La simpatia che suscitano gli hobbit e la passione del pubblico per le opere di Tolkien può diventare una porta per presentare il valore dell’umiltà, rendendola virtù ammirabile e degna di emulazione.
di Susanna Manzin
La Via Pulchritudinis, come si legge nel documento del Pontificio Consiglio per la Cultura del 2006, è «un itinerario privilegiato per raggiungere coloro che hanno difficoltà a ricevere l’insegnamento, soprattutto morale, della Chiesa. La Via della bellezza, a partire dall’esperienza semplicissima dell’incontro con la bellezza che suscita stupore, può aprire la strada alla ricerca di Dio». Ad esempio, sarebbe molto difficile spiegare la virtù dell’umiltà ai nostri contemporanei con la lettura della Summa di San Tommaso D’Aquino oppure citando il Catechismo. Potremmo invece catturare la loro attenzione partendo dal romanzo di J. R. R. Tolkien Il Signore degli Anelli. Lo scrittore inglese era un cattolico romano, come lui stesso amava definirsi, e così scriveva ad un amico sacerdote: «Il Signore degli Anelli è fondamentalmente un’opera religiosa e cattolica. L’elemento religioso è radicato nella storia e nel simbolismo»[1]. Il romanzo è permeato dalle verità fondamentali della fede cattolica: l’esistenza di un Dio unico artefice del mondo, la caduta delle creature che si allontanano dal loro creatore, la lotta tra il bene e il male, l’esistenza di un disegno provvidenziale che dirige gli avvenimenti, il valore della pietà e della misericordia: «La salvezza del mondo e la salvezza dello stesso Frodo vengono raggiunte grazie alla sua precedente pietà e capacità di perdonare le offese»[2].
L’umiltà è la grande virtù di molti protagonisti de Il Signore degli Anelli, così come l’orgoglio è il peccato dei malvagi, e sono numerosi i passi dell’opera che lo rivelano. Quando comincia l’avventura di Frodo e dei suoi amici hobbit, ciò che balza subito agli occhi del lettore è la sproporzione tra la difficoltà della missione e la semplicità dei personaggi incaricati di portarla a termine. In una lettera, Tolkien scrive che la sua opera: «è stata programmata come hobbit-centrica, cioè fondamentalmente come uno studio della nobilitazione (o santificazione) degli umili»[3]. Il tema è caro all’autore, che lo aveva già sviluppato nella storia di Beren e Luthien, il mortale e la fanciulla elfica che compiono l’impresa nella quale tutti gli eserciti e i guerrieri hanno fallito. Anche ne Il Cacciatore di draghi e ne Lo hobbit accade che «sovente, quando i saggi si mostrano irresoluti, aiuto può venire dalle mani dei deboli»[4] come afferma Gandalf alla seduta del Bianco Consiglio. È una sorta di trasposizione letteraria del verso del Magnificat: «Ha rovesciato i potenti dai loro troni e ha esaltato gli umili» (Luca 1, 52). L’umiltà degli hobbit è la chiave per la soluzione dei problemi della Terra di Mezzo: è proprio grazie ad essa che Frodo riuscirà a non essere completamente soggiogato dal potere dell’Anello, nonostante le ripetute tentazioni a cui è sottoposto. Altri personaggi avrebbero ceduto di fronte alla prospettiva del potere, e il comportamento di Boromir è esemplare. Ci voleva tutto «l’indomito buonsenso hobbit» per portare quel fardello e compiere la missione senza lasciarsi deviare dalla giusta via. Anche Sam sente la tentazione di arrogarsi l’Anello, di diventare Samvise il Forte, che sfida Sauron e trasforma la terra di Mordor in un giardino in fiore: ma quella seduzione in lui scompare presto: «In quell’ora di tentazione fu soprattutto l’amore per il padrone che l’aiutò a tener saldo; e poi, in fondo alla sua anima, viveva ancora indomito il buonsenso hobbit, ed egli sapeva in fin dei conti di non essere abbastanza grande per poter portare un simile fardello.»[5]. E’ dunque sempre l’umiltà la chiave del successo degli hobbit, alla quale fa da contraltare l’orgoglio di altri personaggi della Terra di Mezzo: Melkor, che non accetta di operare in armonia con Iluvatar (immagine della ribellione di Lucifero), Saruman tentato e infine corrotto dal potere, Boromir accecato dalla gloria di Gondor, Denethor che non accetta il destino e preferisce la morte piuttosto che passare il comando di Gondor al legittimo sovrano Aragorn, il cui comportamento è invece esemplare e commovente quando si inginocchia innanzi a Frodo e Sam, consapevole che ad essi vada il merito della sconfitta di Sauron. L’umiltà del Re provoca stupore e confusione in Sam, che neanche di fronte agli onori tributatigli dai cavalieri di Gondor perde la sua semplicità hobbit.
Il forte senso religioso di Tolkien e la sua consapevole ispirazione cristiana emergono in questa esaltazione dell’umiltà, la più grande delle virtù, quella che splende nei tanti esempi di santità che la storia della Chiesa ci presenta in tutte le epoche. La simpatia che suscitano gli hobbit e la passione del pubblico per le opere di Tolkien può diventare una porta per presentare il valore di questa virtù, rendendola ammirabile e degna di emulazione.
Sabato, 19 aprile 2025
[1] Lettera a Robert Murray, 2-12-1953, in La realtà in trasparenza, Rusconi, Milano 1990, pag. 195.
[2] Lettera a a Michael Straight, febbraio 1956, ibidem, pag. 265.
[3] Lettera a Michael Straight, febbraio 1956, ibidem, pag. 263.
[4] Il Silmarillion, Rusconi, Milano 1993, pag. 380.
[5] Il ritorno del Re, Rusconi, Milano 1993, pag. 182.
