Oscar Sanguinetti, Cristianità n. 393 (2018)
In ricordo di Giovannino Guareschi
Da parte mia sono profondamente grato
ai miei genitori d’avermi messo al mondo.
E gratissimo sono al Padreterno perché non m’ha fatto
né peggiore né migliore di quello che sono.
Io volevo essere esattamente così come sono.
Diverso da così mi andrei largo o stretto.
Centodieci anni fa nasceva e cinquanta anni fa moriva Giovannino Guareschi, scrittore di fama mondiale. Dedico a lui qualche riga non per rievocarne la ricca vicenda umana (1), né per valutarne criticamente la vasta produzione letteraria e la sconfinata aneddotica, ma solo per ricostruire un breve profilo della sua figura umana, cercando di spiegare il peso che lo scrittore emiliano ha avuto avuto — e che avrebbe potuto avere —nella vicenda del suo tempo e della nostra nazione.
1. La vita
Giovannino Oliviero Giuseppe Guareschi nasce a Fontanelle di Roccabianca (Parma) il 1º maggio 1908 e muore a Cervia (Ravenna) il 22 luglio 1968. Il padre, Primo Teodosio Augusto (1877-1950), maggiore di nove figli, è un commerciante di biciclette e la madre, Lina Maghenzani (1878-1950), la maestra elementare del paese.
Nel 1914 i Guareschi traslocano a Parma perché la madre è stata trasferita alla scuola elementare di Marore di San Lazzaro, alle porte della città. Lì Primo esercita con poca fortuna l’attività di mediatore di immobili, fino a quando non viene chiamato alle armi come operaio militare e poi congedato nel 1918. Giovannino inizia gli studi tecnici che poi abbandona per il ginnasio Gian Domenico Romagnosi come convittore presso il prestigioso collegio Maria Luigia di Parma, che però termina con fatica a causa delle vicissitudini familiari: il fallimento dell’azienda del padre e una lunga diatriba legale fra questi e i fratelli. Poi s’iscrive a Giurisprudenza all’Università di Parma: vi rimarrà per quattro anni consecutivi, per far piacere alla mamma, ma non darà nemmeno un esame (2).
Ancora studente, agevolato dalla conoscenza con Cesare Zavattini (1902-1989) — originario di Luzzara, un paese del Reggiano non molto lontano da Roccabianca —, suo professore di lettere al liceo, oltre a compiere lavori saltuari — istitutore al convitto e guardiano in uno zuccherificio — per mantenersi agli studi, inizia a collaborare come redattore e caricaturista a varie iniziative editoriali: periodici popolari, fogli universitari, riviste di costume, compiendo i primi passi nel giornalismo e nell’illustrazione.
Nel 1934 parte per il servizio militare a Potenza, dove ha l’opportunità di frequentare un corso per allievi ufficiali di complemento. L’anno dopo perde il posto al Corriere Emiliano per esubero di personale; nel 1936 è trasferito a Modena, dove a maggio è nominato sottotenente.
Congedatosi, lo stesso anno Guareschi si trasferisce a Milano, insieme con la fidanzata Ennia Pallini (1906-1984), conosciuta nel 1933 a una festa da ballo, ex commessa, che sposa nel 1940 nella chiesa di Santa Francesca Romana nei pressi di corso Buenos Aires — la parrocchia del futuro cardinale Giacomo Biffi (1928-2015) —, e da cui avrà due figli, Carlotta (1943-2015), immortalata in tanti suoi racconti con il soprannome di «Pasionaria» — come la rivoluzionaria anarchica spagnola Dolores Ibárruri Gómez (1895-1989) —, e Alberto. I due vivranno in un monolocale prima in via Ciro Menotti poi al piano terra — con giardino — di una villetta di via Augusto Righi, nella zona di Porta Vittoria e nelle immediate vicinanze della vecchia sede della Rizzoli.
A Milano Guareschi si «fa le ossa» lavorando a Il Secolo Illustrato, poi, dal 1936 al 1943, in una nuova rivista destinata a un’ampia notorietà: il quindicinale Bertoldo, edito da Angelo Rizzoli (1889-1970) e diretto da Zavattini. Per Bertoldo scrive testi umoristici e satirici e fa le prime esperienze come illustratore e caricaturista. A Zavattini nel 1937 succede Giovanni Mosca (1908-1983) e Guareschi diviene capo-redattore. Nel 1943 la guerra porrà fine alla testata. Richiamato nel 1942, pare per aver, in preda ai fumi dell’alcool, dato del «culàn» al Duce (3), servirà con il grado di tenente in artiglieria, ma non sarà spedito al fronte a causa di una forma di ulcera frutto involontario di quella fatale sbornia (4). Dopo una lunga convalescenza torna in servizio ad Alessandria nell’agosto del 1943. L’8 settembre rifiuta di collaborare con la Repubblica Sociale Italiana e viene deportato in Germania dai tedeschi, «soggiornando» in vari Lager per militari, da ultimo nel gelido Stammlager (Stalag) XB a Sandbostel — nella Bassa Sassonia, nel nord del Paese —, dove scriverà il Diario clandestino: sarà la sua prima esperienza di prigionia.
Liberato nel settembre del 1945, fa ritorno in Italia e fonda a Milano, con Giovanni Mosca e Giacinto «Giaci» Mondaini (1902-1979) — il padre di Sandra Vianello (1931-2010) —, Candido, settimanale del sabato. Condirettore della rivista con Mosca fino al 1950, Guareschi rimane poi unico direttore fino al 1957, quando gli subentra Alessandro Minardi (1908-1988).
Pur preferendo la satira di costume, Guareschi ha idee politiche ben precise: è schiettamente e apertamente monarchico. Quando si svolge il referendum istituzionale, il 2 giugno 1946, sostiene la scelta monarchica e, dopo la vittoria repubblicana, denuncia i brogli e le decisioni — fra cui il voto in assenza di centinaia di migliaia di prigionieri ancora trattenuti oltrefrontiera — che secondo lui, ma anche a opinione di altri (5), hanno determinato l’esiguo successo repubblicano.
Nei primi anni del dopoguerra non esita a denunciare la lunga serie di omicidi politici compiuti dagli ex partigiani comunisti nel cosiddetto «triangolo della morte», a cavallo delle provincie di Reggio nell’Emilia, Bologna e Ferrara, e il clima di paura che vi si respirò per lunghi anni (6).
La sua satira pungente, le sue geniali illustrazioni per i manifesti dei Comitati Civici — chi non ricorda «Nel segreto dell’urna Dio ti vede, Stalin no»? —, le sue vignette umoristiche, che trasmettono con un colpo d’occhio tutta una visione politica, i suoi articoli contribuiscono sensibilmente alla sconfitta del Fronte Popolare. A testimonianza della concezione «militante» della letteratura propria di Guareschi, il primo volume della saga di don Camillo uscirà, per esplicita volontà dell’autore, proprio nel marzo del 1948, a un mese dalle fatidiche elezioni politiche di quell’anno.
Forte sarà negli anni seguenti la polemica contro il comunismo — chi non ricorda definizioni efficaci come «trinariciuti» (7) per gli attivisti comunisti o slogan ficcanti come «contrordine, compagni!»? — che, pur estromesso dal governo, domina la sua Emilia e «intossica» con la lotta di classe la vita nazionale. Il suo anti-comunismo nasce da tre vene: la sua profonda, ma non clericale, fede cattolica; il suo attaccamento all’ideale monarchico; il buon senso contadino delle sue parti, bevuto con il latte materno e «condito» con le privazioni della sua gioventù, che lo rende istintivamente nemico di ogni ideologia. La sua è una polemica garbata e leale, mai velenosa od offensiva, ma assai efficace; e la sua satira sarà mal sopportata da Palmiro Togliatti (1893-1964) e dai suoi.
Ma, come detto, non sono solo i comunisti i bersagli della sua penna graffiante e della sua matita appuntita. Cattolico, ma non democristiano, non si farà scrupolo di mettere alla berlina lo strapotere e l’incipiente corruzione dei maggiorenti della Democrazia Cristiana.
Nel 1950 una vignetta pubblicata su Candido del 18 giugno, disegnata dall’altro umorista Carlo Manzoni (1909-1975), costa al condirettore Guareschi una condanna per vilipendio — la velata accusa è di eccedere con il bere, lui piemontese autentico, nonché produttore di vini — del capo dello Stato, il liberale Luigi Einaudi (1874-1961). Viene condannato ad otto mesi di carcere, ma l’esecuzione della condanna è sospesa in quanto Guareschi è incensurato. Nel 1952 si trasferisce in campagna, a Roncole Verdi, facendo il pendolare con Milano. Qui compra un’azienda agricola — che poi sarà costretto a svendere —, quindi gestirà il bar e il ristorante adiacenti alla casa natale di Giuseppe Verdi (1813-1901).
Il 15 aprile 1954 è condannato a dodici mesi di reclusione per il reato di diffamazione a mezzo stampa di Alcide De Gasperi (1881-1954), capo del governo, accusato di aver sollecitato durante la guerra il bombardamento di Roma al fine di fiaccare il morale del Duce e degl’italiani. La condanna rende esecutiva anche la pena condizionale inflittagli per la diffamazione di Einaudi e così Guareschi passerà 409 giorni — si rifiuterà sempre di ricorrere in appello e di chiedere la grazia e uscirà con qualche anticipo solo per buona condotta —, dal 25 maggio 1954 al 4 luglio 1955, nel carcere di San Francesco nella sua Parma. Per inciso sarà il primo e unico giornalista italiano dalla nascita della Repubblica a scontare interamente una pena detentiva per il reato di diffamazione a mezzo stampa. I mesi di reclusione intaccano ulteriormente il suo fisico, sì che è costretto a passare diversi periodi in un sanatorio in Svizzera, nel Luganese.
Uscito di prigione deve ridurre sensibilmente le sue alacri collaborazioni e tende a isolarsi in campagna, dove aveva comprato alcuni poderi.
Sono tuttavia questi gli anni d’oro di Guareschi, specialmente grazie al continuo successo di pubblico del ciclo dei film tratti dalle sue storie padane: il suo contatto con il pubblico è intensissimo, la sua penna temuta dagli avversari e dai politici governativi, il suo contributo all’anti-comunismo ai massimi livelli, la sua popolarità alle stelle, il suo lavoro intenso. Ovviamente, da buon bastian contrario e da «uomo per tutte le stagioni», non otterrà neppure una briciola di riconoscimento da un establishment culturale profondamente innervato dall’egemonia del Partito Comunista Italiano.
Nel 1957, per divergenze con l’editore Rizzoli sulla sceneggiatura del film Don Camillo monsignore… ma non troppo (8), esasperato, lascia la direzione di Candido. Il periodico, affidato a Minardi, chiude lo stesso anno. Guareschi inizia a collaborare con il quotidiano milanese del pomeriggio La Notte, invitatovi dal direttore Nino Nutrizio (1911-1988), con il rotocalco settimanale Oggi, nonché, dal 1963, con il settimanale anti-comunista il Borghese, fondato da Leopoldo «Leo» Longanesi (1905-1957) e diretto allora da Mario Tedeschi (1924-1993) e da Gianna Preda, pseudonimo di Maria Giovanna Pazzagli Predassi (1921-1981) (9). Diventano suo bersaglio gli esponenti del nuovo regime nato nel 1963 con l’ingresso dei socialisti nenniani, «duri e puri», nel governo; i rinati miti del pacifismo; i giovani beat con le loro mode strampalate e ineducate; i preti progressisti post-conciliari, così lontani dal suo amato don Camillo.
Ma nel giugno del 1961 è colpito da infarto cardiaco, lo supera, però non riesce più a tenere gli alti ritmi di lavoro di prima e i suoi contributi si rarefanno, pur senza perdere smalto.
Nel 1968 il giornalista e storico del fascismo Giorgio Pisanò vuole riaffidargli la direzione del rinato Candido — sed quantum mutatus ab illo… —, ma la repentina morte, per un nuovo e più violento attacco cardiaco, il 22 luglio, nella sua casa di vacanze a Cervia, ne impedisce il ritorno alla vecchia testata cui ha dedicato gli anni migliori.
Alle sue esequie — la sua bara viene avvolta nel tricolore con lo stemma sabaudo — non partecipa alcun esponente della nomenklatura culturale e politica, ma solo qualcuno dei suoi amici più stretti. È sepolto a Roncole Verdi. L’Unità darà la notizia della sua morte titolando: «è morto uno scrittore mai nato». Umberto II di Savoia (1904-1983) dall’esilio lo insignirà del titolo di Grand’Ufficiale della Corona d’Italia.
2. Le opere
Non è nelle mie competenze né quindi mio compito applicare i canoni della critica letteraria all’opera di Giovannino Guareschi: altri lo hanno fatto con unanime apprezzamento fino al punto di candidarlo al Premio Nobel per la letteratura nel 1965.
Sono semplicemente un suo lettore — anche se non sistematico — e in questa veste posso solo riferire delle impressioni.
La prima è che l’intreccio della sua limpida e saporita narrativa con le vicende della vita del suo popolo e della sua nazione ne fa uno scrittore che Antonio Gramsci (1891-1937) classificherebbe come un «letterato nazionale». Sotto questo aspetto, mutatis mutandis, l’unico personaggio cui mi viene in mente di paragonarlo — e non è detto che in termini di qualità della prosa la bilancia penda a favore del russo — è Aleksandr Solženicyn (1918-2008), di dieci anni più giovane di lui, dalla narrativa di maggior respiro e dagl’interessi più orientati alla letteratura a sfondo storico, però, come lui, «esperto», suo malgrado, di vita in prigionia, attento e partecipe osservatore della vita della sua nazione e testimone di un’epoca attraverso la propria biografia.
La sua opera letteraria si situa a mio avviso in quel grande filone della narrativa italica in cui si collocano opere che sono specchio e interpreti, allo stesso tempo, della vita nazionale, che esordisce — mi scuso per l’audacia del riferimento — con Dante Alighieri (1265-1321) — la cui Commedia si può considerare anche una grande narrazione non solo allegorica delle vicende del suo tempo —, prosegue con Alessandro Manzoni (1785-1873) e con Riccardo Bacchelli (1891-1985), ha un epigono di valore in Eugenio Corti (1921-2014) e forse anche — seconda audacia che mi consento — in Carlo Alianello (1901-1981): quegli autori che hanno contribuito, con altri, a forgiare nel tempo il senso identitario degl’italiani. Un processo dove la linea di continuità con il passato della nazione si rinviene più in letterati d’impronta cattolica, come quelli citati, che non in quelli più celebrati, che «rompono» con la tradizione religiosa degl’italiani e vengono messi in primo piano dal canone letterario creato dalla critica post-risorgimentale, specialmente — per il suo duraturo impatto — Francesco De Sanctis (1817-1883), Niccolò «Ugo» Foscolo (1778-1827) e Giacomo Leopardi (1798-1837), Ippolito Nievo (1831-1861) e Giosuè Carducci (1835-1907), Gabriele D’Annunzio (1863-1938) e Pier Paolo Pasolini (1922-1975): tutti autori che espungono dai loro riferimenti, perché «squalificate» a priori, intere pagine della biografia della nazione.
I libri di Guareschi li trovavi e li trovi più spesso negli scaffali dei «moderati» — ovviamente quelli gravati da qualche decennio di età —, di chi coltiva ancora il senso religioso e ha a cuore i destini del proprio Paese, che vede con rammarico sottoposto a un pluriennale «cambio di paradigma» con effetti devastanti nel senso comune e nel costume. Il mio anziano consuocero, giurista di alto profilo, cattolico impegnato, benpensante, grande cultore di Dante, ha tenuto abitualmente i libri di Guareschi sul proprio scrittoio e ne ha fatto domanda fino dal letto di ospedale da cui non si è più risollevato.
Ma non mi spingo oltre: so che il successo nelle vendite — vedi Dan Brown, trascurando per un momento nel paragone la enorme macchina industriale che lo ha «lanciato» e lo sostiene, oppure il quasi coetaneo e amico di Guareschi Indro Montanelli (1909-2001) — non sempre è sinonimo di qualità, ma è sicuro indicatore di feeling con i sentimenti popolari, i migliori come i peggiori.
Normalmente, quando si pensa a Giovannino Guareschi, il primo nome che sorge alla mente è quello di don Camillo. Infatti, una delle trovate più indovinate del multiforme genio dello scrittore padano è proprio l’ideazione dei due personaggi del paesino di Brescello, posto sulla riva destra del Po, al confine fra Parma e Mantova, cioè fra Emilia e Lombardia: l’agguerrito parroco don Camillo e l’altrettanto agguerrito sindaco comunista, «Peppone» Bottazzi, secondo alcuni ispirato allo scrittore dal sindacalista agrario socialista del Parmense Giovanni Faraboli (1876-1953), che lo tenne fra le braccia in quel Primo Maggio in cui Guareschi nacque e di cui portava il nome, ancorché corretto in «-ino».
La saga dei due avversari per la conquista del popolo del borgo — l’uno a Dio, l’altro a Iosif «Stalin» (1878-1953) — si è articolata in decine di racconti a puntate ed è stata riassunta in numerosi volumi usciti fra il 1948 e il 2007, alcuni quindi postumi. Ma le vicende del «mondo piccolo» padano sono arrivate al «grande» popolo specialmente attraverso le sei pellicole, tutte di grande successo, proiettate sugli schermi cinematografici, dai cinema del centro alle sale parrocchiali — e poi, «alla grande», sui televisori — fra il 1952 e il 1970. Grazie alla bravura dei registi e degli interpreti, assai «centrati» nei vari ruoli, ma specialmente alla tematica e alla sua attualità soprattutto in quei decenni, le due figure sono sedimentate nell’immaginario popolare fino ad assurgere a modelli di un rapporto tra fede cristiana e ideologia comunista, entrambe assai presenti nel popolo, che ne attenua lo scontro in nome di un background comune di valori umani e tradizionali, di sentimenti di stima reciproca e di amicizia che vanno al di là delle idee, ne spengono gli ardori e alla lunga prevalevano.
Don Camillo e Peppone sono personaggi di forte attualità nel mondo contadino, padano e non: due figure perfettamente delineate, dai tratti caricaturati sicuramente argumentandi causa e rese protagoniste di vicende inventate ma del tutto plausibili, narrate con semplicità — pare usasse un vocabolario di non più di trecento parole —, grande fantasia e gustoso humour, e per questo divenute così popolari. Due tipi umani che oggi non esistono più e della cui scomparsa, in Don Camillo e i giovani, si accorse precocemente lo stesso Guareschi. Sotto più di un aspetto le due figure sono sì l’emblema di un conflitto perenne tra la carità cristiana e una presunta giustizia sociale puramente umana e senza Dio, ma lo sono altresì di un momento della storia nazionale, caratterizzata dalla forte contrapposizione ideale fra due mondi, quello cattolico e quello comunista, fra due leader carismatici — «Cristo e Stalìn», come canterà decenni dopo Rino Gaetano (1950-1981) (10) —, fra eredi, non gli ultimi, di una guerra civile il cui ricordo è ancora vivo nelle terre padane costellate di croci. Gli ultimi fuochi di una guerra civile che era stata piuttosto lo scontro — coperto da quello fra fascismo repubblicano e tedeschi da una parte e partigiani e comunisti dall’altra — fra il tentativo di approfittare della guerra persa per fare la rivoluzione classista e la reazione e la resistenza dell’Italia anti-comunista e benpensante a tale tentativo.
I due tipi umani si sono impressi nella mentalità dell’italiano medio come un modo esemplare di incarnare ciascuno il proprio ruolo e la propria vocazione: il prete di campagna, una fede integra e combattiva — al punto da nascondere ancora il fucile messo via quando in Emilia ammazzavano i preti —, priva di complessi modernistici, che però si consulta o si pente sempre davanti a Gesù crocifisso; il sindaco comunista, pieno di ardore sociale e di utopie ideologiche, che nasconde pericolosi e corposi «residuati» della guerra, senza infingimenti irenistici. Entrambi però generosi e disposti a cedere quando capiscono che vi è in gioco qualcosa che sta a cuore a entrambi: ricordo per esempio quando le mucche non munte per lo sciopero dei mungitori muggivano di dolore nelle loro stalle… Oppure quando si tratta del matrimonio tra il figlio di Bottazzi e una ragazza di famiglia cattolica. L’intento di Guareschi è di dimostrare che fra uomini d’onore, fra due figli dell’Italia dell’Ottocento e fra due reduci del Piave, ci si può sempre trovare d’accordo sulle questioni autenticamente umane al di là delle idee. Anche in questa vicenda narrata si può cogliere il tratto della personalità di Guareschi — almeno quand’era sobrio… — che prevaleva, ossia la sua bonomia, la sua mitezza e immensa capacità di sopportazione, la sua attitudine a vedere le cose nel loro lato paradossale, di trovare il bene possibile nel concreto, quando le ragioni della propria parte non potevano prevalere.
Ma mi sento anche di aggiungere che questa tesi è a mio avviso debole. Don Camillo e Peppone abitano in un «mondo piccolo», si conoscono fin da bambini, hanno fatto tutti e due la Grande Guerra, si stimano, anzi sono amici, anche se, come capita agli amici veri, delle volte se le suonano e non solo metaforicamente.
Peppone, «alla fine della fiera», passa, soprattutto nelle trasposizioni cinematografiche, per un comunista buono, talora anche più buono del suo avversario parroco: peccato, però, che i comunisti buoni, nella misura in cui sono comunisti, esistono solo nell’immaginazione. Possono esistere gli uomini buoni auto-ingannatisi di essere comunisti, ma i comunisti «consapevoli» non sono uomini buoni: Aleksandr Solženicyn ha scritto migliaia di pagine per dimostrarlo. Papa Pio XI (1922-1939) ha scongiurato i fedeli di non fare nulla con i comunisti in nome dell’umanità; e ha avuto e ha ragione da vendere. Il comunismo, insegna il pontefice lombardo, è «intrinsecamente perverso» (11), cioè è il rovesciamento della visione del mondo ispirata dalla fede e dalla ragione naturale. Una inversione che non scaturisce dalle circostanze, non è provocata da problemi concreti, umani, ma è «intrinseca», ossia scaturisce da teorie sul mondo e sulla storia che non possono non generare conseguenze cattive e omicide. Neppure le ragioni di bene contingente, neppure l’amicizia personale possono suggerire accordi o compromessi con uomini comunisti o, peggio, autorità di cui sono titolari persone che professano idee comuniste. Per inciso, sarà proprio per questo che il comunismo, morto Stalin, cambierà volto, attenuerà la durezza del suo stile di lotta, punterà sulla «distensione» e sulla «quinta colonna» interna al mondo avversario.
Le diatribe e le vicende dei personaggi della saga fanno sorridere e spesso inumidire il ciglio, ma non ci si può dimenticare che dalla parte di don Camillo, pur con tutti i difetti — va sottolineato che in genere pecca per eccesso e di rado per difetto — dell’uomo, stanno Dio e la sua legge, dall’altra l’errore nella sua peggiore e omicida declinazione. Quando ammazzavano i preti, in Russia, in Messico, in Spagna, in Emilia, in Jugoslavia, nei Paesi conquistati dall’Armata Rossa, i comunisti non avevano il sorriso e la giovialità di Peppone: avevano il volto gelido di ingranaggi di anonime macchine di morte. E far dimenticare, almeno un po’, questa realtà rappresenta a mio avviso un limite non secondario — per eccesso di bontà, certo — della visione morale sottesa alla grande vena narrativa di Guareschi.
Guareschi, tuttavia, non è solo il padre di don Camillo. La sua produzione letteraria è più estesa. Non ha mai scritto un saggio o un libro dove abbia espresso in maniera compiuta le sue idee religiose, morali o politiche, affidate più volentieri ai pezzi brevi pubblicati sui periodici e poi ripresi in volume. Oggetto principale di questa narrativa non è il «mondo piccolo» di Brescello, ma più spesso un altro microcosmo: quello della famiglia, della sua famiglia.
La scoperta di Milano, del 1941, racconta, come narrasse delle favole e quasi come per «piastrelle» di un mosaico la stagione di vita milanese del giovane scrittore parmense. Al diario milanese segue, lo stesso anno, Il destino si chiama Clotilde, che reca come chilometrico sottotitolo Romanzo d’amore e di avventura con un’importante digressione la quale, per quanto d’indole personale, si innesta mirabilmente nella vicenda e la corrobora rendendola vieppiù varia e interessante, quindi Il marito in collegio. Romanzo ameno (1944), poi La favola di Natale, composta nel Lager (1946), nonché Italia provvisoria. Album del dopoguerra (1947), Lo zibaldino. Storie assortite vecchie e nuove (1948), Diario clandestino. 1943-1945 (1949), Corrierino delle famiglie (1954), La calda estate di Gigino Pestifero (1967), Vita in famiglia (1968), L’Italia in graticola (1968): tutti, salvo indicazione diversa, editi da Rizzoli.
Anche in questo caso per la critica mi rimetto a chi è del mestiere. Mi pare tuttavia, da profano, che Guareschi sia un narratore cui si addicono meglio le storie «piccole», i racconti — anche la saga su Don Camillo nasce come serie di racconti a puntate — oppure anche vicende più ampie che però preferisce sminuzzare e somministrare a poco a poco: è un narratore, ma non un romanziere. Guareschi ha uno stile asciutto, caldo, semplice ma assai comunicativo anche verso chi ha poche basi letterarie. I personaggi da lui dipinti sono sempre ben rifiniti e mai sbavati. La mitezza — Guareschi criticò molti ma non odiò mai nessuno — e il buon senso dei giudizi che mette in bocca ai personaggi, pur intrisi di passionalità, affascinano. Le sue innumerevoli metafore e boutade si scolpiscono durevolmente nella memoria del lettore.
3. La filmografia
Giovannino Guareschi stese diverse sceneggiature cinematografiche e realizzò — regia, soggetto e sceneggiatura — metà del film documentario — oggi si direbbe docureality — La rabbia, del 1963, diviso in due parti uguali: la prima in cui Pier Paolo Pasolini, appoggiandosi su materiali documentari filmici, espone la sua visione marxista del mondo; la seconda, con gli stessi mezzi, in cui Guareschi espone la sua di cattolico conservatore. Pur nella diametrale opposizione delle visioni, entrambi paiono concordare sullo svilimento e sul decadimento che la società dei consumi inizia a infliggere all’antico e civile popolo italiano. Proiettato per la prima volta nel 1963 il film sarà ritirato dopo poche settimane dalle sale. Riapparirà solo alla 65ª Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia nel 2008, ma senza la parte di Guareschi, perché, a detta del restauratore della pellicola, Giuseppe Bertolucci (1947-2012), Guareschi esprime opinioni «insostenibili» sulla decolonizzazione e sulla Guerra di Algeria (1954-1962). La Rabbia sarà riproposto l’anno seguente al Fiuggi Family Festival in integrale.
4. Il polemista e l’«operatore culturale»
Guareschi, oltre che scrittore, è anche un grande giornalista. Anzi, nasce giornalista, esordendo come correttore di bozze e poi cronista de La Gazzetta di Parma, il più antico foglio quotidiano d’Italia: giornalista di costume e giornalista di politica. Di idee monarchico-sabaude, nel secondo dopoguerra è avversario acre e leale del regime democristiano insediatosi dopo la grande vittoria cattolica del 18 aprile 1948, a cui la sua inesauribile inventiva e il suo abile pennello di caricaturista hanno contribuito in misura significativa.
Gli anni del centrismo, sotto l’«ultimo» pontificato di Pio XII (1939-1958), segnano apparentemente il trionfo della morale cattolica e stendono un velo di pudicizia sul costume pubblico del Paese (12). Ma gli scandali non mancheranno — dal «caso Montesi» (13) ai cosiddetti «balletti rosa» e «verdi» (14) — e il costume sotto la coltre di austerità in realtà inizia a fermentare e a cambiare. Di questa «doppia Italia», verniciata di cattolicesimo e già tentata dalla concussione «ambientale», Guareschi, cattolico e democratico, uomo d’ordine e disgustato da ogni regime illiberale nei fatti, sarà critico feroce più spesso con la matita che non con la prosa. L’Italia cristiana nel governo e «rossa» nel potere locale di alcune regioni, l’Italia cattolica nell’imprenditoria e «laica» nella finanza che conta, che bacia la pantofola papalina e lascia l’apparato culturale nelle mani dei massoni e dei comunisti, è una Italia che si presta assai bene alla critica politica e alla satira di costume e Guareschi sarà un campione in entrambe.
La sua avversione al regime repubblicano, la sua critica alla partitocrazia si acuiscono, come accennato, dopo l’apertura a sinistra e il suo spostamento «a destra» raggiunge l’apice quando l’Italia — che chiamerà «Italia provvisoria» — sarà colpita dall’ondata rivoluzionaria del Sessantotto, l’anno, ahimè, in cui Guareschi lascerà questo mondo e la famiglia che tanto ama. A quegli anni «prima della Rivoluzione» (15) risale la rifondazione di Candido, cui potrà partecipare solo in spirito.
5. Ciò che Guareschi non è stato
Monarchico in tempi repubblicani, intellettuale anti-comunista quando il comunismo invade il mondo della cultura, vicino alla destra nazionale quando questa comincia a essere demonizzata, autore dal grande seguito popolare, geniale ideatore di cliché e parole d’ordine a larga presa sull’immaginario collettivo, fine interprete delle istanze del mondo contadino — ai suoi tempi ancora maggioritario — e della migliore borghesia, Guareschi non vorrà mai legarsi ad alcuna ideologia o forza politica. A lui interesserà soprattutto stigmatizzare i difetti delle ideologie totalitarie e della classe dirigente, democristiana e non, che vede tradire la sua amata patria e inquinare il suo «mondo piccolo», accendendovi odi e conflitti che finiscono per oscurare l’autenticità e il bello dello stare al mondo sotto lo sguardo di Dio. Non è socialista quando il suo habitat giovanile è intriso di socialismo, non è fascista quando si paga per non esserlo, non è democristiano quando basterebbe poco per essere «imbarcato» nella cultura di regime, non è neofascista quando le sue tesi lo appiattiranno automaticamente su ciò che restava della destra politica, non è sessantottino quando il Sessantotto matura ed esplode.
Tuttavia, sono saldissimi il suo feeling con quell’Italia «silenziosa» che affonda le radici nell’Insorgenza e nell’Anti-Risorgimento, con quel «Paese reale» che ha subito l’Unità e il liberalismo tacendo il proprio disagio e ha accettato il fascismo-regime come apparente restaurazione dei valori «forti», la sua fede cristiana non «codina» e il suo innesto nella cultura popolare.
È mia opinione che tutto ciò, unito alla sua franchezza spontanea, alla sua comunicatività e alla sua notorietà — a oggi sono decine le tesi di laurea su di lui e sulla sua opera (16) — avrebbero poturo fare di lui un leader di opinione — gramscianamente, un «intellettuale organico» a un progetto di «riforma morale e civile» autentico dell’Italia — per quel vasto ed eteroclito mondo di destra italiano. Quel mondo che per ragioni storiche non partecipava né alle elezioni né alla vita politica oppure doveva affidarsi, «turandosi il naso», a classi dirigenti apocrife che non ne indossavano integralmente le istanze, dalla Democrazia Cristiana al Movimento Sociale Italiano, conclusa l’effimera stagione dei partiti monarchico-liberali. Bastava solo che qualcuno, nel mondo dellla politica, si accorgesse delle potenzialità del suo genio.
Ma quel qualcuno non ci fu. In ogni caso, difficilmente Guareschi si sarebbe prestato a rivestire una leadership che lo avrebbe strappato al suo «mondo piccolo». Del resto, le sue idee erano molto più genuinamente di destra dei vari nazionalismi spuri indossati dalla classe politica, tant’è vero che il suo anti-conformismo dava non poco fastidio. Comunque, dar vita all’ennesimo partito politico non sarebbe stato neppure necessario, vista la breve avventura del Fronte dell’Uomo Qualunque (1944-1949): sarebbe bastato un forte centro di opinione che veicolasse le idee di tradizione e libertà, orientando in maniera unitaria e omogenea l’opinione di centro e di destra, senza «complessi culturali», e ridando così voce a una Italia da decenni emarginata o disperata. Un movimento «non moderato», fondato sul buon senso, su un patriottismo non ideologico, sulla religiosità, sull’anti-comunismo e sull’anti-socialismo della parte maggioritaria della nazione: in una parola un movimento conservatore che probabilmente avrebbe stanato l’astensionismo rinunciatario, portato via buona parte dell’elettorato democristiano e missino e anche avrebbe attinto a molto di quello liberale.
Ma così non è stato: il mite Cincinnato di Roncole rimase solo un pungente giornalista di opposizione.
Così, sempre con il senno di poi, non si può non pensare a una grande opportunità persa da «quella» Italia per creare un’alternativa al dominio della classe dirigente insediata dagli Alleati e che gli italiani nelle urne dovranno riconfermare al potere fino al 1989, stante il ricatto dei blocchi e della guerra nucleare, una élite ideologica e a ricambio ridotto che avrebbe portato il Paese verso lidi socialdemocratici, che avrebbe calato la maglia d’acciaio del potere statale su un corpo sociale vivo e altamente creativo, mortificandone il genio e la laboriosità, rinnegando gl’ideali di generazioni di figli di una grande nazione.
Ripensando a Guareschi mi torna alla mente un altro grande scrittore italiano, romagnolo e non emiliano, che si muoveva su ben altri registri, ma condivideva con l’uomo della Bassa la medesima passione civile, lo stesso spirito da bastian contrario, nonché il possesso dell’ultima prosa decente attribuibile a chi riempie le pagine di una rivista o di un libro. Un uomo sicuramente di destra, forse poco credente e un po’ nazionalista, ma di sconfinata erudizione e di ben fondata cultura; anch’egli collaboratore per anni de il Borghese, come Guareschi nemico di una classe politica che auto-concepiva protervamente come «ortopedica» — per dirla con Giovanni Orsina (17) — e spietato critico della degenerazione partitocratica e socialista dell’Italia, che come Giovannino scelse nell’ultima parte della propria parabola esistenziale di vivere da «esule in patria»: Piero Buscaroli (1930-2016), storico, musicologo, giornalista, quello che ha scritto per i tedeschi, incapaci di farlo, la storia dei loro più grandi compositori.
Ma qui mi fermo, perché anche l’audacia ha un limite…
Oscar Sanguinetti
Note:
(1) La pubblicazione delle opere e la saggistica critica hanno ormai raggiunto dimensioni ragguardevoli: numerosi autori si sono «specializzati» in «guareschismo» e ormai dire qualcosa di inedito è pressoché impossibile; così pure fare qualunque commento espone alla critica di chi ha letto tutto «di» e «su» e io non sono fra costoro. Il «Club dei Ventitré» — due in meno dei proverbiali «venticinque lettori» manzoniani —, di Roncole Verdi, animato dai Guareschi junior — ormai solo da Alberto — diffonde moltissimi materiali di e su Guareschi anche online ed edita anche un periodico di testi e di notizie dal titolo Il Fogliaccio (<http://www.giovanninoguareschi.com/Fogliaccio_84.pdf>). Tutti i siti web citati nelle note al testo sono stati consultati il 4-11-2018.
(2) Traggo gran parte delle notizie biografiche su Guareschi dalla esauriente voce di Domenico Proietti nel Dizionario Biografico degl’Italiani della Treccani, vol. LX, 2003; nel sito web <http://www.treccani.it/enciclopedia/giovannino-guareschi_%28Dizionario-Biografico%29/>. Il particolare della mancata laurea è in Adriano Concari, La vita e le opere di Giovannino Guareschi, tesi di laurea, Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano Facoltà di Lettere e Filosofia, relatore Mario Apollonio, a.a. 1969-1970; sunto nel sito web <http://www.immac.it/wp-content/uploads/2013/04/Tesi.pdf>, cap. 1, par. Vita di provincia. Qualche notizia attingo a Giorgio Torelli, I baffi di Guareschi. Ritratto a mano libera dell’inventore di don Camillo, àncora, Milano 2014.
(3) Aveva ricevuto la notizia, poi rivelatasi falsa, della morte di suo fratello Ludovico Giuseppe detto «Pino» (nato nel 1917), autiere di Sanità, odontotecnico, sul fronte russo prima con il CSIR e poi con l’ARMIR; a denunciarlo era stato un coinquilino di fede fascista, di professione fruttivendolo. Per inciso Pino sarà preso prigioniero dai russi, resterà nel GuLag per sette anni, ma sopravvivrà alla catastrofe della spedizione mussoliniana. Molto uniti fino alla guerra, dopo il ritorno di Pino i rapporti fra i due fratelli si faranno molto meno frequenti.
(4) Racconta Torelli (op. cit., p. 47) che un vicino per farlo riprendere invece di fargli annusare una boccetta di ammoniaca gliel’abbia somministrata mista ad acqua.
(5) Sul tema cfr., per esempio, Franco Malnati, La grande frode. Come l’Italia fu fatta repubblica, premessa di Aldo A. Mola, Bastogi, Foggia 1997.
(6) Cfr., per esempio, Giorgio Pisanò (1924-1997) e Paolo Pisanò, Il triangolo della morte. La politica della strage in Emilia durante e dopo la guerra civile, Mursia, Milano 2007.
(7) «[…] il terzo buco era necessario per scaricare tutto il fumo che aveva nel cervello» (Candido, 5-4-1947).
(8) La sceneggiatura fu affidata a Leonardo «Leo» Benvenuti (1923-2000), a Piero De Bernardi (1926-2010) e al noto regista Carmine Gallone (1885-1973), che ne fu anche regista: due toscani e un ligure. Guareschi si vide così bocciata la propria, così come era accaduto per i tre film usciti in precedenza, e considerò quella proposta dalla Rizzoli, non solo troppo manomissoria, ma anche assai distante dallo spirito dei racconti di «mondo piccolo» cui doveva ispirarsi la pellicola.
(9) Su di lei cfr. la voce Pazzagli, Maria Giovanna (Preda, Gianna), redatta nel 2016 da Giuseppe Parlato nell’Enciclopedia Treccani online, nel sito web <http://www.treccani.it/enciclopedia/maria-giovanna-pazzagli_(Dizionario-Biografico)>.
(10) Rino Gaetano, Aida, 1977.
(11) Pio XI, Lettera enciclica sul comunismo ateo «Divini Redemptoris», del 19-3-1937, n. 58.
(12) Il fenomeno investe un po’ tutti i Paesi nei primi anni del secondo dopoguerra.
(13) Il corpo della giovane romana Wilma Montesi (1932-1953) fu trovato sulla spiaggia di Torvajanica nell’aprile del 1953. La responsabilità della morte venne attribuita a persone di ambienti vicini al governo.
(14) Nome dato nel 1960 dalla stampa scandalistica ai ritrovi privati di omosessuali maschi in Italia; ad analoghi intrattenimenti però eterosessuali fu dato il nome di «balletti rosa».
(15) Per riprendere il titolo di un film del conterraneo comunista di Guareschi, Bernardo Bertolucci, uscito nel 1964, che anticipava, a detta dei critici, le idee del Sessantotto.
(16) Sono elencate nel sito web del Club dei Ventitré.
(17) Cfr. Giovanni Orsina, Il berlusconismo nella storia d’Italia, Marsilio, Venezia 2013, p. 25.