Domenico Airoma e Renato Veneruso, Cristianità n. 428 (2024)
1. Quale Europa?
La recente consultazione per il Parlamento Europeo ha riproposto, ancora una volta e con ancor più bruciante evidenza, il conflitto che, almeno dal 1989, ovvero dall’implosione dell’impero social-comunista, sta infiammando, con alterne vicende, il continente europeo e l’intero Occidente (1): una contrapposizione fra due antitetici modi d’intendere l’identità e la missione dell’Europa e, conseguentemente, il ruolo dell’Unione Europea.
Lo stesso presidente del Consiglio, on. Giorgia Meloni, nell’indirizzo di saluto inviato al Centro Studi Rosario Livatino in occasione del convegno, tenutosi presso la Biblioteca del Senato il 15 maggio scorso sul tema Ripartire dall’Europa. Ripensare l’Unione, ha ritenuto di dover richiamare l’attenzione proprio su tale drammatica alternativa, fra «[…] due modelli d’Europa. Da una parte, un super-Stato burocratico ipercentralista e nemico delle specificità nazionali, costruito sul trasferimento di nuove competenze e quote sempre maggiori di sovranità dai governi e dai parlamenti legittimati dai popoli alla Commissione europea; dall’altra, una confederazione di Nazioni sovrane, unite sui grandi temi ma libere di affrontare questioni di stretta rilevanza nazionale, garantendo quel principio di sussidiarietà sancito dai Trattati dell’Unione Europea». In quella stessa occasione il Capo del governo ha chiarito a quale modello intende ispirare la propria azione politica in ambito europeo: «Noi crediamo in questo secondo modello e stiamo lavorando per costruirlo. Non vogliamo, cioè, un’Europa che pretenda di imporci cosa dobbiamo mangiare, quale auto guidare, in che modo ristrutturare la nostra casa, quali abiti indossare e magari anche come scrivere e pensare. Questa è un’Europa arrogante e invasiva, contraria alla libertà dei suoi cittadini. Noi vogliamo un’Europa forte e autorevole, che faccia meno ma meglio. Far meglio vuol dire avere un’Europa che si occupi dei grandi temi, a partire dalla politica estera e di sicurezza comune, che sia protagonista nel mondo e negli scenari di crisi, ma che lasci tutto il resto alla libertà e alla sovranità delle Nazioni». L’on. Meloni, infine, ha evocato anche lo scenario più grande al quale deve ispirarsi chi intenda promuovere strategie di più ampio respiro: «Chi ha a cuore il futuro dell’Europa ha un altro dovere a cui adempiere: risvegliare quest’Europa dal sonno in cui è piombata e che le ha fatto dimenticare da dove proviene e quali sono le sue radici. L’Europa è la terra nella quale fede, ragione e umanesimo hanno trovato una sintesi straordinaria, che ha fertilizzato il terreno sul quale sono sorte le grandi cattedrali, è nato lo Stato sociale, è cresciuta la separazione tra Stato e Chiesa, si è sviluppata una società che mette al centro la persona e che ha nella persona il suo fine ultimo. Questa è l’Europa che amiamo. Questa è la vera Europa, che vogliamo consegnare, vitale e prospera, ai nostri figli e nipoti» (2).
In contrapposizione frontale con tale modello si pongono l’analisi e, soprattutto, la proposta alternativa, per esempio, di Elsa Fornero, già ministro del Lavoro nel governo tecnico presieduto dal sen. Mario Monti, nota più per la riforma previdenziale e del mercato del lavoro che ne prende il nome, che non per le sue posizioni di intransigente ostilità all’attuale governo italiano. Nel lamentare che «la classe dirigente europea non sembra esser riuscita a tenere la barra dritta sui valori dei padri fondatori dell’Unione che si sono tradotti in moneta unica e mercato unico» (sic!) — per cui «l’Unione ha così vissuto un quindicennio horribilis di paure e diseguaglianze crescenti. Le visioni più tecnocratiche della politica sono risultate incapaci di suscitare visioni e sentimenti lasciando spazio ai populismi e ai nazionalismi» —, la Fornero ritiene che occorra recuperare «tre fronti»: «il primo è riuscire a rendere non alternativi il calo demografico e l’immigrazione. Abbiamo bisogno di migranti e dobbiamo aumentare il tasso di fertilità, o almeno arrestarne la caduta; non già per mantenere la nostra identità nazionale ma per evitare le drastiche ripercussioni economiche e sociali dello sconvolgimento nella composizione per età della popolazione […]. Non ci sono ricette sicure ma un mix di elementi culturali (come il riconoscimento sociale del diritto delle donne all’indipendenza economica come prerequisito della loro libertà di scelta e in contrasto con atteggiamenti paternalistici).
«[…] Il secondo consiste in una revisione del welfare […]. Occorre superare il principio della sussidiarietà che considera i diritti e le prestazioni sociali un presidio degli stati nazionali […]. I diritti sociali devono diventare un tema europeo non meno delle libertà economiche e occorreranno anche modalità di finanziamento comuni.
«Il terzo, forse più arduo obiettivo, è il ricorso al debito comune […]. Si tratterebbe di un’evoluzione importante della Ue verso un bilancio proprio e forme autonome di finanziamento, un passo decisivo verso quell’Europa Federale che, pur guardata con molto scetticismo o diffidenza, in particolare dalla destra, costituisce però un grande obiettivo per il futuro dei giovani europei» (3).
Ancora più esplicito, al riguardo, Eric Jozsef, corrispondente per l’Italia del quotidiano francese Liberation e presidente dell’associazione Europa Now, candidato nella lista Stati Uniti d’Europa alle elezioni dello scorso giugno, il quale, pur partendo da premesse condivisibili, aderisce poi a soluzioni discutibili: «Dalla crisi agricola (tra sussidi dell’Ue, ambizioni industriali agroalimentari, indispensabile transizione ambientale) al fenomeno migratorio, dalla riconversione di interi settori economici alla regolazione del capitalismo finanziario ma soprattutto al cambiamento della geopolitica mondiale, nessun Paese dell’Ue ha da solo la capacità critica di affrontare questi problemi. […] se non ci si attiva in un orizzonte breve per unire e integrare maggiormente i Paesi membri, dotando l’Ue di un governo democraticamente eletto attraverso una riforma delle istituzioni, tutti i paesi europei dovranno ammettere di essere quasi irrilevanti. […] La questione militare, come quella della diplomazia, è essenziale per capire quanto l’urgenza sia la riforma delle istituzioni comunitarie, nella direzione di una Repubblica federale europea — oppure, detto altrimenti, di Stati Uniti d’Europa» (4).
Significativamente, Achille Occhetto, l’ultimo segretario del Partito Comunista Italiano, prima della sua finale trasformazione nell’attuale Partito Democratico (PD), in un’intervista confessava: «L’obiettivo è l’UE sognata dagli antifascisti di Ventotene» (5); appunto quella federalistica di Altiero Spinelli (1907-1986), al cui progetto — con buona pace della Fornero — venne invece preferito quello della CEE, la Comunità Economica Europea, progenitore dell’attuale UE, di tre statisti cristiani, il francese Robert Schuman (1886-1963), l’italiano Alcide De Gasperi (1881-1954) e il tedesco Konrad Adenauer (1876-1967), la cui bandiera dalle dodici stelle in campo azzurro evoca esplicitamente la Vergine.
Definire a quale modello di Europa ci s’intenda ispirare, quindi, appare sempre più lo snodo decisivo di ogni discorso sui futuri assetti istituzionali che il Vecchio Continente può e deve darsi per fronteggiare la complessità di scenari mondiali in rapida evoluzione, dove gli assetti egemonici che hanno caratterizzato il secolo XX sembrano oramai cedere il passo ad altri — e ancora non chiaramente decifrabili — circuiti di potere, caratterizzati da nuovi blocchi geo-economici (6).
Anche il presidente del Senato Ignazio La Russa, nell’inviare il proprio plauso all’iniziativa del Centro Studi Rosario Livatino, ha ritenuto di dover porre l’accento proprio su tale questione di ordine ideale, pregiudiziale rispetto a ogni discorso riformatore delle istituzioni europee e decisivo per colmare quel deficit democratico, da più parti segnalato come il sintomo più evidente di una malattia molto più profonda e dagli effetti metastatici devastanti: «Appare quindi giusto e doveroso interrogarsi su come si possa e si debba ripensare l’Unione, a partire dalla necessità di colmare la distanza — ancora troppo rilevante — che divide le istituzioni comunitarie dai cittadini» (7).
Così si era espresso sulla questione Mauro Ronco, presidente del Centro Studi Rosario Livatino: «Gli effetti di questo gap di democrazia — e non vi è un effettivo abbozzo di democrazia se non vi è la possibilità di organizzare un’opposizione all’interno dell’istituzione — sono stati la completa depoliticizzazione nel corso del tempo dell’Unione e l’eliminazione della possibilità di un’opposizione ai suoi programmi, alle sue proposte e ai suoi obiettivi.
«Il cuore della politica è infatti il dibattito politico, sostanziato dal confronto tra maggioranze e minoranze. Tale dibattito non è possibile per ragioni tecniche all’interno dell’Unione, anche perché le decisioni importanti vengono assunte dal Consiglio, che è organo decisionale essenziale, in quanto negozia e adotta gli atti legislativi, nella maggior parte insieme con il Parlamento, ma in una sintesi in cui il ruolo cruciale appartiene sempre ai governi degli Stati membri.
«Si verifica pertanto un duplice gap democratico. Il primo, all’interno dell’istituzione europea, ove è impossibile un’opposizione organizzata; il secondo, all’interno dei singoli Stati, ove non solo le decisioni sulle materie di competenza europea sono assunte dai governi, che raramente informano compiutamente il Parlamento nazionale in ordine ai problemi aperti sul tavolo europeo, ma soprattutto per la ragione che le decisioni dei governi sono frutto del compromesso formatosi segretamente nel corso delle discussioni riservate tra i rappresentanti dei governi nel Consiglio.
«La depoliticizzazione ha via via alimentato la pretesa, sotto la guida tecnocratica degli esperti delle élites dominanti, di regolamentare per via tecnico-burocratica interi settori della vita economica e sociale dei Paesi europei, avvalendosi l’Europa del primato giuridico della norma sovranazionale sulla norma interna dei singoli Stati» (8).
Diventa, dunque, decisivo distinguere fra il soggetto-Europa e l’«abito» Unione Europea. Quest’ultimo è il rivestimento istituzionale che si è inteso dare — in un dato momento storico — al soggetto Europa. Tale rivestimento può legittimamente essere criticato o modificato; quel che non può cambiare e non può morire è il soggetto. Perché la patria, anche quella culturale — qual è l’Europa — non muore (9). Può conoscere periodi o epoche di eclissi, subire tentativi di cancellazione o di riscrittura, per opera di nemici esterni o interni, ma il principio generatore non può morire, perché affonda le radici in qualcosa che non è solo opera dell’uomo e che è la ragione della vocazione universale dell’Europa.
Ogni giudizio sull’abito giuridico-istituzionale non può prescindere, quindi, dal suo essere più o meno confacente alle caratteristiche del soggetto chiamato a indossarlo.
2. Quale Unione Europea?
Orbene, bisogna prendere atto che l’abito-Unione Europea, per come si è venuto strutturando e ben diversamente da come era stato immaginato dai padri fondatori e dallo stesso legislatore dei Trattati, è stato «tagliato» secondo il modello tracciato da Altiero Spinelli nel Manifesto di Ventotene, secondo un giro mentale ben preciso e confessato, ma non inedito: fatta l’Unione Europea, bisogna rifare gli europei. «Il partito rivoluzionario non può essere dilettantescamente improvvisato nel momento decisivo, ma deve sin da ora cominciare a formarsi almeno nel suo atteggiamento politico centrale, nei suoi quadri generali e nelle prime direttive d’azione […]. Esso attinge la visione e la sicurezza di quel che va fatto non da una preventiva consacrazione da parte dell’ancora inesistente volontà popolare, ma dalla coscienza di rappresentare le esigenze profonde della società moderna. Dà in tal modo le prime direttive del nuovo ordine, la prima disciplina sociale alle informi masse. Attraverso questa dittatura del partito rivoluzionario si forma il nuovo stato, e intorno ad esso la nuova vera democrazia. Non è da temere che un tale regime rivoluzionario debba necessariamente sboccare in un rinnovato dispotismo. Vi sbocca se è venuto modellando un tipo di società servile» (10).
Molto puntualmente, Serena Sileoni, docente di Diritto Costituzionale presso l’Università di Napoli Suor Orsola Benincasa e vicepresidente del think tank liberale Istituto Bruno Leoni, ha ricostruito l’evoluzione dell’Europa unita: «Il 9 maggio è la festa dell’Europa perché il 9 maggio 1950 il ministro francese degli affari esteri Robert Schuman rese alla stampa una dichiarazione relativa a un punto “limitato ma decisivo” da cui si sarebbe tracciata la linea della “Federazione europea”: la proposta di una gestione comune, sotto una istituzione europea sovranazionale, del carbone e dell’acciaio […].
«Le ambizioni solidaristiche dell’Europa si sono espanse a tal punto che le competenze dell’Unione sono passate dall’essere chiaramente distribuite, limitate e proporzionate all’essere onnicomprensive e indefinite. Rispetto all’ordine europeo previsto dai trattati, sembra essere venuto meno quel principio di attribuzione delle competenze che è un aspetto fondamentale della rule of law europea, perché è un principio che dà prevedibilità, certezza e ordine […].
«I trattati europei sono molto diversi rispetto alle costituzioni nazionali: non pretendono di assegnare un programma politico-costituzionale ad una comunità di cittadini, ma circoscrivono le competenze e le procedure delle istituzioni europee per tenerle entro i loro limiti. Assegnano dei valori condivisi, certo, ma partono dalle finalità e dalla distribuzione delle competenze per neutralizzare l’esistenza di un vero e proprio indirizzo politico europeo. Quest’ordine sembra oggi completamente superato, non è un caso se le basi giuridiche con cui le istituzioni europee agiscono vengono sempre più interpretate in maniera creativa. L’ampliamento del ruolo della Bce da garante della stabilità monetaria a prestatore di ultima istanza, l’invenzione di un programma di indebitamento comune come il NextGEU nel 2020 sono solo due dei più manifesti esempi di una Europa politica che ha iniziato a interpretare in maniera espansiva il suo armamentario giuridico; in maniera meno evidente, ne è esempio il ruolo della Corte di giustizia, ormai Corte costituzionale più che semplice interprete del diritto. O il ruolo centrale come non mai della Commissione, l’unico organo rappresentativo della sola Unione e non anche degli Stati membri e dei suoi cittadini.
«Il Next Generation EU non è stato solo lo spartiacque tra una Unione come struttura giuridica e una come dimensione politica. Ancor più, ha rappresentato un precedente per un salto qualitativo verso una dimensione politica europea sua propria e una titolarità dell’indirizzo politico che non è più negli Stati ma non è più nemmeno solo nei trattati. La riforma del Patto di stabilità segue proprio questa strada. Che è quella di una Europa sempre più simile a una Federazione come metodo, come obiettivi, come strumenti» (11).
D’altronde è irrealistico pensare che l’assetto istituzionale sia derubricabile ad aspetto meramente tecnico: si pensi, per esempio, all’uso sempre più radicale che gli organi euro-unitari hanno mostrato di fare della nozione di «Stato di diritto», vero e proprio grimaldello per imporre un ben preciso modello di Europa e un progetto antropologico da realizzare.
Che fare, dunque? Considerare l’«abito» in sé da dismettere, non più utile né necessario? Sarebbe un grave errore. Oggi, più che mai, l’Europa ha bisogno di un abito capace di mettere insieme le varie identità nazionali, impedendo a queste ultime di contrapporsi le une alle altre e facendone un attore forte sulla scena internazionale.
Un’unione europea — non necessariamente «questa»Unione Europea — è, insieme, «dramma e necessità». Come lo è l’Europa stessa.
Sul punto ha scritto pagine memorabili e di straordinaria attualità lo storico e politologo svizzero Gonzague de Reynold (1880-1970), concludendo: «Occorre che l’Europa si unisca. Occorre che la necessità prevalga sull’impossibilità» (12).
Quale può e deve essere, allora, l’atteggiamento che va sostenuto rispetto a tale abito? Non sembra che possano esserci alternative — posta, si ripete, la necessità dell’abito — a un’opera di attenta promozione di realistici «aggiusti», affinché, quanto meno, non venga soffocato il soggetto Europa e quest’ultimo possa riprendere a muoversi e a respirare ritrovando il suo principio vitale.
3. I risultati elettorali
Le recenti elezioni rappresentano una diffusa, imponente, non più eludibile, richiesta di «aggiustare»l’abito. Una richiesta che si è manifestata nei modi in cui la consultazione elettorale consentiva di farlo, tenendo cioè presente l’offerta partitica.
Un significativo numero di europei si sono recati nella cabina elettorale e hanno premuto il tasto «aggiusto», individuato per esclusione, rispetto al tasto di chi, lungi dal volerlo «aggiustare», l’«abito» lo vuole renderepiù conforme al progetto e meno al soggetto.
Il risultato elettorale ha sancito, infatti, la sconfitta, o almeno un significativo arretramento, del «Partito di Ventotene», l’antenato ideologico, sub specie tecnocratica, del Partito di Davos, il cui programma è ben sintetizzato nel cosiddetto Great Reset, un’iniziativa portata avanti, alla luce del sole, dalle élites globaliste partecipanti al Forum Economico Mondiale, che si riunisce annualmente a Davos, in Svizzera (13).
Una sconfitta, con varie sfumature. Innanzitutto, di tipo geografico. E infatti il risultato elettorale ci restituisce verosimilmente una «americanizzazione»del paesaggio culturale europeo. Vi è, infatti, un’Europa delle metropoli sempre più lontana dall’Europa dei paesi e delle campagne: nella prima, la penetrazione islamica, per un verso, e la intronizzazione del relativismo pratico per un altro verso, non solo hanno fatto smarrire la coscienza di sé, della propria identità, ma esigono che l’abito sia il più fluido e il più anonimo possibile. Nella seconda, senza voler ricercare focolai contro-rivoluzionari ad ogni costo, si registra quanto meno una reattività, se non una reazione. Si pretende che almeno il sarto faccia le prove prima di cucire il vestito; si reclama il primato del reale, sia pure sotto forma dei bisogni più elementari.
Sul punto, merita di essere segnalata la riflessione svolta su alcuni quotidiani dall’on. Ferdinando Adornato: sembra emergere una contrapposizione fra “il partito dei valori e quello dei diritti”; “[…] va considerato che “il partito dei valori” è sostanzialmente reazionario. Attenzione, non in senso ideologico, ma letterale: nasce, infatti, come reazione alla finora incontrastata egemonia del “partito dei diritti”. Soprattutto intorno a due issues: la prima è la denuncia della debolezza del pensiero progressista sul governo dell’immigrazione, troppo spesso incline ad una permissiva accoglienza. La seconda mette nel mirino quelle teorizzazioni che interpretano la democrazia come regno dell’illimitata espansione dei diritti individuali. Una sorta di consumismo bio-tecnologico secondo il quale ogni desiderio dell’essere umano, in specie quelli relativi alla sessualità e corporeità, deve poter essere soddisfatto.
«La parola chiave del partito dei valori è identità. Si parte, infatti, dalla convinzione che sia in atto un declino della civiltà occidentale figlio dello smarrimento dei suoi principali valori costitutivi. In specie lungo tre direttrici: la religione, vista non tanto e non solo come culto, quanto come storica motivazione dello spirito pubblico europeo; la patria come senso di appartenenza a una terra e a una nazione; la famiglia come base, sia pure dentro le mutate condizioni giuridiche e psicologiche, dell’organizzazione sociale e dell’ordine fra le generazioni» (14).
In realtà, anche il voto in quanto tale sembra avere premiato — al di là della tradizionale distinzione novecentesca, invero superata dalla perdita dei riferimenti ideologici vero nomine, fra destra e sinistra — i partiti appartenenti ai gruppi parlamentari costituiti all’interno del Parlamento Europeo di Bruxelles-Strasburgo. Segnatamente quelli che dichiarano di ispirarsi a princìpi di realismo politico — che è la cifra identitaria del pensiero conservatore —, come l’ECR, European Conservatives and Reformists, di cui è parte il partito di maggioranza relativa in Italia, Fratelli d’Italia, ovvero quelli asseritamente sovranisti, fra cui ID, Identità e Democrazia, scissosi poi nel nuovo gruppo Patrioti per l’Europa — guidato dagli ungheresi di Fidesz del premier Viktor Mihály Orbán e dal RN, Rassemblement National, di Marine Le Pen, con la presenza della Lega di Matteo Salvini —, e in quello denominatosi Europa delle Nazioni Sovrane, a guida AFD, Alternative für Deutschland, l’arrembante partito di estrema destra tedesca. Tutti questi partiti non sono inclini alla deriva tecnocratica federalistica — di preteso superamento degli Stati nazionali, in spregio ai princìpi istitutivi dei trattati di sussidiarietà e di attribuzione (ex art. 5 TUE. Trattato Unione Europea) — e ideologica del Green Deal — di affermazione delle istanze ecologistiche di «decarbonizzazione» forzata delle fonti energetiche e di «ecosostenibilità» a ogni costo, pur a danno delle tradizionali vocazioni economiche agricole e industriali dell’Europa.
In Francia, il sistema elettorale proporzionale ha favorito il successo del partito di Marine Le Pen e di Jordan Bardella, Rassemblement National, con una forte contrazione dei consensi per En Marche, il partito del presidente della Repubblica, Emmanuel Macron. In Germania, la CDU-CSU, il partito democristiano attualmente all’opposizione, ha da solo raggiunto una percentuale quasi pari ai tre partiti della coalizione di governo, socialdemocratici della SPD, Verdi-Grünen e liberali. In Spagna, a fronte della tenuta del PSOE, il partito socialista che guida il governo di minoranza di sinistra, vi sono stati l’avanzamento del nuovo partito di destra VOX e il consolidamento del partito di maggioranza relativa, Partido Popular, di centrodestra. In Grecia, il partito di maggioranza governativa, di destra, Nea Demokratia, ha confermato e incrementato la sua primazia. In Belgio, vi è stata la significativa ascesa, nelle Fiandre, del Vlaams Belang, il partito fiammingo di destra, che, insieme ai conservatori di N-VA, rappresenta quasi il 30% dell’elettorato. In Ungheria, il risultato inferiore alla maggioranza assoluta della precedente tornata elettorale di Fidesz, il partito del premier Orban, si è accompagnato al successo dell’altro partito di destra Tizsa, che ha ottenuto quasi il 30% dei suffragi. In Polonia, il partito dell’«europeista» Donald Tusk, attuale capo del governo, pur confermando il buon risultato delle legislative dello scorso autunno, rimane minoritario rispetto ai partiti della destra complessivamente considerati, mentre in Slovenia è stato confermato il successo dell’attuale premier conservatore Janes Jansa, del Partito Democratico Sloveno. In Austria, ha vinto il partito asseritamente di estrema destra, Libertà dell’Austria (FPÖE), con il Partito Popolare, di centrodestra, al secondo posto con quasi il 25% dei voti; e in Portogallo vi è stato l’ingresso del nuovo partito di destra, CHEGA, nel panorama politico europeo, con il 10% dei consensi e la conferma dell’Alleanza Democratica (AD), di centrodestra, attualmente al governo, con oltre il 30% dei voti. In Italia, infine, il partito di maggioranza relativa, Fratelli d’Italia — guidato da Giorgia Meloni, che ha ottenuto un plebiscito di oltre 500.000 preferenze —, pur riducendo il consenso in numero assoluto di voti rispetto alle elezioni del settembre 2022, ha consolidato la leadership nazionale in termini percentuali.
4. Quali scenari dopo il voto?
Il 18 luglio Ursula von der Leyen è stata nuovamente eletta presidente della Commissione Europea, da parte della medesima maggioranza del precedente Parlamento, costituita — oltre che dal Partito Popolare Europeo (PPE), gruppo di maggioranza relativa nell’europarlamento cui aderisce l’italiano Forza Italia —, dalla sinistra dei Socialisti Europei, fra cui il Partito Democratico italiano, dai liberali di Renew Europe e, soprattutto, dai Verdi europei, nonostante il loro pessimo risultato elettorale, suonato come un fermo altolà degli elettori alle politiche ecologiste più radicali. Questa scelta appare come l’ennesimo tentativo da parte delle élites tecnocratiche brussellesi di ignorare le indicazioni del voto, ritenuto evidentemente non sovrano ma bisognevole di aggiustamenti nel senso delle «magnifiche e progressive sorti»dell’Europa, che si ha la pretesa di mantenere nella direzione dell’affermazione dei «nuovi diritti» e dell’ideologia green. In questo senso vanno le indicazioni date dall’on. Enrico Letta, già presidente del Consiglio dei ministri italiano (2013-2014) e segretario del Partito Democratico (2021-2023), il quale, nel Rapporto sul futuro del Mercato Unico Europeo affidatogli a fine legislatura dal presidente della Commissione UE, ha affermato che viviamo «[…] in un’epoca nella quale il metodo scientifico viene costantemente messo in discussione. […] Il caso più eclatante è ovviamente il negazionismo climatico, sempre più diffuso e corrosivo. […] Bisogna che le decisioni di chi governa siano prese sulla base di evidenze scientifiche accettate anche da chi è all’opposizione. […] Se questo assioma venisse meno, sarebbero impraticabili le politiche di lungo periodo necessarie per accompagnare transizioni decisive come quella verde, giusta e digitale» (15).
Tradotto dal «politichese»: se le scelte elettorali del popolo — che non ha comunque sempre ragione, ma che ha diritto di esprimere un consenso politico di cui non si può non democraticamente tenere conto — non sono conformi ai dettami «tecnici», autoproclamatisi scientifici, coloro che ne possiedono i poteri — appunto, i tecnocrati — hanno il compito di indirizzare forzatamente le politiche europee lungo la transizione «verde, giusta [!] e digitale».
Resta da capire fino a quando i popoli europei siano disponibili, avendo già dimostrato in buona parte di non esserlo, a rimanere distesi sul letto di Procuste di chi ne voglia disegnare l’abito senza considerarne le misure, amputando «arti» sociali ovvero moltiplicando braccia artificiali. Fino a quando si limiteranno, cioè, a disertare la cabina elettorale, ritenendo inutile lo sforzo di farsi sentire con il voto — che è una delle ragioni, non certamente l’ultima, del crescente astensionismo — e non proveranno a trasformare le proteste di piazza, invero sempre più significative, finora esauritesi nelle jacqueries francesi dei gilet gialli ovvero nelle manifestazioni dei trattori davanti ai parlamenti nazionali, in una più organizzata reazione, che potrebbe però prendere le improduttive forme di un populismo antieuropeista, tale da gettare anche il «bimbo» europeo dell’Unione con l’«acqua sporca» della burocrazia tecnocratica di Bruxelles.
5. Quale Italia per l’Europa?
Sembra delinearsi, dunque, a livello macro-istituzionale, un’ulteriore contrapposizione, fra Europa degli Stati e gli Stati Uniti d’Europa.
Vi è un fronte di compagini statuali che inizia a chiedere di aver voce e a insistere perché venga definito il perimetro degli ambiti d’intervento delle istituzioni euro-unitarie, in base al principio di attribuzione e al principio di sussidiarietà che del primo è la matrice e il fondamento.
E vi è un fronte che spinge sull’acceleratore per fare della UE un soggetto sovranazionale con sovranità piena. In realtà, i veri sovranisti sono proprio costoro, perché vogliono per sé tutta la sovranità. E utilizzano lo «Stato di diritto» come strumento di ricatto nei confronti degli Stati riottosi a cedere la propria sovranità anche sui princìpi fondanti l’ordine costituzionale interno (16).
Il dato positivo è che l’Italia e il governo Meloni hanno assunto la guida del fronte dell’Europa degli Stati. I fatti dicono che su taluni dossier, e non i più marginali (immigrazione, Africa), la posizione italiana si è rivelata orientante e su altri ha dato un segnale di discontinuità e non conformismo. Si consideri, per esempio, quanto accaduto nello scorso mese di maggio, quando il governo italiano non ha sottoscritto — unitamente a Ungheria, Romania, Bulgaria, Croazia, Lituania, Lettonia, Repubblica Ceca e Slovacchia — la dichiarazione per la promozione delle politiche europee a favore delle comunità LGBTQ+ presentata dalla presidenza di turno belga della UE.
Forse è ancora presto per poter affermare che, dopo un’«eccezioneitaliana», si possa parlare anche di un’«incidenzaitaliana»: il prossimo futuro ce lo dirà.
Senza farci illusioni, perché molti sono i problemi.
In primo luogo, è bene rammentare che le «stanze dei bottoni», quelli importanti, sono ancora in gran parte in mano degli adepti del Partito di Davos, i quali si sono già organizzati per vanificare in qualche modo il risultato elettorale.
Non solo. Vi è, poi, un problema tutto interno al fronte dell’Europa degli Stati e dei popoli. Se anche si riesce a entrare in qualche stanza, il problema è trovare qualcuno che sappia individuare i bottoni e li sappia usare. Vi è, insomma, un problema enorme di staff, cioè di un ceto dirigente di adeguato supporto a quello politico. E vi è un problema di formazione dello stesso ceto politico.
6. Il ruolo dei cattolici
I risultati delle elezioni europee ripropongono la questione del voto cattolico. La vicenda dell’ex direttore di Avvenire, Marco Tarquinio, sembra segnare il definitivo tramonto del voto «ecclesialmenteorientato».
Se i cattolici stanno oramai acquisendo la consapevolezza di essere minoranza sempre meno politicamente rilevante e iniziano a orientare il voto sempre più verso formazioni partitiche «identitarie» — pur non potendosi affermare l’esistenza di un «voto cattolico» —, le gerarchie ecclesiastiche, con questo voto, hanno iniziato a fare i conti con l’erosione drammatica della loro autorevolezza sociale (17).
Abituate a evitare di affrontare le questioni divisive e a considerare separati i temi etici da quelli economici-sociali, le gerarchie hanno cercato di evitare la guerra culturale optando per un più o meno onorevole compromesso con il mondo «rivoluzionato» (18).
I cattolici di cultura — i cosiddetti believers, bacino più ampio dei cattolici di pratica, i belongers — cominciano a votare, piuttosto compattamente, i partiti di centro-destra.
È quanto accaduto in maniera significativa in Francia, dove, peraltro, è in atto una rinascita del senso religioso che forse può consentire di cominciare a parlare di una «eccezione francese» (19).
Più in generale, l’Europa sembra scontare gli effetti della crisi nella Chiesa, che non pare più considerare l’Occidente centrale per la Nuova Evangelizzazione. La Chiesa, sempre più assente dalla discussione sul futuro del Vecchio Continente, sembra piegata quasi esclusivamente su profili assistenziali, di breve, seppur importante, respiro, e poco sulle questioni di principio, contrariamente al disegno ben illustrato da san Giovanni Paolo II (1978-2005) nella lettera apostolica Novo millennio ineunte (2001).
Mentre, alla fine dell’impero romano, la Chiesa «sostituì» l’impero nel custodire l’universalità della vocazione europea, oggi questo compito sembra essere sulle spalle, più che delle gerarchie, del laicato cattolico, chiamato a un’operazione di ricostruzione delle basi pre-culturali della nuova evangelizzazione, di sostegno alla rinascita di quel senso comune che è il punto di partenza di ogni nuova civiltà.
7. Che fare?
Se amiamo l’Europa, se amiamo la nostra patria, non possiamo non guardare con attenzione a tutto ciò che va nella direzione di un ricupero e, se Dio vuole, di una rinascita. Si ribadisce: «tutto ciò che va nella direzione», perché occorre essere consapevoli che si tratta di pesare ogni realtà per quanto in essa dice relazione, seppur non consapevole, seppur parziale, al ricupero dell’identità europea. Nella consapevolezza che anche l’arresto o anche il solo rallentamento del processo di realizzazione del progetto del Partito di Davos è un grande risultato.
E dunque, poste tali premesse, non è senza soddisfazione che registriamo i commenti allarmistici di tanti commentatori pro Partito di Ventotene che vedono nell’esito di questo voto e, più in generale, in quello che si sta muovendo a livello di Stati nazionali, una messa in discussione di Piani e Deal, variamente colorati.
Da qualche tempo, peraltro, è stata avviata anche un’operazione di censimento di tutto il fronte della «reazione», denunciando come fatto nuovo e pericoloso per la realizzazione del progetto degli Stati Uniti d’Europa la saldatura culturale fra taluni governi e un certo associazionismo cattolico sempre più oggetto di vere e proprie liste di proscrizione (20).
Oggi siamo chiamati a un sacrificio assai particolare. Ce lo ha ricordato Papa Benedetto XVI (2005-2013) quando ha evocato la straordinaria figura del santo cardinale John Henry Newman (1801-1890): «Nella nostra epoca, il prezzo da pagare per la fedeltà al Vangelo non è tanto quello di essere impiccati, affogati e squartati, ma spesso implica l’essere additati come irrilevanti, ridicolizzati o fatti segno di parodia» (21).
Siamo, altresì, chiamati a porre straordinaria attenzione a tutto ciò che manifesta reattività, giacché è proprio questa la novità del Fronte Occidentale. Chi reagisce? Tutti coloro che, avendo toccato il fondo, avendo un minimo di resilienza, rimbalzano. Dobbiamo raccogliere e sostenere i rimbalzi dal fondo. Dobbiamo diventare esperti del rimbalzo post-rivoluzionario! E allora, oggi, più che il «che fare», assume rilievo il «come fare», cioè come fare a sostenere tali rimbalzi e trasformarli in un inizio di risalita, cioè di ascesi sociale. A tale interrogativo così rispondeva Giovanni Cantoni: «Alla domanda: “Che fare?” e “come fare” rispondiamo dunque che, per la soluzione radicale del dramma storico che la nostra nazione (e la nostra Europa!) sta vivendo, è necessario preparare uomini: 1) dotarli di buona e incontaminata dottrina; 2) formarli anzitutto come lottatori spirituali; 3) esercitarli poi a innestarsi sulla spontanea ma non autonoma reazione popolare; 4) renderli infine capaci di annodare le fila e di costruire il tessuto di una opposizione organica alla Rivoluzione, per utilizzare ogni circostanza e guidare dovunque alla Contro-Rivoluzione, in vista della restaurazione di ordinamenti naturali e cristiani» (22).
Domenico Airoma e Renato Veneruso
Note:
1) Sulla nozione di «Occidente» riportiamo la definizione dello storico Marco Tangheroni (1946-2004): «Che cos’è questo Occidente? È una civiltà, una cultura che ha avuto e che ha una storia comune e che, a partire da un certo momento, ha seguito, nelle idee e poi, anche, nelle realizzazioni storiche, un certo itinerario di rinnegamento del proprio passato. Ma ciò non significa che questo sia il mondo cui apparteniamo e che queste siano le sue radici storiche, che si possono rifiutare ma restano, non di meno» (Le radici storiche dell’Occidente, in Cristianità, modernità, Rivoluzione. Appunti di uno storico fra mestiere e impegno civico-culturale, con un saggio introduttivo La storia come «riassunto» di Giovanni Cantoni (1938-2020) e una Nota praevia di Andrea Bartelloni, a cura di Oscar Sanguinetti con la collaborazione di Stefano Chiappalone, Sugarco, Milano 2009, pp. 156-157).
2) Messaggio del Presidente Meloni al Convegno nazionale del Centro Studi Rosario Livatino, 15-5-2024, nel sito web <https://www.governo.it/en/node/25789> (gli indirizzi Internet dell’intero articolo sono stati consultati il 19-9-2024).
3) Elsa Fornero, Se si tradisce lo spirito dei fondatori della Ue, in La Stampa, 11-6-2024.
4) Eric Jozsef, La destra sbaglia bersaglio, la vera riforma costituzionale è quella delle istituzioni europee, ibid., 15-3-2024.
5) Achille Occhetto, Le democrazie illiberali dilagano, fermiamole col voto alle Europee, ibid., 27-4-2024.
6) Cfr. Presidenza del Consiglio dei Ministri. Sistema di Informazione per la Sicurezza della Repubblica, Relazione annuale 2023 sulla politica dell’informazione per la sicurezza,2.1. La «nuova» globalizzazione.
7) I messaggi di La Russa e Prisco al convegno sull’Europa, nel sito web <https://www.centrostudilivatino.it/?s=la+russa>.
8) Mauro Ronco, Il gap democratico dell’Europa, nel sito web <https://www.centrostudilivatino.it/il-gap-democratico-delleuropa/#more-12963>.
9) Sul punto sono illuminanti le riflessioni, del 1997, di Giovanni Cantoni: «Non è la patria che muore: come diceva un mio maestro Gonzague de Reynold, “la patria non muore”, non muore mai: sono i regimi che muoiono. Oggi sta morendo, scricchiola sotto i nostri occhi, un regime: la patria non muore. Non muore neanche in qualche modo la nazione, anche se è pesante il regime, cioè l’abito addosso alla società» (G. Cantoni, Dalla «morte della patria» a un rinnovato senso nazionale: un itinerario, in Idem, Scritti sulla Rivoluzione e sulla nazione, Edizioni di «Cristianità», Piacenza 2023, p. 106).
10) «Per un’Europa libera e unita». Il Manifesto di Ventotene, Senato della Repubblica, Roma 2017, nel sito web <https://shorturl.at/FdpIK>.
11) Serena Sileoni, La festa dell’Europa incompiuta, in La Stampa, 8-5-2024.
12) Gonzague De Reynold, La Casa Europa. Costruzione, unità, dramma e necessità, trad. it., a cura e con Presentazione di G. Cantoni, D’Ettoris Editori, Crotone 2015, p. 276.
13) Si vedano sul punto le considerazioni svolte da Maurizio Milano sul ruolo della burocrazia dell’UE nella pianificazione centralizzata: «Per fare alcuni esempi pratici dell’avanzata della pianificazione centralizzata, pensiamo al NextGenerationEU (il cosiddetto Recovery Fund), il Piano di rilancio europeo “per la ricostruzione post-pandemica”, a cui è collegato il piano di attuazione italiano, denominato PNRR, “Piano nazionale di ripresa e resilienza”. Ci troviamo di fronte a una pianificazione addirittura sovranazionale, top-down, calata dall’alto in modo dirigistico-accentratore. Per di più, essendo basata sull’assunzione di debito comune, essa appare come un primo passo verso un possibile futuro “Ministero del Tesoro comunitario”, come evocato, con apprezzamento, dal socialista liberale Mario Draghi al 41° Meeting di Rimini di Comunione e Liberazione nell’agosto 2020. L’obiettivo è quello di ridurre ulteriormente la sovranità degli Stati membri e accelerare nella direzione federale degli “Stati Uniti d’Europa”, grazie all’epidemia CoViD-19 e alla gestione della cosiddetta transizione energetica e digitale» (Maurizio Milano, Il pifferaio di Davos. Il Great Reset del capitalismo: protagonisti, programmi e obiettivi, Introduzione di Marco Respinti,D’Ettoris Editori, Crotone 2024, p. 134).
14) Ferdinando Adornato, Il partito dei valori e quello dei diritti, in Il Messaggero, 19-6-2024.
15) Enrico Letta, La quinta libertà del Mercato unico nasce dalla circolazione delle idee, in La Stampa, 25-6-2024. Cfr. anche Idem, Molto più di un mercato. Viaggio nella nuova Europa, il Mulino, Bologna 2024.
16) Anche sul punto meritano di essere riportate le parole di Altiero Spinelli, contenute nel Manifesto di Ventotene: «Il problema che in primo luogo va risolto e fallendo il quale qualsiasi altro progresso non è che apparenza, è la definitiva abolizione della divisione dell’Europa in stati nazionali sovrani».
17) Cfr. Paolo Segatti e Gianfranco Brunelli, Lento, procede il declino, in Il Regno-Attualità, n. 18, 15-10-2023, pp. 595-606.
18) Al riguardo, anche un osservatore non cristiano ma attento alla cultura cattolica, qual è Massimo Cacciari, ha invitato la Chiesa italiana a ergersi come segno di contraddizione rispetto alla mentalità dominante: «[…] il pensiero è pensiero quando è segno di contraddizione e la Chiesa è Chiesa quando è segno di contraddizione. Come il messaggio evangelico non porta a un irenismo e un pacifismo astratto. Se la Chiesa si pone così rispetto all’opinione comune e all’andazzo dei tempi, alle ideologie del mondo, avrà sempre qualche rapporto, magari anche polemico, con il pensiero laico e anche con l’ateo» (Cacciari: Se la Chiesa è contraddizione avrà vicino laici pensanti, in Avvenire, 22-5-2024).
19) Cfr. il reportage Bienvenue chez les Ch’tis cathos, in Famille chrétienne, n. 2408, 9-15 marzo 2024, pp. 21-28.
20) Cfr. il dossier The Christian Right in Europe, presentato nel corso di un meeting organizzato a Bruxelles nello scorso mese di aprile, a cura di Renew Europe, EPF. European Parliament for Sexual and Reproductive Rights, e MEPs for.
21) Benedetto XVI, Discorso alla veglia di preghiera per la beatificazione del cardinale John Henry Newman, 18-9-2010.
22) G. Cantoni, L’Italia tra Rivoluzione e Contro-Rivoluzione, in Scritti sulla Rivoluzione e sulla nazione, cit., p. 177.