quindi, l’ermeneutica illuminista stabilisce la sola ragione umana come riferimento assoluto per liberarsi da ogni pregiudizio. Se però, diciamo noi, non ci deve essere un metodo per interpretare la Scrittura, sarà molto difficile che la sola ragione possa far luce su un insieme di testi che risultano un qualcosa di unico perché, come ha ormai dimostrato la moderna ermeneutica, non è possibile un esame neutro di un testo senza una precomprensione e, in particolare, di un libro biblico prescindendo dalla fede. Altri autori, quindi, si sono aggiunti in questa ricerca, come Joseph Ernest Renan (1823-1892), David Friedrich Strauß (1808-1874), Martin Kähler (1835-1912), che con la sua opera Il cosiddetto Gesù storico e l’autentico Cristo biblico (trad. it., D’Auria, Napoli 1993), distingue Gesù da Cristo, il primo è il Gesù storico reale, il secondo è il Cristo biblico come gli apostoli lo hanno predicato. Kähler, sancisce così la divisione fra il Gesù storico e il Cristo della fede. Questa fase della ricerca è denominata «No Quest».
Uno dei maggiori protagonisti della fase mitica, negli anni dal 1920 al 1953 circa, fu Rudolf Bultmann (1884-1976), studioso luterano. Egli distinguerà il «Cristo della fede» e il «Gesù della storia» parlando espressamente di «demitizzazione» del cristianesimo. Per lui, era inutile qualunque ricostruzione del passato della vita di Gesù perché la fede non è interessata a questioni storiche.
Fu uno dei suoi discepoli, Ernst Käsemann (1906-1998), nel 1953, a mettere in discussione la filosofia del maestro con una celebre conferenza tenuta a Marburgo — intitolata e pubblicata come Il problema del Gesù storico —, nella quale pose a Bultmann, presente a quell’evento, delle domande decisive: una fede nel Risorto senza realtà storica è ancora fede? Mentre Bultmann affermava che non era importante l’esistenza storica di Gesù, ma importante era la fede in Lui, Käsemann riteneva invece che il Gesù terreno dovesse essere un personaggio veramente esistito per venire agganciato al Cristo della fede. Questa fase della ricerca è denominata «New Quest».
In seguito, almeno dal 1980 in poi, soprattutto con il gesuita americano John Paul Meier (1942-2022, che scrisse Un ebreo marginale. Ripensare il Gesù storico (5 voll., Queriniana, Brescia 2001- 2018), siamo a una nuova fase della ricerca, la cosiddetta «Third Quest».
Giungiamo, infine, a Papa Benedetto XVI (2005-2013) che, con i suoi libri su Gesù di Nazaret, afferma che ripartire dai Vangeli è il modo migliore per trovare la verità storica dei Vangeli stessi. Egli, attraverso la sua ricerca, ha voluto mostrare che il Gesù dei Vangeli è il Gesù reale, il «Gesù storico», figura più comprensibile e logica di tutte le ricostruzioni che in questi decenni sono state fatte.
Mercoledì, 25 dicembre 2024
Per approfondire
Marco Fasol, Gesù di Nazaret una storia vera?, Edizioni Ares, Milano 2024.
Joseph Ratzinger-Benedetto XVI, Gesù di Nazaret, Rizzoli, Milano 2007.
Idem, Gesù di Nazaret. Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2011.
Idem, L’infanzia di Gesù, Rizzoli-LEV, Milano-Città del Vaticano 2012.