Come è ormai universalmente noto, la guerra psicologica rivoluzionaria è spesso più importante della guerra guerreggiata. Della aggressione propagandistica socialcomunista sono bersaglio continuo i combattenti cristiani libanesi. Per sostenere la loro battaglia nell’unico modo che ci è concesso, oltre alla preghiera, ospitiamo una intervista al comandante delle Forze Libanesi Unificate, Bashir Gemayel, diffusa dal Comitato per la Libertà dei Cristiani Libanesi. A completamento delle tesi esposte rimandiamo alla precedente intervista apparsa in Cristianità, anno VI, n. 43, novembre 1978.
Una nuova intervista al comandante delle Forze Libanesi Unificate
Insinuazioni calunniose contro la resistenza cristiana in Libano
Recentemente la stampa italiana è tornata a occuparsi del Libano in occasione di quella che e stata maliziosamente definita la «guerra tra cristiani» (1) e, ultimamente, prendendo spunto da un’intervista rilasciata da uno dei capi dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), precisamente dal braccio destro di Arafat, tale Abu Ajad, apparsa sul Corriere del Ticino del 19-9-1980 e riportata da molti organi di stampa italiani, nella quale si lanciano pesanti accuse contro i Kataeb e contro le Forze Libanesi Unificate, indicate come responsabili dell’addestramento militare di terroristi cosiddette di «destra» e in qualche modo implicate nella strage di Bologna. A proposito di questi due avvenimenti – che forse possono apparire di scarsa importanza rispetto a quelli più drammatici che si verificano sulla scena internazionale, ma che rimangono comunque significativi ed esemplari, perché vedono una popolazione cattolica impegnata nella difesa della propria indipendenza e della propria libertà – siamo tornati a porre delle domande a Bashir Gemayel, comandante del consiglio militare del Kataeb e delle Forze Libanesi Unificate.
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D. – Anche se la stessa stampa progressista e socialcomunista non ha dato troppo credito alle accuse, che vi sono state portate, di complicità nella strage di Bologna e di addestrare terroristi europei nel vostro paese, crediamo sia ugualmente utile spendere qualche parola su questo argomento.
R. – «Calunnia, calunnia, qualcosa resterà» sosteneva Voltaire, anticipando così una delle regole costanti della guerra rivoluzionaria psicologica: noi abbiamo già categoricamente smentito la presenza di terroristi europei nei nostri campi, ma credo che saremo ancora costretti a farlo in numerose altre occasioni, finché le armi della calunnia e della menzogna continueranno a essere utilizzate dai nemici dei cristiani libanesi. Il Libano è un paese sconvolto dalla presenza di 600 mila palestinesi armati e dall’esercito invasore siriano, e mantiene la sua indipendenza soltanto grazie alla eroica resistenza, politica e militare, dei cristiani organizzati nelle Forze Libanesi Unificate.
Questa resistenza, miracolosa e nello stesso tempo insopportabile per i nemici del Libano, verrà sempre fatta oggetto di ogni sorta di attacchi calunniosi e menzogneri da parte palestinese e siriana, proprio perché in essa incontrano l’ostacolo, finora insormontabile, che ha impedito di raggiungere i loro scopi. Ogni mezzo per indebolire questa resistenza verrà continuamente utilizzato e, non riuscendo a scalfirla con metodi politici o militari, ecco che periodicamente ritornano le calunnie e le menzogne per screditarla davanti all’opinione pubblica libanese e internazionale. Comunque, il minimo che si possa dire in proposito, è che gli uffici aperti dalle Forze Libanesi Unificate in Europa hanno cominciato a disturbare seriamente i nostri avversari che, implicitamente, riconoscono i progressi registrati dal problema libanese sulla scena europea, sulla quale sono stati compiuti notevoli sforzi perché venisse compreso in tutte le sue componenti.
D. – Oggi lei è «l’uomo forte» dei cristiani libanesi. A trentatré anni, come è riuscito a eliminare i rivali e a occupare questa posizione chiave?
R. – Trentatré anni è l’età del sacrificio e non ancora quella in cui si cominciano a coltivare le ambizioni. Infatti, finché il territorio libanese rimane occupato da forze straniere e finché si tratta essenzialmente di liberarlo, nessuno di noi ha il diritto di nutrire ambizioni, e il senso nazionale più elementare impone ai miei compagni e a me di soffocarle e di serrare le file.
A questo si giunge, credetemi, con l’esercizio di una certa ascesi interiore. Noi desideriamo soprattutto rompere con quello spirito – che è uno degli aspetti del dispotismo orientale, ereditato forse dall’impero ottomano -, consistente nel guardare la cosa pubblica solo nell’ottica dei propri interessi personali e, al limite, nel confondere il tesoro pubblico con le proprie tasche.
Parlare di eliminazione di rivali in senso proprio è macchiavellismo malevolo. Le circostanze hanno fatto sì che io sia, in questo momento, comandante in capo delle forze libanesi, ma che sia io o un altro non ha nessuna importanza.
D. – Come considera l’evoluzione delle vostre relazioni con il Partito Nazional-Liberale di Camille Chamoun, le milizie del vecchio presidente Frangie o i Guardiani del Cedro?
R. – Lasciamo da parte le milizie del presidente Frangie, costituite esclusivamente, oggi come oggi, dai membri del suo clan e immerse in una guerra di vendetta di tipo bestiale. Gli altri partiti libanesi, P.N.L., Guardiani del Cedro, Kataeb, sono fondamentalmente legati dalla stessa causa, quella di liberare il territorio nazionale dai suoi occupanti stranieri, di restaurare la sovranità dello Stato, di ristrutturare i rapporti tra le differenti componenti della nazione libanese. In quanto comandante in capo delle forze libanesi, io resto sottomesso all’autorità politica assunta per la resistenza dal Fronte Libanese presieduto da Camille Chamoun, che è, d’altra parte, nello stesso tempo, il capo del P.N.L., partito che noi siamo accusati di aver voluto eliminare dalla scena politica. Infatti, l’operazione che abbiamo intrapreso il 7 luglio ha avuto un obiettivo estremamente limitato: eliminare i fautori di discordie tra i combattenti che la pusillanimità dei partiti, da cui essi dipendevano, ci impediva di perseguire, poiché nessun partito politico voleva sconfessare i suoi membri. Ormai, i combattenti, a qualsiasi partito essi appartengano, dipenderanno direttamente dall’autorità militare riconosciuta dall’alto comando delle forze libanesi.
Questa istanza potrà e dovrà ormai rispondere di ogni abuso suscettibile di essere commesso tra la truppa. Ce ne corre dall’idea di stabilire un regime militare nella zona liberata. Il libanese è visceralmente amante della libertà e saprebbe tollerare meno di chiunque altro al mondo che sia portata offesa alle sue libertà. Chiunque tenterà di instaurare un regime totalitario in Libano sarà immediatamente respinto. I miei compagni e io abbiamo voluto mettere ordine nel paese e riorganizzare le truppe: nonostante ciò non ci riteniamo padroni del territorio. Il potere resta nelle mani delle autorità civili.
D. – Credete a una possibile coesistenza con le milizie palestinesi dell’OLP?
R. – Quale paese al mondo accetterebbe che il suo territorio fosse lasciato in balia di milizie armate straniere, tanto più che, nella fattispecie, queste vogliono dettare legge nella nostra vita pubblica? Essi sono riusciti a fare del Libano il centro internazionale del terrorismo e della sovversione. Nei campi palestinesi del Libano si sono formate, per esempio, le Brigate Rosse italiane, così come è appena stato rivelato nel processo a carico di uno dei loro dirigenti; sappiamo da tempo che le armi destinate a tutti i terroristi d’Europa e d’America sono convogliate a partire dai porti che i palestinesi hanno aperto e controllano nel Libano occupato. L’idea di una coesistenza con le milizie dell’OLP è in antinomia con la sovranità del nostro Stato, che essi, d’altra parte, sono riusciti ad atrofizzare, e di cui vorremmo restaurare le strutture. Ciò non si potrà fare finché non si mette fine all’anarchia instaurata dai palestinesi.
D. – La nozione di «separazione» di fatto non è incompatibile con l’idea di un Libano unito, così ardentemente difeso da suo padre, il fondatore dei Kataeb?
R. – Il termine «separazione» di fatto non ha nessun significato. Vi è un territorio libero che controllano le forze libanesi. Al di là si stende il territorio occupato dalle forze palestinesi e siriane. Il giorno in cui riusciremo a buttarli fuori dalle frontiere internazionali del Libano, non ci sarà più alcuna «separazione». È questo ciò che voi volevate sentirmi dire?
D. – Una soluzione del problema libanese con la forza non la spaventa?
R. – Sapete molto bene che noi siamo stati trascinati nella guerra malgrado noi stessi. Il giorno in cui le forze palestinesi hanno messo in esecuzione le esortazioni dei loro capi, secondo cui la strada per Tel Aviv passa attraverso la conquista delle regioni cristiane, si sono gettate su di noi. Dicevo recentemente a un gruppo di parlamentari europei, che ci sono venuti a trovare, quanto sia stato penoso trasformarsi da un giorno all’altro in combattenti. Niente è più odioso della guerra, con il suo corteggio di sofferenze e di sciagure: noi siamo i più qualificati a saperlo, dopo sei anni da che vi siamo immersi. È augurabile che i palestinesi accettino di ritirarsi dal territorio libanese, senza ulteriore spargimento di sangue.
D. – Si può supporre che la vostra situazione divenga un giorno disperata sul campo e che voi siate sul punto di subire la legge dell’avversario più numeroso. Non pensereste allora, come extrema ratio, di domandare l’aiuto di Israele, come fa oggi il maggiore Haddad, «recuperato» dallo Stato ebraico?
R. – Non penso che il maggiore Haddad abbia accettato di lasciarsi «recuperare» dallo Stato di Israele: doveva lasciarsi occupare dai palestinesi? Il giorno in cui, per la prima volta, è stato costretto a inviare i suoi feriti per essere curati tn territorio israeliano, aveva la possibilità di scegliere? Sarebbe stato più patriota lasciando morire questi feriti, oppure continuando a far loro attraversare, con le ambulanze, le linee occupate dai palestinesi?
Ho risposto sufficientemente alla vostra domanda?
D. – I tragici avvenimenti del 1976 sono ancora nella memoria di tutti. Voi non occupavate una posizione di forza prima dell’intervento decisivo dell’esercito siriano. Non temete una nuova avventura di questo tipo?
R. – Quando si lascia correre la propria immaginazione, si può temere tutto, anche l’Apocalisse. Ciò nonostante bisogna incrociare le mani e, attendendo, subire la legge dell’aggressore?
D. – Come giudicate l’attuale presenza siriana in Libano?
R. – Che le forze siriane nel Libano siano diventate, alla lunga, una forza di occupazione, i siriani stessi non lo nascondono, e questa è una delle ragioni per cui hanno cominciato il loro ritiro dal Libano, ritiro che sembrano voler ultimare al più presto.
D. – Crede alla possibilità di un governo di unione nazionale, come lo desidera il presidente Sarkis?
R. – Abbiamo lealmente operato per la formazione di un governo di unione nazionale e insisteremo sulla stessa via non appena i nostri compagni dall’altra parte smetteranno di farci il processo alle intenzioni. Siamo sinceramente persuasi che la salvezza può venire solo dall’unione di tutte le forze vive della nazione. L’obiettivo di un tale governo deve essere, essenzialmente, quello di agire in vista della liberazione del territorio dai suoi occupanti palestinesi e siriani.
La partita è dura e necessita della partecipazione di tutti i libanesi cristiani e non cristiani alla lotta contro l’occupante. Già i mussulmani sciiti – che sono direttamente vittime dell’occupazione palestinese nel sud del Libano, nella zona a sud di Beirut e nella Bekaa, tutte regioni a predominanza sciita – hanno cominciato a scuotere il giogo palestinese. Gli scontri tra il movimento Amal composto essenzialmente da sciiti, e i palestinesi, si moltiplicano. La resistenza all’occupante sarà il miglior cemento dell’unione dei libanesi di ogni confessione. A quel punto, che importa la formula giuridica che sarà trovata per ristrutturare lo Stato – federazione o no -, quando l’unità delle diverse componenti della nazione libanese sarà stata raggiunta sul terreno?
a cura del Comitato per la Libertà dei Cristiani Libanesi
C.P. 14004 – Milano
Note:
(1) Cfr. Relazioni Internazionali, anno 44, n. 29, 19-7-1980, p. 674.