Marco Invernizzi, Cristianità n. 432 (2025)
Intervento, rivisto e annotato, svolto nella Sala Marianna De Fusco del Pontificio Santuario della Beata Vergine del Santo Rosario a Pompei (Napoli), il 22 marzo 2025, in occasione dell’apertura del Giubileo associativo di Alleanza Cattolica. È stato mantenuto lo stile del parlato.
Il tema centrale del Giubileo di quest’anno è la speranza. La virtù della speranza è certamente rivolta alla vita eterna come meta di ciascuna persona, ma anche a una speranza temporale, per una vita pubblica migliore, segnata dalla tranquillità nell’ordine, come sant’Agostino (354-430) chiama la pace.
Vorrei allora ripercorrere l’ultimo mezzo secolo alla luce della virtù della speranza, riferendomi in particolare ai due Giubilei che sono stati celebrati, quello del 1975, un Anno Santo nel segno del rinnovamento e della riconciliazione, e quello del 2000, evidentemente segnato dal passaggio nel terzo millennio, dedicato a celebrare Cristo, ieri, oggi e sempre.
Il grande cambiamento
Nei cinquant’anni dal 1975 a oggi il mondo è profondamente cambiato. È facilmente constatabile il cambiamento sopravvenuto nella nostra vita quotidiana, accendendo il computer o controllando tutte le mattine i messaggi su WhatsApp. Ma comprendere che cosa è cambiato nel profondo della nostra esistenza e se questo cambiamento è stato positivo o negativo è tutt’altra cosa e necessita di un’analisi profonda, alla luce di categorie e di un senso comune che oggi non sono condivisi da tutti gli abitanti del mondo, segnati non soltanto da divisioni ideologiche ma anche dalla mancanza sempre più evidente della condivisione riguardo a che cosa sia la persona, quali siano la sua natura e il suo destino. E in un mondo fatto così mancano i presupposti della comunione.
Il tramonto dell’epoca delle ideologie
Al tempo del Giubileo del 1975 non era così, almeno in parte. Il mondo di quegli anni era profondamente diviso, ma in modo diverso da oggi. La divisione consisteva nella diversa appartenenza ideologica, per cui esistevano molte e contrapposte «case comuni», anzitutto a livello internazionale. La prima divisione, infatti, era rappresentata dai due mondi protagonisti della politica internazionale, il mondo socialcomunista con i due grandi riferimenti della Cina e dell’Unione Sovietica (URSS), e il mondo che aveva nella libertà il proprio punto di riferimento culturale. Esistevano altre realtà, altre religioni, culture e civiltà, ma erano in qualche modo subordinate al paradigma dominante, lo scontro Est contro Ovest.
Che cosa sperava il cristiano che nel 1975 andava in pellegrinaggio a Roma per l’Anno Santo? Certamente la salvezza eterna, ma anche la salvezza della propria libertà dalla tirannide comunista. Lo ricordo bene: nel pullman organizzato da Alleanza Cattolica e nelle strade di Roma diffondemmo un numero speciale di Cristianità che riportava le parole del card. Ugo Poletti (1914-1997), vicario generale della diocesi del Papa, una sorta di appello perché, nel turno elettorale previsto per l’anno successivo, venisse risparmiata alla Città Eterna e all’Italia la vittoria del partito comunista più forte del mondo libero (1).
Il 1975 è stato l’anno in cui l’espansione militare del comunismo nel mondo si è avvicinata maggiormente alla vittoria auspicata dalla Rivoluzione mondiale immaginata da Vladimir Il’ič Ul’janov «Lenin» (1870-1924) e poi attuata in modo diverso da Josif Vissarionovič Džugašvili «Stalin» (1879-1953), suo successore alla guida dell’URSS. Infatti, con la caduta di Saigon, capitale del Vietnam libero, nelle mani del Vietnam del Nord, comunista, e poi della Cambogia sotto il regime dei Khmer rossi di Pol Pot (1925-1998) e la conseguente umiliazione degli Stati Uniti d’America, che avevano difeso il popolo vietnamita del Sud impegnando e sacrificando decine di migliaia di giovani americani, il comunismo sembrava veramente destinato a conquistare il mondo o comunque una parte consistente di esso. Così non è stato ed è lecito pensare che anche le preghiere delle decine di milioni di fedeli durante quell’Anno Santo abbiano contribuito a scongiurare un esito così nefasto. Probabilmente il declino della capacità di seduzione dell’ideologia marxista era cominciato prima del 1975 e sarebbe continuato nonostante il tentativo di esprimere un «comunismo diverso» di tipo «cinese» o costruendo il «mito dell’eroe» Ernesto «Che» Guevara (1928-1967), tentando così, attraverso di esso, di affascinare i giovani occidentali impegnati nella «contestazione» nelle scuole e nelle università d’America e d’Europa (2). Peraltro, nel 1975 l’apparato militare sovietico era ancora intatto e avanzava vittorioso anche in Africa, apparendo via via più minaccioso agli europei, le cui classi dirigenti si presentavano frastornate e incapaci di reagire efficacemente di fronte al pericolo. Gli Anni Ottanta, gli anni di Ronald Wilson Reagan (1911-2004) negli Stati Uniti e di Margaret Hilda Thatcher (1925-2013) nel Regno Unito, quando sarebbe cominciata la lotta contro l’«impero del male» sovietico, erano imminenti ma ancora lontanissimi nel sentire comune.
Gli Anni Settanta erano stati gli anni delle ideologie progressiste, quei filoni ideali scaturiti nel 1789 dalla Rivoluzione francese e la cui egemonia si è protratta fino al 1989, quando la rimozione del Muro di Berlino segna il clamoroso fallimento dell’ultima di tali ideologie, il marxismo-leninismo, imploso nell’URSS, la sua casa-madre, dopo il vano tentativo di riformarsi e di riciclarsi sotto la guida di Michail Sergeevič Gorbačëv (1931-2022). Sono anni intrisi di odio, nei quali, soprattutto in Italia, dilaga il terrorismo rosso, che non vuole rinunciare alla rivoluzione armata, perché non crede nella possibilità di portare al potere i partiti comunisti occidentali senza l’uso della violenza. Sono soprattutto anni dominati dalla «rivoluzione antropologica» esplosa nel decennio precedente, colpisce l’uomo nel suo intimo, modificando il suo modo di pensare e di vivere rispetto alla famiglia, alla sessualità e alla stessa identità di genere. Mentre il terrorismo viene sconfitto dallo Stato e il comunismo sovietico implode, questa rivoluzione penetra capillarmente nel corpo sociale e vi rimane fino a oggi, essendo appunto riuscita a trasformare quella generazione e la successiva (3).
Il mondo cattolico assiste attonito a questa fase della storia, senza capire veramente ciò che sta succedendo, salvo poche eccezioni, come quella di Augusto del Noce (1910-1989). Una parte di esso sposa questa rivoluzione, in America Latina con la «teologia della liberazione», in Italia con il «compromesso storico», espressione politica di un tentativo di accordo culturale: la grande maggioranza dei cattolici sembra allora uscire dalla storia, forse perché non sa più che cosa sperare, che cosa chiedere e quale fine temporale perseguire. La sconfitta più grave nel mondo cattolico è in effetti culturale, come aveva scritto san Paolo VI (1963-1978) proprio nello stesso 1975 nell’esortazione apostolica Evangelii nuntiandi (4). Lo spiegherà bene più tardi un altro Papa, Benedetto XVI (2005-2013), nell’enciclica Spe salvi, dedicata proprio alla speranza, dove scriverà che nella modernità i cattolici hanno ridotto la speranza alla ricerca della salvezza per loro stessi, dimenticando la natura sociale della persona e la dimensione missionaria del cristianesimo (5). Per sperare bisogna avere anche una meta nel tempo, cioè bisogna desiderare un mondo diverso e migliore dell’attuale, ed è necessario conoscere la strada offerta dalla dottrina sociale della Chiesa per ricostruire un mondo ispirato dal Vangelo. Ma la parola «cristianità», che riassume tutto questo ragionamento, è diventata tabù ormai da decenni nel mondo cattolico.
Il pontificato di Giovanni Paolo II
Comincia così, nel 1978, il pontificato di Giovanni Paolo II (1978-2005), che condurrà la Chiesa nel terzo millennio. Siamo nel pieno degli «anni di piombo», con il terrorismo delle Brigate Rosse che lancia l’attacco al cuore dello Stato con il rapimento e l’assassinio del leader della Democrazia Cristiana Aldo Moro (1916-1978) proprio durante le trattative finali per sancire l’accordo di compromesso «storico» fra DC e PCI; e siamo anche nell’anno in cui la rivoluzione «antropologica» del Sessantotto, dopo la legalizzazione del divorzio nel 1970, raggiunge l’obiettivo della legalizzazione dell’aborto con la legge n. 194 del 1978.
Se analizziamo la situazione del mondo cattolico alla luce della speranza, non possiamo non ricordare la drammatica immagine di Papa Paolo VI durante i funerali di Moro e le sue parole, quasi disperate, rivolte al Signore, che pareva non avere ascoltato la preghiera del Pontefice e dei fedeli per la salvezza della vita terrena dello statista (6). La Chiesa sembra in quel frangente smarrita, sconfitta dalle forze del male sul piano antropologico e su quello politico, divisa e tradita da molti suoi esponenti che sperano di attenuare il male abbracciandone l’artefice. La situazione drammatica raggiunge livelli altissimi quando nel 1978 muore Paolo VI e, poche settimane dopo, anche il suo successore, il beato Giovanni Paolo I, per circostanze naturali che però non impediscono ricostruzioni complottistiche, che aumentano ulteriormente lo stato di tensione all’interno del Corpo di Cristo.
La fierezza dell’essere cristiani
E invece la situazione cambia. Diventa pontefice nel 1978 il cardinale Karol Wojtyła (1920-2005), proveniente da un Paese comunista, la Polonia, che conosce per esperienza l’ideologia e la prassi del marxismo. Egli opera nella scia dei suoi due predecessori, scegliendone anche il nome, non effettua cambiamenti radicali ma introduce nel modo di presentare la fede cattolica un elemento di particolare visibilità, che viene notato e che contribuisce a cambiare l’atteggiamento soprattutto nei giovani cristiani del tempo: la gioia e la fierezza dell’essere cattolici e della testimonianza della fede.
Per una speranza che possa avere anche un esito nella storia, cioè per la convinzione che il cristianesimo non è soltanto una fede personale ma può anche migliorare la vita terrena che pure sempre rimarrà «una valle di lacrime», lo stile pastorale del nuovo Papa è importante. Senza rinunciare al confronto con le autorità comuniste, anzi proprio attraverso le parole che pronuncia nella sua Polonia durante un primo memorabile viaggio compiuto nel 1979, restituisce a quel popolo la convinzione che si può cambiare la storia rimanendo fedeli alle proprie origini cristiane e nazionali.
Il suo pontificato sarà lungo e straordinario, caratterizzato anzitutto dalla sua santità, ma anche dal suo ampio e ricco magistero (7). Papa Wojtyła non verrà fermato né dall’attentato subìto nel 1981, né dalla contestazione interna, soprattutto da parte dai teologi progressisti, né dalla malattia disabilitante, che affronterà con eroismo negli ultimi anni. Porterà così la Chiesa nel terzo millennio cristiano, mostrando al mondo quello che aveva capito durante la convalescenza in ospedale, dopo l’attentato, quando disse che la Madonna lo aveva salvato proprio perché introducesse la Chiesa nel terzo millennio della sua storia (8).
Il Giubileo del 2000 e il passaggio dal «timore» alla «missione»
Il Giubileo del 2000, preparato nei tre anni precedenti, sarà celebrato non solo a Roma ma anche in tante chiese giubilari nel mondo. Esso segna un passaggio pastorale importante. Se nel 1975 il mondo cattolico — e non solo — era dominato dalla paura che il comunismo potesse esportare la sua rivoluzione nel mondo intero, venticinque anni dopo questo timore non c’è più. Tuttavia, la storia non è finita, il mondo non è in pace, come purtroppo si vedrà nel corso dell’anno successivo, l’11 settembre 2001, con l’attentato terroristico di marca islamistica alle Torri Gemelle di New York (9).
Il Magistero è sempre più convinto del fatto che un tempo della storia si è concluso. Se nei due secoli della modernità (1789-1989) le ideologie avevano preso il sopravvento, sostituendo il senso comune basato ancora su valori cristiani condivisi — anche se sempre meno e con una crescente ipocrisia —, adesso era l’uomo al centro dell’attenzione del relativismo culturale, la nuova ideologia dominante. La società tardo-moderna o post-moderna è ancora più frantumata della precedente, perché non vi sono più famiglie ideologiche, ma singoli uomini «coriandolizzati», ciascuno «ideologia a sé stesso», come li definisce il fondatore del CENSIS, Giuseppe De Rita, che ha anche definito il prodotto di questo processo il «popolo della sabbia» (10).
Tutto è più difficile. La strategia dell’avanguardia che intercetta la protesta vale per un numero sempre più ristretto di persone. Prendiamo il caso dei «princìpi non negoziabili» di Benedetto XVI: bisogna essere presenti e partecipare alla battaglia ancora in corso, ma bisogna anche essere consapevoli che la reazione alla rivoluzione antropologica diminuisce progressivamente. Allora, diventa sempre più importante cercare di educare, soprattutto i giovani, che ancora grazie a Dio esistono, anche se in numero sempre decrescente, attraverso la costruzione di ambienti dove questa educazione possa avvenire concretamente. Dove ambienti familiari o parrocchiali ancora esistono vanno salvaguardati e aiutati a crescere, ma dove non esistono bisogna cercare di costruirli e aspettare con pazienza che diano frutti.
Il Giubileo del 2000 potrebbe essere indicato come una svolta di passaggio fra il tempo della difesa di una cristianità ormai scomparsa e il tempo caratterizzato della missione ad intra delle antiche società cristiane secolarizzate, il tempo della «nuova evangelizzazione».
Benedetto XVI e Francesco
Il Papa morirà nel 2005 e ai suoi funerali saranno presenti tutti i capi di Stato del mondo, eccetto quello della Cina. Milioni di fedeli, soprattutto giovani, lo accompagneranno nell’ultimo saluto. Eppure, nonostante gli anni successivi, quando è Papa il suo principale collaboratore, il cardinale Joseph Ratzinger, Benedetto XVI, a vent’anni di distanza ci si trova a chiedere che cosa rimane del suo immenso pontificato. Certamente il magistero di entrambi resta e può sempre essere ripreso e valorizzato; non dobbiamo indulgere allo sconforto, ma neppure chiudere gli occhi di fronte a una reale difficoltà e alla crisi della Chiesa in Occidente. Il primo a rendersene conto era stato proprio lo stesso Papa polacco, verso la fine del proprio pontificato, per esempio nell’esortazione apostolica Ecclesia in Europa, del 2003, dove scrive di notare il «crescere di una generale indifferenza etica e di una cura spasmodica per i propri interessi e privilegi» (11), oltre al proseguire del processo di scristianizzazione a tutti i livelli.
Successivamente, dopo la clamorosa «rinuncia» al pontificato di Papa Benedetto, il nuovo Papa, Francesco (2013-2025), ha seguito una diversa strategia pastorale, anche se il processo è proseguito. Certo, negli altri continenti, dove è ancora in corso la prima evangelizzazione, il cattolicesimo è cresciuto e continua a crescere, ma si tratta di un’altra storia.
Il Giubileo del 2025
E così arriviamo a oggi, al nostro Giubileo del 2025, in Italia, cioè nel cuore dell’Europa. E arriviamo in un tempo di crisi per la Chiesa e in generale per il mondo occidentale, che si protrae almeno dal 1789. Basta guardare all’aumento di tutti i numeri che danno il «polso» della crisi per averne conferma: divorzi, calo dei matrimoni, aborti, leggi inique, diffusione di droghe sempre più letali e, soprattutto, una riduzione costante e ogni giorno più sensibile delle nascite, segno dell’egoismo diffuso e della mancanza di voglia di trasmettere la vita.
Allora, è stato inutile quanto fatto dalla straordinaria serie di pontefici che hanno attraversato il secolo XX? No, perché rimane il loro magistero, come ha scritto opportunamente don Roberto Regoli a proposito del pontificato di Benedetto XVI (12). Anche il lungo pontificato di san Giovanni Paolo II ha prodotto un magistero straordinario, a disposizione di chi se ne vuole servire su tutti i temi ancora al centro della vita pubblica: pensiamo soltanto al tema dell’Europa, ai suoi due «polmoni», quello orientale e l’altro occidentale (13); all’enciclica sui santi Cirillo (826/827-869) e Metodio (815/825-885) (14), all’esortazione apostolica Ecclesia in Europa, all’invito a riscoprire le proprie radici rivolto agli europei dalla Spagna all’inizio del pontificato (15), alla battaglia per il riconoscimento delle radici cristiane nella Costituzione europea.
Naturalmente la Chiesa non è soltanto in Occidente, anzi nel nostro tempo storico è soprattutto altrove, in Africa e in Asia, dove cresce, mentre i fedeli in Europa diminuiscono. E tuttavia quel che accade in Occidente rimane di grande importanza, anche per il resto del mondo.
La lotta contro le divisioni
Tenere insieme tutto questo non è facile. Vi è il tema della prima evangelizzazione, dove i cristiani sono una minoranza in crescita e la Chiesa è ancora attraversata da una fase di entusiasmo missionario. Vi è il tema del rapporto con i cristiani separati, ortodossi e protestanti, ma anche quelli che hanno rifiutato il Concilio di Calcedonia (451) all’inizio della vita cristiana e le cui Chiese ancora esistono, soprattutto nei Paesi islamici, e costituiscono forse non più un problema dottrinale, ma certamente ancora un problema pastorale, perché l’unità non è stata raggiunta. Vi è la questione dello «scisma d’Occidente», come Giovanni Cantoni chiamava lo scisma del mondo cosiddetto tradizionalista al tempo del vescovo Marcel Lefebvre (1905-1991), che si è acuito sotto il pontificato di Francesco con gli esiti disastrosi che abbiamo sotto gli occhi, numericamente poco significativi ma tragici se pensiamo alle persone che hanno apostatato, alcuni diventando ortodossi, altri venendo scomunicati dopo anni di insulti al Santo Padre e alla Chiesa, persone che hanno rivestito un ruolo anche importante nella vita ecclesiale e hanno la responsabilità di aver portato fuori dalla comunione un certo numero di fedeli. Insomma, la Chiesa conosce moltissimi problemi. Sarebbe infantile non vedere le divisioni al suo interno, come peraltro è sempre accaduto nella sua storia, a cominciare da quella cui ho accennato, durante l’ultima parte del pontificato di san Paolo VI, nel decennio dopo l’enciclica Humanae vitae, del 1968.
Da parte nostra dobbiamo insistere sul tema dell’unità, perché vediamo quanto male produca la divisione. Lo vediamo anche in questi mesi di fronte alla crisi prodotta dalla guerra in Ucraina.
Le divisioni non sono mai finite e le loro conseguenze continuano nel tempo. Lo scisma degli «ortodossi» del 1054 porta ancora oggi i suoi frutti nefasti. La Chiesa ha perso un polmone e chi si è staccato da Roma continua a volerla sostituire in nome del mito della «Terza Roma», che ha un ruolo non secondario nel nazionalismo imperialista che sostiene l’«operazione militare speciale» di Vladimir Putin in Ucraina. Nonostante l’aggressione subita, in Ucraina le quattro confessioni cristiane non sono ancora capaci di trovare l’unità: cattolici latini, greco-cattolici, ortodossi pro Kiev e pro Mosca continuano a ignorarsi o, peggio, a farsi del male.
Nel campo politico culturale il nazionalismo ideologico continua a dividere sia la destra sia la sinistra. Quante sinistre erano in piazza a Roma il 15 marzo scorso? Quella riformista del PD contro la sua stessa segretaria, sebbene ancora nella stessa piazza. Quella di Rifondazione Comunista e di altre formazioni similari in un’altra piazza. Quella del comunista fuori tempo massimo Marco Rizzo, peraltro con le sole bandiere tricolori, nel nome forse di un nazionalcomunismo rosso-bruno, tanto inquietante in quanto richiama quel Patto Hitler-Stalin che nessuno vuole ricordare (16).
Ma anche la destra è divisa di fronte alla tragedia ucraina. Vi sono coloro che guardano a Mosca sperando in un salvatore dei valori tradizionali contro l’Occidente decadente e corrotto, quelli che lo vogliono veder morto piuttosto che auspicarne la conversione. È una destra bizzarra, a sua volta divisa fra chi odia l’America «a prescindere» e chi invece usa il presidente Donald John Trump come il campione del rifiuto dei sistemi politici che credono ancora nelle regole. Eppure, le nazioni sovrane non dovrebbero essere invase da un esercito straniero e chi lo fa deve (dovrebbe) pagare un prezzo, perché preferisce il «dispotismo orientale» (17), che disprezza il diritto internazionale.
È molto difficile tenere insieme tutto e soprattutto convincere le persone a farlo. L’Europa che respira a due polmoni, occidentale e orientale, ricomponendo la frattura dello scisma del 1054, oppure la Magna Europa, ovvero quell’Occidente che unisce l’Europa alle Americhe, cercando di superare l’altra grande ferita storica rappresentata dalla Riforma, sembrano concetti difficili da capire e realtà da amare, come anche il fatto che la pace non coincida con l’ideologia pacifista e che aumentare le spese militari non significhi essere guerrafondai.
Eppure, credo che a noi sia richiesto di tentare quest’opera di ricerca dell’unità contro le ideologie che si ripresentano minacciose e irrazionali tanti anni dopo il 1989, rifiutando giudizi affrettati e temerari, studiando i problemi invece di pensare di risolverli con slogan banali.
L’unità fra di noi
Attenzione infine a noi stessi. Il Giubileo sia l’occasione per confermare la bellezza e l’importanza dell’unità. L’unità non si ottiene attraverso un ragionamento, ma accogliendo la Rivelazione per l’autorità di Dio che si rivela. Il figlio di Dio ci ha invitato a costruire l’unità sulla persona del suo successore, assicurando che lo avrebbe assistito in modo speciale. Ecco perché il Papa è tanto importante: perché attorno alla sua persona si costruisce l’unità, nonostante sia un uomo.
Dobbiamo innanzitutto ringraziare di aver mantenuto la comunione con la Chiesa, dobbiamo farlo ringraziando Giovanni e don Pietro Cantoni per averci insegnato a essere fedeli sempre al Magistero del Pontefice, non di un Pontefice, ma del Magistero, come ben spiegato in quel suo libro importante e da studiare dedicato al magistero ordinario (18).
Siamo consapevoli di vivere in un «mondo in frantumi», molto più complesso di quello precedente il 1989, meno ideologico ma ancora più frammentato. Siamo consapevoli della complessità del mondo che ci circonda, delle tentazioni e della superficialità dei giudizi che vengono costantemente proposti da persone senza competenza e senza prudenza. Quindi, dobbiamo essere pazienti con noi stessi e con chi ci è vicino, ma anche fermi nel seguire la proposta associativa senza riserve mentali.
Cogliamo l’occasione del Giubileo anche per guardarci dentro. Il mondo non cambia se non cambiamo noi. Chiediamoci se vogliamo veramente un mondo migliore e se crediamo che questo sia il modo giusto e adatto di vivere la nostra santificazione.
L’unità e la generosità sono anzitutto un dono di Dio. Ma le desideriamo e le chiediamo? Qui sta il problema. È vero che viviamo in un mondo stanco, di cui subiamo quel senso di sfinimento che penetra dentro le comunità cristiane e dentro ciascuno di noi, manifestandosi come egocentrismo, come esagerata cura di sé o della propria famiglia, quasi come se la nostra dimensione umana terminasse sull’uscio di casa. È il «riflusso nel privato», nell’individualismo e nel consumismo esplosi negli Anni Ottanta, che colpiscono anche i cattolici: «Si osserva come le nostre comunità ecclesiali siano alle prese con debolezze, fatiche, contraddizioni. Anch’esse hanno bisogno di riascoltare la voce dello Sposo, che le invita alla conversione, le sprona all’ardimento di cose nuove e le chiama a impegnarsi nella grande opera della “nuova evangelizzazione”» (19). La dimensione missionaria è normalmente assente nella pratica pastorale delle comunità cristiane, per motivi diversi. Anzitutto perché vi è chi nega o nasconde l’unicità del valore salvifico di Cristo, che è il Salvatore e non una delle tante vie di salvezza, come spiega la Tradizione ininterrotta della Chiesa. Ma vi è anche chi non sente il bisogno e la necessità di quella che Papa Francesco chiama la «Chiesa in uscita», cioè protesa a portare il Vangelo a chi non lo conosce o lo ha dimenticato. Il senso della nuova evangelizzazione non è penetrato se non nei movimenti nati dopo il Concilio; normalmente non vi è la percezione che bisogna preoccuparsi degli uomini che non frequentano la Chiesa e che sono la stragrande maggioranza. La nuova evangelizzazione è anzitutto un desiderio del cuore prima che un progetto pastorale: nessuno sa veramente come si dovrebbe fare, ma il punto di partenza è desiderarlo.
Ritorno al passaggio precedente. Noi chiediamo di superare le difficoltà che abbiamo per compiere il nostro apostolato, oppure ci rassegniamo o addirittura ci va bene così? Infatti, Dio concede quel che chiediamo nella preghiera, se non ha altre intenzioni che ci sfuggono, ma lo fa con i suoi tempi e i suoi modi. Tuttavia, Dio «sposta veramente le montagne». Non dimentichiamolo e non smettiamo di sperare.
Note:
1) Cfr. Giovanni Cantoni (1938-2020), Risveglio anticomunista in difesa della fede e dell’Italia, Lettera aperta al cardinale Poletti, in Cristianità, anno III, n. 14, novembre-dicembre 1975, pp. 1-3.
2) Cfr. Plinio Corrêa de Oliveira (1908-1995), «Comunismi assortiti», in Cristianità, anno III, n. 13, settembre-ottobre 1975, pp. 1-2.
3) Cfr. Enzo Peserico (1959-2008), Gli anni del desiderio e del piombo. Sessantotto, terrorismo e Rivoluzione, Prefazione di Mauro Ronco, Presentazione di Marco Invernizzi, Sugarco, Milano 2008.
4) «La rottura tra Vangelo e cultura è senza dubbio il dramma della nostra epoca, come lo fu anche di altre» (Paolo VI, Esortazione apostolica «Evangelii nuntiandi», dell’8-12-1975, n. 20).
5) Cfr. Benedetto XVI, Lettera enciclica «Spe salvi» sulla speranza cristiana, del 30-11-2007.
6) Cfr. [Paolo VI,] La preghiera del Santo Padre Paolo VI per l’on. Aldo Moro, 13-5-1978.
7) Cfr. M. Invernizzi, San Giovanni Paolo II. Una introduzione al suo Magistero, prefazione di Livio Fanzaga S.P., Sugarco, Milano 2014.
8) «[…] da quando avvenne il noto attentato nella Piazza di san Pietro, un anno fa, al riprendere conoscenza, il mio pensiero si rivolse immediatamente a questo Santuario, per deporre nel cuore della Madre celeste il mio ringraziamento per avermi salvato dal pericolo. Ho visto in tutto ciò che stava succedendo — non mi stanco di ripeterlo — una speciale protezione materna della Madonna. E nella coincidenza — non ci sono semplici coincidenze nei disegni della divina Provvidenza — ho visto anche un appello e, chissà, un richiamo all’attenzione verso il messaggio che da qui partì, 65 anni orsono, tramite tre fanciulli, figli di umile gente di campagna, i pastorelli di Fatima, come sono universalmente conosciuti» (Giovanni Paolo II, Incontro con il vescovo di Leiria [Portogallo], 12-5-1982).
9) Cfr. gli articoli a commento di G. Cantoni, Dopo il Martedì Nero, coscienza della Grande Europa, in Cristianità, anno XXIX, n. 307, settembre-ottobre 2001, pp. 3-7 e p. 10, A proposito di Libertà Duratura, ibid., anno XXIX, n. 308, novembre-dicembre 2001, pp. 3-4, e Dopo il Martedì Nero, un passo verso il «reincanto» del mondo, ibid., anno XXX, n. 309, gennaio-febbraio 2002, pp. 3-4.
10) «Se non ricordo male, “popolo della sabbia” è una vecchia dizione pre-risorgimentale, che mi sembra venga citata da Giulio Bollati [1924-1996], a significare quella frammentazione che noi oggi chiameremmo molecolarizzazione, ma la cosa è la stessa. Proprio per il fatto che il “popolo della sabbia” è un popolo di solitudini — ogni granello per sé e Dio per tutti — in una società piena di contraddizioni, ansie e paure come la nostra, si impone il bisogno di collegamenti fra gli individui, un bisogno che non nasce solo da interessi o da identità, ma da un’esigenza di coagulo. E questa esigenza trova soddisfazione prima di tutto nel nucleo della famiglia, che finisce per essere aggregante anche nei confronti del granello più disperso in caso di bisogno. Nella famiglia si trova anche supporto finanziario, ma prima di tutto un luogo di accoglienza. La famiglia è una sorta di impasto di sicurezza finanziaria e di ovattazione emotiva che mantiene ancora oggi la sua sovranità» (Giacomo Bottos, Raffaele Danna e Lorenzo Mesini, Intervista a Giuseppe De Rita, in Pandora rivista, 22-6-2016, nel sito web <https://www.pandorarivista.it/articoli/intervista-giuseppe-de-rita/>, consultato l’8-5-2025.
11) Giovanni Paolo II, Esortazione apostolica postsinodale «Ecclesia in Europa», 28-6-2003, n. 8.
12) Cfr. per esempio Roberto Regoli, Oltre la crisi della Chiesa. Il pontificato di Benedetto XVI, Lindau, Torino 2016.
13) Cfr., benché non arrivi a coprire tutto l’arco di tempo del pontificato, il prezioso lavoro a cura di Mario Spezzibottiani (1952-2006), Giovanni Paolo II. Profezia per l’Europa, Piemme, Casale Monferrato (Alessandria) 1999.
14) Cfr. Giovanni Paolo II, Enciclica «Egregiae virtutis», 31-12-1980.
15) Cfr. Idem, Atto europeistico a Santiago di Compostela, 9-11-1982.
16) Cfr. Claudia Weber, Il patto. Stalin, Hitler e la storia di un’alleanza mortale. 1939-41, trad. it., Einaudi, Torino 2021.
17) Cfr. Karl August Wittfogel (1896-1988), Il dispotismo orientale. Il sistema di produzione asiatico: dalle origini al suo incontro con il capitalismo occidentale, trad. it., Pgreco, Milano 2013.
18) Cfr. Pietro Cantoni, Oralità e Magistero. Il problema teologico del magistero ordinario, D’Ettoris, Crotone 2014.
19) Cfr. Giovanni Paolo II, Esortazione apostolica postsinodale «Ecclesia in Europa», cit., n. 23.
