Oscar Sanguinetti, Cristianità n. 432 (2025)
1. L’enciclica
L’11 dicembre 1925 il pontefice Pio XI (1922-1939), a chiusura dell’Anno Santo, promulgava una enciclica, la Quas primas, dedicata alla regalità di Cristo e con la finalità contingente di mettere in guardia i fedeli contro i pericoli del laicismo, «peste dell’età nostra», istituendo con l’occasione la festa di Cristo Re dell’universo e prescrivendone la celebrazione a tutta la Chiesa (1).
Si tratta di un documento importante, unico per più di un aspetto e merita pertanto di essere ricordato, commemorato, ma anche riletto e opportunamente «metabolizzato», specialmente dai laici cristiani.
2. La Regalità di Cristo
Il tema di Gesù Cristo-Re era stato sempre al centro della riflessione — e, prima ancora, dell’iconografia — a partire dalle parole che il Redentore rivolge al governatore romano Ponzio Pilato nel fare quello che oggi, applicato in genere a cose assai meno nobili, viene definito un outing, cioè, dice chi è e afferma di essere re. Egli peraltro subito dopo soggiunge: «Regnum meum non est de mundo hoc» (Gv 18, 36), ovvero «il mio regno non è da questo mondo»: il «de» latino infatti non equivale a un genitivo, ma a un ablativo che esprime un complemento da luogo, di provenienza; non vuol dire cioè «non appartiene a questo mondo», non è limitato alla sfera temporale, bensì «non viene da questo mondo», cioè la sua origine non è intra-mondana ma ultraterrena, il che non esclude che esso si prolunghi nel tempo e nello spazio nella «pienezza dei tempi» che prelude alla discesa della Gerusalemme celeste.
Il titolo di «re» esprime in maniera compiuta e immediatamente percettibile da tutti il primato supremo e universale dell’Uomo-Dio. Già al momento del suo concepimento l’arcangelo Gabriele lo ha pronosticato re, in quanto discendente di Davide: «[…] et dabit illi Dominus Deus sedem David patris eius, et regnabit super domum Iacob in aeternum, et regni eius non erit finis» (Lc 1, 33). Ancora, il titolo della sua condanna, apposto sulla croce dove trova la sua morte, recita: «Iesus Nazarenus Rex Iudaeorum» (Gv 19, 19). E Gesù risorto stesso dirà di sé: «Data est mihi omnis potestas in caelo et in terra» (Mt 28, 18).
La voce Regalità di Gesù Cristo dell’Enciclopedia Cattolica,redatta da Paul Galtier S.J. (1872-1961), è estremamente esplicativa, pur nella sua concisione.
La teologia della regalità aveva già assunto rilievo nella seconda metà dell’Ottocento, intrecciandosi con la più antica devozione al Sacro Cuore di Gesù. Grazie allo zelo del sacerdote francese Henri Ramiére (1821-1884) era sorto un vero e proprio movimento nella Chiesa volto ad approfondire questo aspetto della cristologia e a farne un elemento devozionale a supporto dell’apostolato inteso alla restaurazione di una società cristiana, cioè una società che riconoscesse che «non est enim potestas nisi a Deo; quae autem sunt, a Deo ordinatae sunt» («non c’è autorità se non da Dio e quelle che esistono sono stabilite da Dio»; Rm 13, 1) e si comportasse di conseguenza. Nel mutato contesto successivo alla Riforma protestante e alla Rivoluzione francese la cristianità — l’insieme dei popoli retti dai princìpi cattolici — era stata prima lacerata e poi rinnegata e un intento restauratore — pur con diverse sfumature dottrinali e opzioni operative — animava l’intero mondo cattolico, dai pontefici all’ultimo laico impegnato. Una delle mete di tale movimento era stata l’istituzione di una memoria liturgica specifica: «L’istituzione della festa di Cristo Re — scrive lo storico spagnolo monsignor Vicente Cárcel Ortí — era stata promossa nel 1899 dal gesuita di origine sarda Giammaria Sanna Solaro (1824-1908); poi fu ripresa da Papa san Pio X (1903-1914) e sostenuta, soprattutto, da Marie-Marthe-Émile Tamisier (1844-1910) in numerosi congressi eucaristici, e affidata dopo la prima guerra mondiale a Georges de Noaillat [1874-1948], dirigente della Societé du Règne Social de Jésus-Christ. Durante tale guerra vi fu un’esaltazione “nazionalista” della devozione al Sacro Cuore di Gesù, ma vi furono anche reticenze da parte di Papa Benedetto XV (1914-1922) e un cambiamento di mentalità dopo il conflitto» (2).
3. Dottrina sociale e regalità
La teologia della regalità è parte integrante della dottrina sociale della Chiesa, la quale, come si è spesso omesso di rammentare, comprende anche quella che i sociologi chiamano la «società politica», ovvero descrive le caratteristiche e i limiti morali cui una architettura politica deve conformarsi. La finalità ultima di tutta la dottrina sociale cattolica — cioè, la «morale sociale», proiezione nella dimensione collettiva della morale individuale —, la cui prima elaborazione sistematica risale a Papa Leone XIII (1878-1903), è di fornire uno schema dottrinale di riferimento e una traccia operativa all’azione restauratrice dei cristiani. La Chiesa capiva che la società non era già più una società cristiana e che molti dei progetti inerenti al bene comune che si contendevano l’egemonia nel nuovo contesto pluralistico-culturale erano intesi a costruire una società in cui era cancellata l’impronta cristiana impressavi dieci secoli prima, a partire dall’incoronazione di Carlo Magno (742-814), anzi in cui si desiderava che la comunità civile fosse fondata su quello che più tardi Papa san Giovanni XXIII (1958-1963) avrebbe chiamato l’«Antidecalogo» (3). Ovviamente, questo progetto non coincideva con la restaurazione della monarchia di diritto divino e assoluta che la Rivoluzione francese aveva cancellato, come pensavano alcuni fra i primi contro-rivoluzionari, bensì mirava al ristabilimento di un’impronta cristiana sulla vita della società naturale e il ripristino di questa nelle parti che erano state lesionate dal processo rivoluzionario: ricuperare e definire questa impronta sarà il contributo della scuola di pensiero contro-rivoluzionaria dell’Ottocento, che in buona misura si trasfonderà nel magistero socio-politico di Papa Pecci.
La dottrina sociale della Chiesa non persegue scopi direttamente temporali ma vuole definire — per spingere chiunque ad attuarlo — il bene comune, ovvero un insieme di condizioni, private e pubbliche, atte a favorire la vita virtuosa in comunità, cioè tali da permettere il libero esercizio della religione e da ostacolare tutte quelle forze che cooperano per degradare moralmente il corpo sociale. Essa è nemica di ogni teocrazia, discerne e distingue rigorosamente — ma non separa, né contrappone — la sfera religiosa dalla sfera civile. La sua radice è genuinamente spirituale, ma per salvaguardare tale dimensione non può non mettere le mani nella «pasta» della società civile.
Così intesa la dottrina sociale della Chiesa batte in breccia ogni prospettiva laicistica, sia essa «moderata», come nei liberali e nei nazionalisti, oppure radicale, come nei «democratici», oppure ancora attivamente ostile, come nei socialisti e nei comunisti.
La dottrina della regalità sociale vuole solo, per usare una metafora, migliorare la mira dell’obiettivo, definire meglio, alla luce della teologia, i contorni del concetto di autorità.
La Chiesa è sostanzialmente indifferente alle forme di Stato e di governo: al tempo di Papa Pio XI l’opzione preferenziale per la democrazia fra i cattolici è ancora patrimonio solo dei popolari e dei modernisti sociali, la corrente erede del «secondo» Félicité Lamennais (1782-1854) e allora soprattutto espressa dalla filosofia politica di don Romolo Murri (1870-1944), cioè di ambiti ancora ristretti del mondo cattolico. In questa visione dell’impegno politico la democrazia è una opzione enfatizzata oltre ogni limite ed esclude di principio le altre forme politiche. Con la Grande Guerra sono da poco crollati regimi monarchico-imperiali a «basso tasso di democrazia» — o, rectius, di «democrazia temperata» — e negli anni 1920, quando Pio XI pubblica il suo documento sulla regalità, regimi autoritari nascono, per ragioni dissimili, un po’ in tutta Europa, dall’Italia alla Germania, dal Portogallo all’Austria, dalla Spagna all’Europa centrale (4). E la Chiesa non li condanna, discernendo al loro interno e accertando se, al di là delle forme, essi garantiscano un perseguimento del bene comune accettabile o, comunque, migliore di quello garantito da tipi di regime alternativi.
Favorendo la teologia della regalità di Cristo, la Chiesa insiste sulla necessità per i cristiani di costruire modalità di vita in comune dove, nelle forme appropriate e fatto salvo il principio di tolleranza, non solo vi sia conformità alla legge naturale, ma anche si rispetti il principio dell’origine divina della sovranità, con l’aggiunta che «divina» per i cattolici è l’adorabile persona del Salvatore.
Le tesi dell’enciclica Quas primas scandalizzerebbero, se le leggesse, il fedele medio di oggi — taccio del clero —, abituato da secoli a concepire la sfera pubblica e la sfera religiosa non soltanto come distinte, ma come separate e talora contrapposte. La seconda è oggi ridotta alla sfera privata e il cristiano, nella migliore delle ipotesi, è un personaggio impegnato a «mediare» ininterrottamente, non fra possibili soluzioni a un dato problema comune, bensì fra l’errore e la verità a riguardo.
Oggi dire che Cristo ha il diritto di reggere i popoli non solo per «diritto di conquista», grazie alla sua dolorosa morte sulla Croce, ma anche in virtù della sovra-eminenza della sua persona, che coincide con la divinità che non si vede e la riverbera, la rende visibile e comprensibile all’uomo, lascerebbe perplessi non solo molti teologi, ma anche parecchi pastori e fedeli. Ripetere oggi che Egli è il vero monarca supremo anche in senso terreno, anche se, per sua libera scelta propria, esercita la sua sovranità attraverso la mediazione dei poteri umani legittimi, e che quindi qualunque collettività lo deve riconoscere tale sarebbe non poco scioccante.
Eppure, la teologia retrostante al magistero di Pio IX in questo senso è chiarissima e consequenziale. Naturalmente va compresa e contestualizzata e la prima modalità per farlo è ricordare che il Papa ha davanti ai suoi occhi in primis il regime sovietico, dove Vladimir Il’ič Ul’janov «Lenin» (1870-1924) è appena morto e gli è succeduto Iosif Vissarionovič Džugašvili «Stalin» (1878-1953). Sicuramente il totalitarismo comunista prenderà la sua configurazione piena con il regime nazional-bolscevico stalinista. Tuttavia, nel 1925 sono già nati il GuLag, il sistema concentrazionario, la Ceka, la polizia politica segreta, i kolkoz collettivisti. Quindi l’Italia, dove il governo mussoliniano sta per trasformarsi in regime dittatoriale, e la inquieta Germania di Weimar, dove due anni prima Adolf Hitler (1889-1945) ha tentato un colpo di Stato. E ancora il Messico, dove il governo massonico e plutocratico sta schiacciando la Chiesa e i cattolici, e i Paesi centro-europei, nati a Versailles, preda del nazionalismo revanscista, dove crescono le tendenze filo-autoritarie. Ma anche democrazie come la Francia, dove la concentrazione del potere in mani laiciste fin dall’inizio del secolo ha creato gravi difficoltà alla missione della Chiesa.
4. Percorso storico dell’idea
Nella storia dell’Occidente cristiano, in particolare nella monarchia francese e nel Sacro Romano Impero, la distinzione fra potere regale di Cristo e potere del re terreno è sancita dal rito di origine veterotestamentaria della consacrazione e dell’unzione, un «sacramentale» — non un sacramento —, benedizioni, aspersioni, imposizioni, che esprimono la legittimazione spirituale e morale del sovrano terreno da parte del potere sacrale, nonché «certificano» la delega a lui conferito dal «Re dei re». Questo atto non «clericalizzava» il sovrano, bensì riconosceva nel suo ministero totalmente temporale un carattere indirettamente sacrale, che lo vincolava a collaborare con l’ordine spirituale governato dalla Chiesa, specialmente nelle cosiddette «materie miste», come per esempio l’unione coniugale (5).
L’idea che su ogni individuo, ma anche su ogni società umana, regni e debba regnare il Redentore viene a coronare un lungo percorso dottrinale e «apre» a forme di riconoscimento della sovranità divina non solo limitate a tale riconoscimento e a percorsi di «ascetica» sociale, ma anche a gesti quasi «mistici», cioè unitivi, che hanno avuto il loro culmine nelle consacrazioni di singoli Paesi a Cristo o alla Vergine. L’esempio più compiuto di tali gesti di unione è stata la consacrazione al Sacro Cuore di Gesù dell’Ecuador, operata dal presidente della Repubblica andina Gabriel Gregorio García y Moreno y Morán de Buitrón (1821-1875) nel 1873. Un gesto che san Giovanni Paolo II ha ripetuto poco più di cento anni dopo, il 30 gennaio 1985, durante la sua visita apostolica nel Paese andino.
Anche storicamente l’idea della regalità umano-divina di Cristo ha precedenti solenni. Il Sacro Romano Impero, infatti, è stato il tentativo umano più nitido di costituire un’autorità e un potere supremi e universali che si ponessero, in analogia al Vicario di Cristo, fra questi e la famiglia di quei popoli che mettevano al centro della vita pubblica la fede cristiana, e che cooperassero a diffondere quest’ultima e a difenderla in tutto l’orbe terracqueo, nonché evitasse o riducesse, dirimendoli, i conflitti fra i principi cristiani, assicurando quindi il dono della pace. Quello del Sacro Impero è stato un ideale, un disegno, uno sforzo, forse un sogno, storicamente appassito per la forza invincibile del peccato di origine. Già dopo la nuova divisione fra pars occidentis e pars orientis che si verifica dopo la morte di Carlo V d’Asburgo (1550-1558) esso inizia a impallidire e a declinare. La spaccatura che avviene in Europa con la «rivolta protestante» e con le guerre di religione segna l’ora del suo tramonto. Ufficialmente l’Impero sacro e romano si estingue nel 1806 quando l’ultimo titolare della Corona di Carlo Magno, Francesco II di Asburgo-Lorena (1768-1835), depone le insegne imperiali, scioglie dall’omaggio i prìncipi vassalli e sopprime il titolo per evitare che Napoleone I (1760-1821) se ne appropri.
L’idea della regalità anche sociale del Signore perde tuttavia presto il riferimento a un regime politico storico vero e proprio — cioè, alla cristianità medioevale e all’instabile involucro sacro e imperiale delle varie cristianità — e pure come ideale da perseguire conosce una graduale eclisse, anche se mai si estingue. I regimi in cui si rinviene, sebbene sempre più esile e pallida impronta di cristianità, ovvero Stati che riconoscano in qualche modo la regalità del Signore nelle proprie istituzioni, finiscono con quell’ordine che ormai comunemente — anche se con grave torsione semantica — è chiamato «antico regime». Per l’Italia il terminus ad quem coincide con la scomparsa dell’ultimo principato pre-unitario, ovvero — se escludiamo quell’unicum che fu lo Stato della Chiesa — fino a quando la bandiera con i gigli viene ammainata dagli spalti della fortezza borbonica di Civitella del Tronto (Teramo), nel marzo del 1861, dopo che è stata proclamata l’Unità. Allora risuonerà per l’ultima volta il «Viva o’ Re!» dei fedeli fanti e artiglieri di Francesco II (1836-1894). Poi brandelli di regalità cristiana rimangono nelle monarchie formalmente cattoliche di Spagna, Belgio, Portogallo e Brasile.
Tuttavia, anche nella filosofia politica cattolica l’idea di una sovranità universale al servizio della verità cattolica tramonta di fronte al fatto compiuto del trionfo degli Stati nazionali e dei regimi liberali e democratici, anche se mai i Papi ebbero qualcosa da eccepire nei riguardi di Stati in forma imperiale, specialmente verso l’Austria-Ungheria, retta ancora dagli Asburgo ed erede di fatto del Sacro Impero. In Italia, l’idea rimase nel patrimonio di principi e valori che animava il cattolicesimo intransigente, almeno fino ai Patti Lateranensi; altrove, quando trionfava un nazionalismo che contaminava anche gli ambienti monarchici e conservatori, in ristretti ambiti intellettuali.
La dottrina dell’enciclica di Papa Pio XI però penetra fra il laicato cattolico in maniera diffusa anche se impercettibile e transeunte. Lo si nota studiando il fenomeno della rivolta popolare cattolica che scoppia in Messico fra il 1926 e il 1929. Qui, costretti dalla politica del governo massonico, duramente ostile al cattolicesimo, e in conseguenza di una condotta equivoca delle autorità religiose e laicali, che porterà alla chiusura delle chiese, i cattolici, sia delle città che delle campagne, scateneranno un conflitto armato che durerà tre anni, porterà gli insorti vicini a rovesciare il governo anticlericale, ma li vedrà alla fine sconfitti e, dopo una resa imposta da accordi intessuti sulla loro testa dai vescovi e da Roma e accettata da loro con il cuore spezzato, decimati dalle vendette del nemico. Tutta l’insurrezione e tutta la resistenza dei cattolici delle città e aree rurali messicane di quegli anni 1920 saranno combattute al grido di «Viva Cristo-Re!». E tanti saranno i cattolici, intellettuali, preti e contadini, a lanciare quest’ultimo grido di battaglia prima di essere falciati dal piombo dei plotoni di esecuzione dei soldati federali.
Tuttavia, il declino dell’ideale della regalità sociale di Cristo è irreversibile. Aleggerà, comunque, in più di un ambiente conservatore, e persisterà nel Magistero, almeno fino al venerabile Papa Pio XII (1939-1958): questi, pur condividendone con tutta evidenza l’animus, vi farà frequente riferimento, ma, forse condizionato dal trionfo di regimi liberal-democratici dopo il secondo conflitto mondiale, vi farà un riferimento implicito, come nel brano: «Civiltà [quella cristiana] che, lungi dal portare ombra o pregiudizio a tutte le forme peculiari e così svariate di vivere civile nelle quali si manifesta l’indole propria di ciascun popolo, s’innesta in esse e vi ravviva i più alti princìpi etici: la legge morale scritta dal Creatore nei cuori degli uomini (Cf. Rom., 2,15), il diritto di natura derivante da Dio, i diritti fondamentali e la intangibile dignità della persona umana» (6).
Un luogo dove fra le due guerre mondiali questa dottrina conosce una rinascita è, alquanto paradossalmente — in quanto da lì verranno prima i teorici del clerico-fascismo e poi molti dirigenti della Democrazia Cristiana —, l’ambiente della neonata Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, dove, nel clima culturale creato dal fondatore Agostino Gemelli O.F.M. (1878-1959), nel 1929 la beata Armida Barelli (1882-1952) dà vita a una Opera della Regalità di Nostro Signore Gesù Cristo, intesa a promuovere pubblicazioni e iniziative spirituali in questa prospettiva.
La Barelli, che nel 1949 cade irrimediabilmente malata, scriverà prima di morire: «Accetto la morte, quella qualsiasi che il Signore vorrà, in piena adesione al volere divino, come ultima suprema prova d’amore al Sacro Cuore, di cui mi sono fidata in vita e voglio fidarmi in morte; e come ultima suprema preghiera per ciò che nella mia vita fu il sogno costante: l’avvento del Regno di Cristo quaggiù».
Sarà comunque una rinascita fortemente sbilanciata sulla spiritualità, mentre, contemporaneamente, nello stesso ateneo cattolico prevarranno ben altre declinazioni della dottrina sociale della Chiesa.
Nel secondo Novecento, l’idea della regalità rimarrà centrale nel patrimonio culturale dell’area, sempre più ristretta, del tradizionalismo, sconfitto dal prevalere nel mondo cattolico di teologie basate su premesse che escludevano buona parte del retaggio del passato. Il riferimento alla regalità si farà via via più tenue a misura della secolarizzazione del mondo e della penetrazione dell’ideologia pan-democratica nel pensiero cattolico e fra i cristiani impegnati nel sociale.
Di Cristo-Re nelle omelie e nelle pubblicazioni cattoliche non si parlerà più, oppure se ne darà una lettura ridotta a mera affermazione del regno di Cristo sulle singole anime, tralasciando totalmente le ricadute di esso nella dimensione pubblica e civile.
Il Concilio Ecumenico Vaticano II (1962-1965) rilancerà il tema dell’animazione cristiana della società temporale, letta non come mero «supplemento d’anima» per sanare le angosce di un mondo laico sempre più senza Dio e che procede per la sua strada, bensì come rievangelizzazione della società per restaurarvi la signoria di Cristo. Ma il suo dettato in materia, come in altre materie, rimarrà poco coltivato, per dire il meno. Anzi, da allora partirà una inversione di segno del valore della regalità sociale, accusata di «integralismo», vista come affronto al pluralismo — l’idea della regalità di Cristo si scontra in effetti frontalmente con il dogma della sovranità popolare e con lo Stato ideologicamente pluralista, creato dalla Rivoluzione francese — e alla multi-culturalità del mondo contemporaneo, valori considerati, a torto, «più cristiani» dell’idea di Cristo-Re.
5. Oggi
Oggi la festa di Cristo Re, istituita in sincronia con la Quas primas, fa ancora parte del calendario liturgico, ma quando viene celebrata di norma il suo senso pieno non viene più ricordato e ci si limita nelle omelie a un blando richiamo alla signoria di Cristo sui cuori, come se questa non sia scontata e richieda una festa a parte. Inoltre, è stata spostata all’ultima domenica dell’anno liturgico, in novembre.
Note:
1) Cfr. Pio XI, Lettera enciclica «Quas primas» sulla Regalità di Cristo, dell’11-12-1925.
2) Monsignor Vicente Cárcel Ortí, Martiri del secolo XX al grido di «Viva Cristo Re!», in Cristianità, anno XXVI, n. 283-284, novembre-dicembre 1998, pp. 7-10 (p. 7).
3) San Giovanni XIII, Radiomessaggio natalizio, 22-12-1960.
4) Per una felice descrizione e tipologia comparativa dei regimi autoritari e dei regimi totalitari cfr. Juan José Linz (1926-2013), Fascismo, autoritarismo, totalitarismo. Connessioni e differenze, trad. it., Ideazione, Roma 2003; e Sistemi totalitari e regimi autoritari. Un’analisi storico-comparativa, trad. it., introduzione di Alessandro Campi, Rubbettino, Soveria Mannelli (Catanzaro) 2013.
5) Wikipedia contiene una voce Incoronazione del monarca francese ricchissima di riferimenti e di bibliografia sul tema, per cui, vincendo le riserve sull’uso di citare da quella fonte, ritengo opportuno il rimando a essa.
6) Pio XII, Radiomessaggio nel V anniversario dall’inizio della guerra mondiale, 1°-9-1944.
