Daniele Fazio, Cristianità n. 393 (2018)
La pubblicazione di questo articolo vuole essere un omaggio a Giovanni Cantoni in occasione del suo ottantesimo compleanno. Fondatore di Alleanza Cattolica, da qualche anno Cantoni, per motivi di salute, ha dovuto abbandonare la guida diretta dell’associazione, di cui ora è reggente nazionale onorario. Dalle testimonianze traspare con evidenza l’impronta del fondatore, che si è dedicato per decenni alla formazione dei militanti con passione e con generosità.
La carità intellettuale di Giovanni Cantoni
Non tocca certamente e soprattutto in prima battuta a me, nell’occasione dell’ottantesimo genetliaco di Giovanni Cantoni, fondatore di Alleanza Cattolica (AC), evidenziare il carisma e la missione di un uomo, e quindi dell’associazione da lui fondata. Sicuramente sono molteplici i motivi di ringraziamento che non solo i membri di AC, ma in qualche modo il tessuto ecclesiale e cattolico nonché sociale potrà riconoscere a Giovanni Cantoni: dall’aver, in piena sintonia con il decreto del Concilio Ecumenico Vaticano II (1962-1965) Apostolicam actuositatem, del 1965, definito sempre più e meglio il ruolo del laico cattolico, teso — secondo gli orientamenti della Dottrina Sociale della Chiesa — alla consecratio mundi, all’aver professato, anche in tempi non facili, la fedeltà al Papa e alla Chiesa, anche a costo di recidere nettamente la collaborazione con alcune realtà del mondo tradizionalista, con le quali AC condivideva in parte le preoccupazioni, ma sempre in alternativa al progressismo. E in questa fedeltà aver mantenuto integra l’associazione, che nel 2012 si è vista riconoscere dalla Chiesa l’erezione canonica ad associazione privata di fedeli.
Qui, invece, voglio rendere una testimonianza del tutto personale del rapporto che Giovanni Cantoni instaurava con le persone e soprattutto con i più giovani all’insegna di una speciale e continua attenzione e cura.
Ho conosciuto AC quasi in fasce, ovvero fra i 12 e i 13 anni. L’occasione di ascoltare e di frequentare il fondatore era data dai ritiri regionali. Cantoni, infatti, visitava le varie regioni italiane per curare continuamente la formazione dei soci, percorrendo lo Stivale instancabilmente. La cosa che tuttora mi colpisce è la sua attenzione verso tutti, ma in particolare verso i più giovani, che teneva in alta considerazione. Infatti, alla fine di ogni sua comunicazione, mi prendeva sottobraccio chiedendomi se si fosse capito quello che aveva detto, se ci fossero state delle difficoltà. Quell’atteggiamento — confesso — mi lasciava assolutamente sbalordito. Con tanti militanti e amici ad ascoltarlo, Cantoni aveva quella straordinaria sensibilità che lo portava ad andare dall’ultimo arrivato a chiedergli un giudizio sulla comprensibilità di quanto avesse comunicato. Crescendo, ovviamente, credo di aver compreso meglio che l’ottica del fondatore nel suo servizio culturale, che non era mera oratoria, si muoveva nell’ambito della carità intellettuale, per cui era massimamente importante per lui comprendere se il suo messaggio fosse arrivato anche all’ultimo dei presenti o, per meglio dire, soprattutto all’ultimo dei presenti. Se così non fosse stato si sarebbe sforzato certamente di cambiare registro. Non interveniva mai, infatti, senza aver chiesto prima chi fossero i destinatari della sua comunicazione e soprattutto arrivando sempre in anticipo rispetto all’ora stabilita. E tale metodo consigliava a tutti.
Dunque, una particolare attenzione nei confronti dei giovani, che ho sperimentato in tanti momenti, in particolare in quell’incontro con i giovani amici messinesi, in cui si sottopose a una raffica di domande, proseguite anche a cena e fino a tarda notte. Né in quella occasione, né in altre ho udito una sola parola banale oppure ho avvertito un moto di pur legittima stanchezza.
All’origine dei miei studi sul pensiero di Robert Spaemann vi è stato ancora Giovanni Cantoni. Quando, infatti, nel 2007, stavo per completare gli anni della laurea specialistica in Filosofia Contemporanea, dovevo anche decidere l’argomento della tesi. E in colloquio con lui, emerse il nome del suddetto filosofo tedesco, che, confesso, sentivo allora per la prima volta. Il consiglio — opera di misericordia spirituale — di Cantoni si rivelò, lo dico a distanza di anni, straordinario non solo perché mi permise di conoscere uno dei più importanti pensatori del nostro tempo, ma anche perché quel lavoro mi consentì di proseguire, oltre la laurea, il percorso accademico con un progetto di ricerca triennale finanziato dal Centro Universitario Cattolico proprio su alcuni aspetti del pensiero di Spaemann, la cui realizzazione in un saggio, più tardi, vedrà anche un riconoscimento nazionale da parte della Società Italiana di Filosofia morale.
Ricordo la sua gioia, altresì, quando telefonicamente — forse troppo tardi rispetto alla mia iniziale frequentazione — gli comunicai di voler entrare a far parte ufficialmente di AC. Si può, infatti, frequentare e operare con l’associazione senza essere «vittime» di proselitismo. Ovvero il servizio formativo di AC non è diretto a ingrossare le proprie file, ma a far scoprire, a quanti si vogliono avvalere di tale servizio, la via che il Signore ha previsto per loro, che non è necessariamente per molti la via di un impegno nell’ambito dell’apostolato culturale.
Dovendo, quindi, successivamente assumere la guida della riunione di Messina, tante volte mi consultai con lui. E ciò che mi rimase più impresso fu il suo incoraggiamento — direi — per «via esperienziale». Mi raccontava, infatti, rispondendo alla mia domanda sulle modalità di tenere la riunione, come agli inizi egli stesso si comportasse. Fra gli anni 1960 e 1970, non essendoci altro testo ufficiale che racchiudesse in sintesi la dottrina della Chiesa, le riunioni si svolgevano sul Catechismo «tridentino». Ebbene, erano incontri in cui — mi raccontò — si leggeva una parte del Catechismo, ci si fermava per un brevissimo commento e poi si tornava serenamente al testo. Non bisognava e non bisogna essere, infatti, «originali» o fare colpo con qualche teoria filosofica e teologica, ma stare quanto più possibile aderenti al testo. E per iniziare, la stessa cosa consigliava a me, con il Catechismo della Chiesa Cattolica, del 1992.
Un grande rammarico mi porto dentro: quello di non aver mai potuto realizzare l’invito a trascorrere con lui, nella sua casa di Piacenza, alcune ore per poter — direi egoisticamente — ascoltarlo ancora una volta con consigli «esclusivi» per me. Lo andai a trovare sì a Piacenza, ma anni dopo, quando, per disegno della Provvidenza, iniziò a servire AC e la Chiesa attraverso il mistero della sofferenza.
Un ultimo ricordo è sempre legato alla sua attenzione per i giovani. In uno degli ultimi Capitoli allargati a Roma, con un amico gli presentai un ragazzo che iniziava a seguire i nostri incontri. Cantoni gli chiese subito: «Ti trattano bene?». Al di là dell’immediata risposta, personalmente capii non solo che ovviamente il prossimo va trattato bene, ma soprattutto che non va chiesto niente di più di quello che la Chiesa o l’associazione chiedono per essere cattolici e soci di AC. Può sembrare scontato, ma l’entusiasmo giovanile può consegnare ad altri fardelli insensati e inutili. Perciò mi resta sempre impressa la grande esortazione alla pazienza con cui concludeva ogni ritiro.
Il mondo contemporaneo e i suoi uomini, reduci della distruzione antropologica, esigono che si eserciti in modo particolare questa virtù, perché vincere non è schiacciare l’altro, ma convincerlo. Nonostante da diversi anni il fondatore non regga più attivamente AC, ritengo che l’offerta da parte sua della sofferenza produca frutti concreti essendo — ne sono convinto — un canale di grazia, di quella grazia che va a coprire e sovrabbonda sui peccati che tutti compiamo e che deturpano il volto della Chiesa e, per quanto ci riguarda, anche quello dell’associazione.
Auguri e grazie, dunque, a Giovanni Cantoni, perché continua ad amare la Chiesa e in questo amore continua a servirla con Alleanza Cattolica cum Petro e sub Petro.
Daniele Fazio