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Toni Negri e la rivoluzione come redenzione

30 Giugno 2025 - Autore: Salvatore Calasso

Salvatore Calasso, Cristianità n. 433 (2025)

La morte di Antonio Negri, detto Toni (1933-2023), avvenuta a Parigi il 16 dicembre 2023, ha offerto l’opportunità di analizzare e comprendere meglio la figura di un intellettuale di sinistra che ha inciso in modo non marginale sulle idee rivoluzionarie in Italia e all’estero, soprattutto negli Stati Uniti d’America, grazie alla collaborazione con il filosofo politico statunitense Michael Hardt con il quale ha scritto una tetralogia in cui il fenomeno della globalizzazione viene letto in chiave rivoluzionaria (1). Oltre e contro le istituzioni vigenti, essi propongono una governance globale, senza Stato, fondata sulla libertà e sulla democrazia diretta della moltitudine. È una versione «globalizzata» della lotta di classe, che per gli autori è sempre il motore della storia.

Toni Negri nasce a Padova il 1° agosto 1933, ultimogenito di tre figli. In un’intervista così descrive la sua famiglia: «Io vengo da un’espe­rienza assai specifica che è quella di una famiglia laica nel Veneto, una famiglia di origini emiliano-lombarde, mia madre è mantovana e mio padre è bolognese, piccoli proprietari terrieri fascisti la famiglia di mia madre e comunisti quella di mio padre, famiglia di operai. Mio padre è morto quando avevo due anni, era un comunista che era stato perseguitato a lungo per questa tradizione, mia madre era praticamente neutrale dal punto di vista politico; la tradizione comunista me l’ha insegnata mio nonno con il quale ho vissuto parecchio a Bologna» (2).

Nel 1956 si laurea in filosofia con una tesi intitolata Saggi sullo storicismo tedesco. Dilthey e Meinecke. Nel 1958 è nominato libero docente dell’Istituto di Filosofia del diritto della facoltà di Giurisprudenza dell’ateneo patavino e nel 1967 ottiene la cattedra di filosofia politica presso la facoltà di Scienze Politiche, diventando poi direttore dell’Isti­tuto di Dottrina dello Stato. Con spregiudicatezza converte questo Istituto in un centro per la lotta di classe. Il politico socialista Gianni De Michelis (1940-2019), in un’intervista del 2002, ha parlato di «[…] una specie di 1968 prima del 1968; alcuni anni prima del 1968 Toni Negri cominciò a organizzare il lavoro studentesco clandestino, così clandestino che nessuno se lo ricorda più, perché il contesto interno non era favorevole, ma che gettò le premesse all’esplosione che portò, con il 1968, alla nascita di cose che oggi sono molto più note: “Lotta Continua”, “Potere Operaio” e così via» (3).

Il suo modo di essere in università è descritto dalla storica ed economista Rita Di Leo: «Nel 1973-1974, quando ero assistente all’Univer­sità di Padova, lui era il direttore dell’Istituto di Dottrina dello Stato. Si entrava da lui solo bussando. C’era un pulsante e decideva lui se ricevere o non ricevere. Questo vi deve essere chiarissimo. Tutto quello che è poi stato fatto, detto ecc. non vi deve offuscare le idee sul personaggio. Lui era un vero barone universitario, di grandissima levatura intellettuale, profondamente inserito nel contesto della sua città; una città avvolgente, Padova, con tutte le sue caratteristiche; aveva sposato un membro di una importantissima famiglia veneziana, viveva in una casa bellissima. Lui era prima di tutto questo» (4). Dunque, un intellettuale immerso nelle proprie idee rivoluzionarie, che però non disdegna l’atteggiamento elitario e borghese che voleva combattere. Secondo il sociologo Romano Alquati (1935-2010), Negri «[…] parlava del “lavoro culturale” come faccenda di tattica, una specie di copertura necessaria» (5) per la rivoluzione, ma viveva in modo agiato: «[…] stetti un mese a casa di Toni, con la cuoca che mi faceva da mangiare. L’appartamento era al centro della città, con il terrazzo che dava sul Duomo e sulla piazza delle Erbe. Erano anni che non facevo una vita così di lusso. Si faceva ogni tanto qualche puntata a Venezia. I suoi suoceri avevano una villa ad Asiago. Un periodo meraviglioso» (6).

L’operaismo

Negli anni 1960 e 1970, insieme al filosofo Mario Tronti (1931-2023) e al sociologo Raniero Panzieri (1921-1964), diventa uno dei teorici del­l’«operaismo», corrente di pensiero e di ricerca marxista anti-autorita­ria, prettamente italiana. La corrente partiva dall’idea che la classe operaia fosse il motore dello sviluppo economico: che fossero le lotte operaie a determinare lo sviluppo capitalistico e non viceversa. Di conseguenza, la classe operaia veniva individuata come l’agente principale del processo rivoluzionario, senza la mediazione delle classiche istituzioni politiche come i partiti e i sindacati, percepiti quali strumenti che ingabbiavano l’a­zione rivoluzionaria dei lavoratori. Gli operaisti teorizzavano che le masse operaie dovevano prendere coscienza della loro forza e attuare la rivoluzione tramite l’abbandono del lavoro: solo così il capitalismo sarebbe crollato.

Questa corrente «[…] comincia con la nascita di “Quaderni rossi” e finisce con la morte di “classe operaia”» (7), come sostiene Tronti. Secondo il critico letterario e politico Alberto Asor Rosa (1933-2022), Negri è «[…] portatore di una ricca esperienza politica, perché lui era il segretario della Federazione Socialista a Padova e aveva un seguito molto più consistente del nostro, di natura sia intellettuale sia operaia. Quindi, il suo ingresso allarga di parecchio (anche se parliamo sempre di un’esperienza limitata) le dimensioni iniziali del gruppo» (8).

Lo scopo dell’operaismo era trasformare la grande fabbrica da luogo di produzione di massa a zona liberata dall’oppressione capitalistica, secondo un progetto rivoluzionario. In questa dinamica, il ruolo dell’in­tellettuale era di inculcare nell’operaio idee e analisi politiche in grado di realizzare un percorso collettivo di liberazione che lo rendesse un soggetto rivoluzionario: l’operaio-massa, il quale rappresenta «[…] la figura del­l’operaio dequalificato ad alta produttività che si ribella a questo suo destino di pura forza-lavoro e alle condizioni di vita urbane a cui era sottoposto in quanto abitante, lui e i suoi, in periferie squallide» (9), come detto dall’ar­chitetto e professore svizzero Giairo Daghini, militante di Potere Operaio.

All’interno dell’operaismo Negri sviluppa un sistema di pensiero particolare: partendo dall’idea che la società fondata sul fordismo appartenga al passato, cerca un nuovo soggetto sociale antagonista capace di incorporare l’operaio-massa e lo trova nel movimento studentesco, visto non più solo come un potenziale alleato dei lavoratori, ma come una componente essenziale della forza lavoro sociale, anche se in prospettiva futura. Il risultato, teorizzato da Negri, è il coagulo momentaneo di operai e di studenti nel 1969 avvenuto durante l’«autunno caldo», che faceva immaginare un nuovo soggetto rivoluzionario, in grado di sovvertire la società e lo Stato, l’«o­peraio sociale»: «Dopo che il proletariato si era fatto operaio, ora il processo è inverso: l’operaio si fa operaio terziario, operaio sociale, operaio proletario, proletariato» (10). Negri legge, in linea con la lotta di classe, la società contemporanea come una struttura binaria: da un lato lo sfruttamento del capitale e il potere delle istituzioni, dall’altro lato il desiderio di liberazione del proletariato sociale: «[…] la coscienza politica di classe non nasce più dalla mera assunzione dell’antagonismo ma dalla esigenza della liberazione, non semplicemente dalla coscienza della mostruosità del lavoro salariale ma direttamente dal rifiuto del lavoro, […]. Finalmente la lotta di classe operaia si mostra sempre più come lotta di liberazione» (11).

Questa ottica rivoluzionaria di Negri deriva dalla sua concezione dello Stato di stampo marcatamente leninista, dove il problema principale è l’abbat­timento dell’apparato statale al servizio del potere capitalistico. Scrive nella Prefazione a Stato e rivoluzione di Vladimir Il’ich Ul’janov detto Lenin (1870-1924): «Non è utopia l’estinzione dello Stato, e neppure dittatoriale costipazione del processo rivoluzionario, ma è lavoro di costruzione di un altro potere: è motore costituente della lotta di classe che si mette in movimento nel momento stesso dello scontro insurrezionale — che consiste quindi nell’istituzionalizzare gli organi dell’insurre­zione, nel dare forma istituzionale alle figure antagoniste che svuotano lo Stato della sua forza» (12).

L’esperienza cattolica 

L’impegno teorico di Negri si concretizza in una intensa attività di militanza politica. Come gran parte degli intellettuali italiani, quali Umberto Eco (1932-2016), Gianni Vattimo (1936-2023) e altri, milita nelle file della Gioventù Italiana di Azione Cattolica, definita da Silvano Bassetti (1944-2008) «[…] una cerchia di cattolici particolarissimi e che rappresentavano nell’Ac l’anima autonoma rispetto agli ambiti politici» (13). Essa, sotto la presidenza di Mario Rossi (1935-1976), «[…] aveva prodotto una significativa rottura con il moderatismo cattolico» (14) e «[…] rifiutava il collateralismo alla Democrazia Cristiana» (15). In tale cerchia si respirava un’a­ria di radicalismo messianico che portò molti giovani dell’e­poca ad abbandonare la fede per abbracciare l’idea di un rinnovamento che doveva generare una nuova società e una nuova umanità; da qui l’a­desione al marxismo nelle sue varianti più radicali. Così ne parla Toni Negri: «[…] nel Veneto degli anni ’40 e ’50 praticamente trovai […] in un gruppo di amici che erano più o meno cattolici un’apertura di sinistra, perché in realtà né il Partito Comunista, un po’ più il Partito Socialista esistevano a Padova, avevano una bassissima rilevanza dal punto di vista culturale all’interno dell’università, e io cominciai allora, alla fine del liceo […], a parlare di politica con questi compagni, che erano cattolici di sinistra assai radicali. Forse perché ero un ragazzo intelligente, scolasticamente molto produttivo, forse perché ero diverso nel senso che non avevo alcuna prevenzione, mi ritrovai promosso immediatamente alla direzione nazionale della Gioventù Italiana dell’Azione Cattolica, nella quale trovai uno stranissimo gruppo di persone che facevano capo alla presidenza di Mario Rossi […]. C’era in particolare un prete molto bravo, si chiama don Arturo Paoli [1912-2015], era un po’ quello che gestiva tutta la faccenda, su posizioni estremamente di sinistra, di rottura con quel mondo cattolico che era quello di Pio XII [1939-1958], di [Luigi] Gedda [1902-2000], cioè un mondo evidentemente reazionario da far paura» (16).

Fra il 1954 e il 1955 compie un viaggio in Israele, che così descrive: «quello fu per me un momento di grande educazione politica, perché vissi in un kibbutz comunista. In realtà di marxismo non sapevo praticamente nulla, mentre vissi invece sia queste pratiche cattoliche sia poi queste pratiche comuniste radicali del kibbutz, ero in un kibbutz dove non esisteva famiglia, non esisteva nulla, veramente esistevano sola la comunità e il lavoro» (17).

Potere Operaio e i movimenti extraparlamentari

Abbandonata l’Azione Cattolica, Negri si iscrive con un gruppo di amici cattolici di sinistra padovani al Partito Socialista Italiano, militando in seno alle sue frange estreme, «[…] perché ci sembra libero da incrostazioni staliniste che ci davano molto fastidio fin da allora» (18), e nel 1960 viene eletto nel consiglio comunale di Padova. In seguito, lascia la militanza nei partiti tradizionali per aderire alle organizzazioni della sinistra extraparlamentare. Sarà cofondatore di Potere Operaio e, successivamente, di Autonomia Operaia, due importanti gruppi operaisti, dei quali fu uno dei massimi teorici e ideologi. Così Daghini racconta la nascita di Potere Operaio e della sua rivista: «C’è una fase preparatoria, all’inizio degli anni ‘70, in cui prende forma l’idea di partito come necessità di dare una struttura organizzativa ai processi delle autonomie di fabbrica e di società che si erano venute formando nel ‘68-’69. Il passaggio da La Classe a Potere Operaio si fa su questo. Nel primo numero, accanto alla pianta della città-fabbrica-Mirafiori e al testo sullo scontro politico che racconta le fantastiche invenzioni di circuiti-flussi-tempi-obiettivi delle lotte operaie, l’editoriale pone l’obiettivo di dar forma d’organizza­zione a tutto quel movimento deciso e diretto dai Comitati, affinché possa durare nel tempo, affinché possa diventare una effettiva direzione operaia del ciclo e sappia connettere le avanguardie di classe alle lotte di popolo» (19).

La peculiarità di Potere Operaio — una organizzazione in cui, come in gran parte dei gruppi extraparlamentari di sinistra, pochissimi erano gli operai e il gruppo dirigente era composto quasi tutto di professori, fisici, filosofi, persino di un preside, come Emilio Vesce (1939-2001) — consiste nella ricerca e nella progettazione di nuove forme di lotta condotte in modo autonomo rispetto ai tradizionali partiti di sinistra, con cui rifiutava di integrarsi, e in contrasto con lo stesso sindacato, considerati troppo compromessi con il sistema capitalistico. Da qui nasceva il rifiuto del riformismo, ritenuto un atteggiamento di compromesso con le forze ca­pitaliste, e si puntava alla rivoluzione comunista, anche usando la violenza. A questo scopo, all’interno di Potere Operaio, dal 1971 si sviluppa, con il placet di Negri, un’organizzazione clandestina denominata Lavoro Illegale, il cui capo era Valerio Morucci,soggetto però alla supervisione politica di Oreste Scalzone. L’idea era quella di contribuire a creare un clima di guerra civile tramite violenze di piazza e azioni terroristiche. 

Questo modus operandi, che lega azioni violente di piazza e terrorismo, trova un punto di contatto nella rivista Controinformazione, fra i cui fondatori è lo stesso Negri: «La testata spazia dal mondo operaio a quello del movimento pubblicando così opuscoli del SIFAR e volantini operai e raccontando le lotte alla FIAT. La rivista […] ha una ricca parte documentaria largamente dedicata alla lotta armata. Pubblica documenti della RAF tedesca, dei NAP italiani, di Prima linea, di Azione Rivoluzionaria e pubblica anche i volantini delle BR» (20). Come riferisce il militante delle Brigate Rosse (BR) Alberto Franceschini, la rivista era il contatto fra le BR e il mondo esterno: «Se qualcuno voleva arrivare a noi, bastava che facesse girare la notizia nell’ambito di “Controinformazione”. Era un nostro strumento per i rapporti con il mondo esterno. Dei compagni della redazione, tre erano proprio brigatisti: [Antonio] Bellavita, il direttore, uno che era sempre stato nel giro dell’editoria milanese; [Aldo] Bonomi; e un compagno di Torino, Ermanno Gallo. Che io ricordi gli altri membri della redazione erano Toni Negri, il suo braccio destro Fausto Tommei, Emilio Vesce» (21).

Potere Operaio metteva al centro della sua riflessione e della sua azione l’operaio-massa, soggetto teorico pensato da Tronti, legato allo sfruttamento capitalistico e all’alienazione della catena di montaggio. Secondo questo gruppo, il soggetto in questione, ideologicamente orientato, avrebbe preso coscienza della conflittualità intrinseca esistente con l’or­ganizzazione del lavoro capitalistico, sarebbe stato in grado di rifiutare la linea compromissoria della rappresentanza sindacale e del riformismo dei partiti tradizionali della sinistra, considerata inefficace, e avrebbe portato dentro le fabbriche e nella società una lotta radicale e spontanea che, una volta indirizzata politicamente dalle avanguardie rivoluzionarie, avrebbe dato inizio a un processo rivoluzionario.

Secondo Daghini, «Toni Negri lavora e fa lavorare alla costruzione della forma-partito, a un partito neo-leninista con quest’idea della presa del potere. La teorizzazione di Toni sulle necessità dell’organizza­zione, di una neo-organizzazione, era certamente fondata, e con lui a Potere Operaio l’abbiamo portata avanti per un certo tempo, fino al suo fallimento quando l’organizzazione con un salto avventuroso si scioglie nel mare tempestoso di Autonomia organizzata» (22).

Il filosofo e politologo di sinistra Costanzo Preve (1943-2013) dà un giudizio impietoso su questa organizzazione, «[…] il partito dell’in­surre­zione avrebbe preso il potere del non-potere, cioè il potere per realizzare da subito un comunismo anarchico dell’appropriazione lasciando alle macchine la produzione. Come il latte fresco, simili utopie sono a scadenza ravvicinata ed a falsificabilità velocissima. Ciò spiega perché Potere Operaio si sciolse già nel 1973 […]. Questo non è un caso. Negri aveva fornito a Potere Operaio una teoria folle, ma pur sempre una teoria comunicabile in modo razionale ed universalistico» (23).

La violenza rivoluzionaria

Le riflessioni di Toni Negri sulla sovversione e sull’uso necessario della violenza sono contenute principalmente nel saggio dal titolo significativo, Il Dominio e il sabotaggio, scritto in occasione dell’assemblea generale dell’Autonomia Operaia, convocata a Bologna nel settembre del 1977. In un’intervista rilasciata in occasione dell’uscita dell’edizione francese del pamphlet, Negri sostiene che «nell’occupazione di abitazioni e di luoghi di incontro e dell’università, nelle appropriazioni proletarie nei supermercati e dei loisir di massa (cinema, concerti, ecc.), nella conquista e nella difesa di zone metropolitane liberate e nelle feste proletarie che ne seguivano, si era espressa l’autonomia che aveva inaugurato e consolidato in quegli anni nuove forme di vita del proletariato metropolitano. […] Dominio e sabotaggio fa parlare questo soggetto che, nelle lotte e nell’organizzazione, cerca la propria “autovalorizzazione” e vuole consolidarla in fabbrica e nella metropoli. “Autovalorizzazione” significa che questo soggetto, se è operaio, vuole aumentare il salario e lavorare meno; se è studente, vuole organizzare criticamente i propri studi, essere pagato per questa formazione e non subire controlli disciplinari; che infine, per quelli che lavorano e per quelli che non lavorano, a tutti propone di essere padroni della propria vita e di esercitare “contropotere” nei confronti di padroni, politici, preti e poliziotti, organizzandosi nel costruire forme comuni di vita» (24). Come si può notare, questa descrizione prefigura quello che saranno i centri sociali. Per Negri «“Sabotaggio” è l’espressione dell’autovalorizzazione della moltitudine operaia e metropolitana a fronte della repressione sempre più pesante che essa subisce. […] Non confondete dunque la parola sabotaggio con un’incitazione luddista, di resistenza morale o individuale. Sabotaggio è, nel linguaggio operaista, la resistenza collettiva, moltitudinaria contro il comando capitalista sulla produzione, sull’organizzazione del lavoro. Il sabotaggio individuale può talora essere un sintomo; il sabotaggio collettivo è un’a­zione rivoluzionaria» (25).

È necessario, dunque, l’uso della violenza politica: «Dentro lo stabilizzarsi della crisi, la violenza assume, infatti, una valenza fondamentale. Essa è il corrispettivo statuale dell’indifferenza del comando e, comunque, della sua rigidità. Essa è, di contro, la calda proiezione del processo di autovalorizzazione operaia. Non sapremmo immaginare nulla di più completamente determinato, di più ingombro di contenuti, della violenza operaia. Il materialismo storico definisce la necessità della violenza nella storia: noi la carichiamo dell’odierna qualità dell’emergenza di classe, consideriamo la violenza come una funzione legittimata dall’e­saltazione del rapporto di forza nella crisi e dalla ricchezza dei contenuti dell’autovalorizzazione proletaria» (26). Per Negri essa è la risposta alla violenza capitalista insita nelle istituzioni dello Stato borghese: «Basta con l’ipocrisia borghese e riformista contro la violenza! Che il sistema capitalistico sia basato sulla violenza e che questa violenza non sia certo pulita a fronte di quella proletaria, lo sanno anche i bambini. Non è un caso che tutte le scomuniche borghesi e revisioniste della violenza siano basate su una minaccia di violenza maggiore. […] Ma l’ipo­crisia non paga. E allora parliamone con chiarezza della nostra violenza proletaria come di un ingrediente necessario, centrale del programma comunista» (27). La violenza rivoluzionaria sembra essere il modo per affermare gli impulsi più nascosti, per provare le emozioni più bestiali; per essere dalla parte giusta della storia, per asserire la propria smania di supremazia, con una mancanza del senso del limite e delle proporzioni.

È importante notare come queste teorizzazioni siano diventate patrimonio comune dei gruppi extraparlamentari di sinistra e trasmessi, come retaggio culturale, di generazione in generazione, riaffiorando ogniqualvolta la maggioranza parlamentare non sia in sintonia con la loro visione rivoluzionaria. È accaduto ai tempi di Toni Negri contro la Democrazia Cristiana, si è ripetuta negli scontri di piazza sotto i governi presieduti da Silvio Berlusconi (1936-2023) e ora con il governo di Giorgia Meloni ritorna prepotente con occupazioni e lotte violente, sotto il segno della mistica rivoluzionaria e della violenza fine a sé stessa.

Toni Negri e il terrorismo

A causa delle sue teorizzazioni politico-sociali e per il sostegno intellettuale mostrato più volte nei confronti della lotta armata e della violenza di classe, nel 1979, già affermato docente universitario di filosofia, Negri viene incarcerato e processato all’interno del processo «7 aprile», con l’accusa di complicità politica e morale con il gruppo terroristico delle Brigate Rosse. È, tuttavia, assolto da queste imputazioni, per poi venire condannato, nel 1984, a trent’anni di carcere per associazione per delinquere e insurrezione contro lo Stato; due anni dopo si aggiungeranno pene supplementari per responsabilità morale in azioni violente di massa commesse ai danni delle forze dell’ordine e concorso morale nella strage di Argelato (Bologna) (28). In appello la pena verrà ridotta a diciassette anni. Ne sconterà dieci, di cui gli ultimi quattro in semilibertà.

È stato candidato dal Partito Radicale nelle elezioni politiche del 1983, quale simbolo delle loro battaglie per la riforma dell’istituto del­l’immunità parlamentare e per la modifica delle cosiddette «leggi speciali», ed eletto alla Camera dei deputati, uscendo di prigione grazie proprio al­l’immunità parlamentare. Il giorno precedente il voto parlamentare per l’autorizzazione a procedere nei suoi confronti fugge in Francia, dove ha beneficiato della cosiddetta «dottrina Mitterrand» (29), e riprende a insegnare presso l’Università di Parigi 8, la Sorbona, l’École Normale Supérieure e il Collegio Internazionale di Filosofia. Durante la latitanza viene aiutato dal filosofo Gilles Deleuze (1925-1995) e dallo psicanalista Félix Guattari (1930-1992), che lo introducono nell’ambiente parigino, fornendogli gli aiuti necessari. 

Queste vicende personali influiscono sulle sue riflessioni in merito alla violenza rivoluzionaria e alla lotta armata. Negri opera una presa di distanza dal fenomeno «terrorismo», che lo porta in contrasto ideologico con i terroristi, in particolare con le Brigate Rosse, esplicitato nella sua linea difensiva. Così lo racconta il brigatista Prospero Gallinari (1951-2013): «Dissociarsi, è la parola d’ordine che qualcuno escogita, con l’intui­zione febbrile del naufrago deciso a restare a galla ad ogni costo. Una dissociazione attiva, però, che non solo prende le distanze da qualcosa, ma attacca e tende a cancellare una parte cospicua della storia rivoluzionaria e antagonista di quegli anni. […] Ed è il caso di Negri e degli inquisiti del 7 aprile, i quali con il Documento dei 51 (30), sostenuto da “il manifesto” e dalla sua area politica, arrivano a dissociarsi anche da ciò che non sono mai stati. Contro il terrorismo, diviene il paletto sul quale allineare il giudizioso fronte dei neo-convertiti. E se la realtà e la storia italiana degli anni Settanta faticano ad entrare in questo schema riduttivo, è proprio una parte degli uomini e delle donne che volevano cambiarla radicalmente, a fornire alla borghesia la legittimazione per declassare a terrorismo la sfida sociale, politica e umana, lanciata da un’intera generazione all’arroganza del potere» (31).

La sua dissociazione dal terrorismo si manifesta compiutamente in una lettera indirizzata all’allora sostituto procuratore della Repubblica Domenico Sica (1932-2014) del 12 marzo 1981. In essa Negri fa un’af­fermazione categorica quanto sorprendente: «il comunismo non ha nulla a che fare con il terrorismo» (32). E continua: «ritengo che nella situazione politica italiana ogni omicidio politico sia un attentato contro le lotte del proletariato metropolitano e degli operai di fabbrica» (33). Quindi ammette: «Certo io mi sono sporcato le mani dentro un movimento enorme nelle sue dimensioni e ricchissimo nelle sue motivazioni, nel quale erano presenti forti tensioni alla lotta armata. Ma la mia volontà politica e morale è sempre stata impegnata […] nella lotta contro la trasformazione in esercizio del terrore delle tensioni di contropotere e di protesta» (34). Da qui l’appello: «Non è con la lotta militare, non è con il conseguente imbarbarimento del diritto (come quello determinato dalle leggi e dalle carceri speciali), non è con l’incarcerazione di una intera generazione che il problema del terrorismo può essere risolto. È solo con la ripresa della lotta politica nel movimento, con la radicale volontà di distruggere la fuga terroristica dalla lotta politica di massa che questo risultato può essere raggiunto. Che oggi l’obiettivo della distruzione del terrorismo coincida nell’interesse dello Stato e delle forze autonome di massa non è cosa che spaventi i comunisti» (35). In questa lettera Negri opera una netta distinzione tra il movimento e il terrorismo che stride con quanto in precedenza affermato sulla violenza proletaria e sulla stessa storia del movimento, ma la situazione in cui si trovava necessitava di una tale soluzione; infatti conclude la lettera: «personalmente non sono mai stato un terrorista, e se mi sono sporcato le mani nel movimento non è certo stato per costruire bande armate, ma per impedire che le tensioni presenti nel movimento le producessero» (36). Peccato che questa «meritevole opera» abbia prodotto risultati opposti, a iniziare dall’insurre­zio­na­lismo praticato da Autonomia Operaia, con il sabotaggio delle linee di produzione o con l’«esproprio proletario» che si ispirava al modello della violenza propagata dal basso, teorizzata da Toni Negri. È proprio questo modello che indurrà alcuni autonomi, una fetta della disciolta Lotta Continua e del Movimento del ’77, in coerenza con le tesi espresse, ad aderire alla lotta armata praticata dalle organizzazioni terroristiche.

D’altra parte, Toni Negri non condannerà mai gli omicidi perpetrati dai terroristi. Ai suoi occhi quelle azioni e quella strategia erano semplicemente errate. Esse erano il frutto di uno sbaglio di tempi e tattica nel­l’uso della violenza armata. Questo concetto viene ribadito nell’inter­vista posta come postfazione all’edizione francese di Dominio e Sabotaggio nel 2019, in cui sottolinea che «[…] la componente autonoma, assolutamente maggioritaria nel movimento, non seppe dare indicazioni precise in una fase caratterizzata da una repressione feroce del movimento che il governo del “compromesso storico” (DC+PC) conduceva. In tal modo si lasciò spazio allo svolgersi della linea delle “Brigate rosse” che, alzando appunto il tiro contro il “cuore dello Stato”, si assunsero la responsabilità di un’accelerazione rivoluzionaria immatura, decisa contro la maggioranza dei militanti, e della quale fecero pagare il prezzo all’in­tero movimento» (37).

Negri lettore di Spinoza

Gli eventi successivi al 1977 — con la sconfitta del movimento, che pose fine all’ipotesi rivoluzionaria in Italia di stampo marxista —, accompagnati dalle sue vicende giudiziarie, lo inducono a un ripensamento del suo «comunismo» e del sogno rivoluzionario, avvicinandolo alla figura del filosofo olandese Baruch Spinoza (1632-1677) su cui ha pubblicato alcuni saggi a partire dal 1981: «[…] per me leggere Spinoza ha rappresentato un’esperienza incredibile di freschezza rivoluzionaria» (38). Dice a questo proposito: «Quello che mi interessa, infatti, non è tanto la genesi dello Stato borghese — e la sua crisi — quanto le alternative teoriche e le possibilità soggettive della rivoluzione in atto» (39).

Negri interpreta Spinoza come un pensatore rivoluzionario, in grado di criticare lo sviluppo capitalistico e promuovere la libertà tramite la potenza dell’immaginazione e della moltitudine. La sua opera gli suggerisce che vivere significa scoprire nuovi territori dell’essere, dove l’intel­li­genza e il desiderio giocano ruoli chiave nella liberazione. Secondo Paolo Greco, «la tesi centrale dell’autore è che la metafisica spinoziana ha un portato politico» (40). E questo — per Negri — fa di Spinoza un autore attuale: «Di qui la possibilità di usare concetti spinozisti anche per l’ana­lisi del presente» (41).

La proposizione di Spinoza e l’attenzione al processo costitutivo della moltitudine avviene in Negri dopo il 1980 — durante la detenzione in carcere — e si accompagna a un progressivo modificarsi delle categorie proprie dell’analisi politica radicale, con l’individuazione di nuove categorie capaci di inglobare nuove componenti per la riproposizione della lotta di classe. Un affidarsi più alla filosofia che al politico per trovare una nuova fondazione all’agire rivoluzionario che faccia i conti con la crisi del marxismo. È una linea interpretativa originale quanto iperbolica, per salvare il comunismo dal suo fallimento storico e riproporlo come fine rivoluzionario per i movimenti globali del nuovo millennio.

L’«Impero» e la «moltitudine»

Le sue riflessioni su Spinoza lo portano, nei primi anni Duemila, a elaborare una nuova visione rivoluzionaria, che sfocia in una serie di volumi dedicati all’analisi del mondo sorto dopo il crollo del blocco sovietico, scritti con l’ex allievo Michael Hardt, il più noto dei quali è Impero. Esso si presenta come un saggio utopico di filosofia politica, un tentativo, voluminoso, di scrivere un nuovo Manifesto, adatto ai tempi che corrono, per il movimento «no global». Studiando i regimi di sfruttamento e di controllo che, secondo Negri, caratterizzano il nuovo ordine mondiale nato dalla fine dell’Unione Sovietica, si assiste alla nascita di «[…] una nuova forma di sovranità. Di fatto, l’Impero è il nuovo soggetto politico che regola gli scambi mondiali, il potere sovrano che governa il mondo» (42). Esso non accetta limiti né confini, non ha centro né periferie, vuole controllare tutti gli aspetti del corpo e della mente dei suoi sudditi mondiali. «Occorre sottolineare — dicono gli autori — che noi non usiamo il termine “Impero” come una metafora che implica la definizione delle somiglianze tra l’attuale ordine mondiale e gli imperi di Roma, della Cina, quelli precolombiani ecc. — ma piuttosto come un concetto che esige un approccio essenzialmente teorico. Il concetto di Impero è caratterizzato, soprattutto, dalla mancanza di confini: il potere dell’Impero non ha limiti. In primo luogo, allora, il concetto di Impero indica un regime che di fatto si estende all’intero pianeta, o che dirige l’intero mondo “civilizzato”. Nessun confine territoriale limita il suo regno» (43). Esso «[…] emerge al crepuscolo della sovranità europea. Al contrario dell’imperialismo, l’Impero non stabilisce alcun centro di potere e non poggia su confini e barriere fisse. Si tratta di un apparato di potere decentrato e deterritorializzante che progressivamente incorpora l’intero spazio mondiale all’in­terno delle sue frontiere aperte e in continua espansione» (44).

Contro l’Impero sorgono una volontà e un desiderio plurale a salvaguardia della democrazia, rappresentato da tutti i soggetti sociali che vogliono realizzare una «democrazia globale» e che costituiscono la «moltitudine», un nuovo soggetto politico trasversale e globale che nella postmodernità sostituisce la classe operaia, di cui i movimenti sono l’a­van­guardia organizzata che si oppone all’Impero, per aprire nuovi spazi per una rivoluzione dell’ordine mondiale imperiale. Per Hardt e Negri «la moltitudine è composta da innumerevoli differenze interne — differenze di cultura, etnia, genere e sessualità, ma anche da differenti lavori, differenti stili di vita, differenti visioni del mondo, differenti desideri — che non possono mai essere ridotte a un’unità o a una singola identità. La moltitudine è una molteplicità costituita da tutte queste differenze singolari» (45). Essa si differenzia dalle masse perché «Le masse assorbono e som­mergono le differenze: tutti i colori della popolazione tendono al grigio. Le masse sono capaci di muoversi all’unisono per la semplice ragione che formano un conglomerato uniforme e indistinto. Nella moltitudine, invece, le differenze sociali restano differenze. La moltitudine è multicolore come il mantello magico di Giuseppe. La sfida lanciata dal concetto di moltitudine è quella di una molteplicità sociale che è in grado di comunicare e di agire in comune conservando le proprie differenze interne» (46).

Alla «moltitudine» Negri e Hardt dedicano il saggio che segue a Impero. Riprendendo e adattando al nuovo ordine imperiale la categoria negriana di «operaio sociale» — con cui negli anni 1970 Negri indicava operai e studenti uniti nella lotta —, ora essa viene estesa a tutta la miriade di soggetti sociali diversi sottomessi ai poteri dominanti nel­l’Im­pero. Sono loro, uniti nella «moltitudine», che avrebbero la forza di abbattere le autorità imperiali e realizzare una vera «democrazia globale».

Questa voglia, mai doma, di rivoluzione trova sbocco nella teorizzazione di Assemblea,ultimo lavoro del percorso di ricerca sulla rivoluzione nella globalizzazione.L’assemblea pensata dai due autori è quella che si realizza ogni qualvolta i movimenti di resistenza al potere globale manifestano la loro opposizione ostinata alle politiche del capitalismo, il quale, secondo loro, intende governare le vite dei soggetti sociali. Un saggio in cui si teorizza l’esigenza di suscitare una risposta politica adeguata ai tempi, con una collaborazione fra soggetti sociali, politici e culturali eterogenei ma uniti dall’opposizione alle forze dominanti. Pensare la rivoluzione oggi, ribadiscono gli autori, vuol dire immaginare una forma politica capace di riunire in un caleidoscopio di forze rivoluzionarie ogni azione atta a esaltare la differenza sessuale contro il patriarcato maschilista; a liberare il colore della pelle dal suprematismo identitario bianco e soprattutto che faccia tesoro della moltiplicazione delle figure antagoniste di emancipazione organizzate collettivamente anche senza la presenza di un partito o di un leader che se ne metta a capo, in grado di produrre atti di resistenza, d’insurrezione e di rivolta dappertutto e in ogni momento. È questa la capacità rivoluzionaria che mette in crisi il sistema globale imperiale.

Secondo Hardt e Negri, in un libretto di sintesi, «le lotte attuali presentano […] soprattutto caratteristiche destituenti più che costituenti. Devono distruggere gli effetti dispotici depositati in noi e nelle nostre società dall’esaurimento delle vecchie costituzioni» (47). Ad esse si affianca un nuovo potere costituente portatore di «nuovi diritti»: «Questo potere costituente è doppiamente impresso nelle lotte e queste dichiarazioni di diritti inalienabili rivelano il corso di un movimento storico che sta raggiungendo la sua maturità» (48). Secondo gli autori «il processo costituente deve essere accompagnato da una serie di contropoteri che agiscano in modo urgente in aree di interesse sociale e ambientale particolarmente esposte e in pericolo» (49) e citano ambiente, acqua, cibo e abitazioni. Fra i contropoteri annoverano l’uso «rivoluzionario» della legislazione: «In questo sforzo diventa assolutamente essenziale oggi il lavoro portato avanti da molti tramite l’uso di strumenti di legge dei sistemi nazionali e internazionali come una sorta di contropotere» (50). Lo scopo di tutta questa azione è sempre lo stesso: «aprire la proprietà privata all’accesso e al godimento di tutti, trasformare la proprietà pubblica controllata dall’au­torità statale nel comune; e in tutti i casi scoprire meccanismi con cui gestire, sviluppare e sostenere la ricchezza comune attraverso la partecipazione democratica» (51). Il comunismo che sembrava sconfitto dalla storia torna, sotto altre forme, a sfidare l’ordine sociale.

La religione come rivoluzione

Negri riconosce il fallimento delle dottrine a cui ha dedicato la vita, ma non si rassegna. Anche della morte dà una lettura «politica» in cui si riverbera l’eco della precedente esperienza cattolica. «Il potere — scrive Negri — è fondato sull’introdurre la morte come possibilità di ogni giorno nella vita — senza la minaccia di morte, idea e pratica del potere non potrebbero darsi. Ecco dunque dove sta ogni positiva affermazione della morte, nel riportare la morte al presente, nel farla vivere. Il potere è lo sforzo continuo di rendere presente la morte alla vita» (52). Contro questa introduzione della morte è necessario «[…] assumere la vita come continua resurrezione» (53). Qui Negri individua un presunto carattere «rivoluzionario» del cristianesimo: «La teologia cristiana comprendeva, fin dalla dichiarazione del Simbolo niceno, un capitolo sulla “resurrezione della carne”. Che Cristo fosse risorto era allora un simbolo tanto importante quanto il fatto che Gesù, un Dio, fosse stato messo a morte. La resurrezione della carne, su quello sfondo cristologico, metteva in evidenza che la morte non è un assoluto e che quindi ogni potere, affermando la morte, è un usurpatore della verità» (54). Per Negri «la resurrezione dei corpi determina […] un ordine politico diverso, un opposto ordine della vita, un vero espandersi della moltitudine. […] Quest’affermazione laica, materialista della resurrezione della carne è una verità/speranza — meglio: un formidabile dispositivo etico e politico» (55). Negri intravede nella tecnologia la potenza umana della resurrezione. «Il sapere e le sue tecniche, la manipolazione e la trasformazione della natura sono una lotta continua, condotta dall’uomo, contro e oltre la morte. […] Contro l’In­qui­sizione, di ieri e di oggi, l’etica e la medicina si collegano nel sapere sovversivo per costruire, mantenere ed espandere la vita. […] L’eterno […] è il prodotto di un costruire continuo, un respingimento del vuoto che ci è dinnanzi come limite, un oltrepassarlo e uno sconfiggere la minaccia di una morte presente» (56). Questo farsi eterno del­l’uomo con la tecnologia diventa un’arma contro il potere che non può più usare la morte come spauracchio. 

Il farsi eterno dell’uomo ha come risultato la vittoria della povertà contro l’uso esclusivo della ricchezza che crea privilegi e alienazione. Infine «[…] la risurrezione è un’arma contro l’odio del corpo, la sua predicazione e la sua mistificazione nei feticci del potere: patriarcato-proprietà-sovranità. […] La risurrezione della carne è dunque una metafora del divenire eterni e così la riprendo per indicare i sentieri di un divenire etico che ci è proposto e che siamo capaci di perseguire» (57).

Per Negri la resurrezione è questo continuo divenire dell’uomo «[…] che procede nella costruzione di libertà» (58). Il suo è un orizzonte esclusivamente terreno, in cui l’unica speranza è affidata alla rivoluzione politica — in un antagonismo sempre ricorrente — di cui conosce il percorso e il risultato. Anche la morte, destino di ogni uomo, è piegata a queste esigenze rivoluzionarie, facendone un feticcio del potere.

Le riflessioni sulla morte e resurrezione aprono uno squarcio su quella che si può definire l’immanentizzazione della salvezza tramite la storia e la politica. Per Negri, ciò che dà senso alla vita è la rivoluzione comunista, vista come una nuova espressione religiosa che sostituisce la vecchia fede cristiana. La morale rivoluzionaria dei diritti umani è il nuovo dogma assoluto, capace di ridefinire l’idea stessa di società; è il tentativo di imporre un nuovo ordine morale «giusto» contro le disparità sociali, tramite l’azione politica a cui è affidata la salvezza. Nella sua teoria politica — collocata interamente nella tradizione del materialismo — vede la religione come eventuale strumento di liberazione. In Goodbye Mr. Socialism è presente un’affermazione che compendia il pensiero negriano su di essa: «La religione è un grande imbroglio in sé, ma può essere anche un grande strumento di liberazione per sé» (59).

Negri vede nella religione cristiana un duplice aspetto: è uno strumento al servizio del capitalismo quando — basandosi sulla «trascendenza» — predica la sottomissione al Dio giudice e al padronato, ponendo la salvezza dell’uomo oltre il tempo e la storia, ma può diventare uno strumento di liberazione della moltitudine, quando aderisce alla politica «rivoluzionaria» dell’immanenza, dove la salvezza è posta nel tempo e nella storia. Soltanto rompendo radicalmente con la trascendenza si può configurare un rapporto nuovo fra cristianesimo e materialismo, essendo que­st’ultimo contraddistinto dalla completa immanenza. Lo afferma nel testo Il lavoro di Giobbe, dove Giobbe viene assunto come parabola del lavoro umano, come sfida creativa immanente; in esso «[…] Giobbe, dall’in­terno del dramma creativo, comincia a parlare — alla nostra umanità — della divinità dell’uomo e della materia nella quale la sua esistenza è iscritta» (60). Ovviamente per il pensatore padovano ogni movimento religioso ha senso solo se sfocia in un’azione politica rivoluzionaria e non come vocazione a una vita di grazia che ha il suo coronamento oltre la morte, nella comunione con Dio.

La trasformazione dell’idea cristiana della salvezza eterna in rivoluzione sociale e politica riflette una forma di sovversione del cristianesimo e di sua riduzione al solo orizzonte temporale terreno, poiché l’es­sere umano si trova privato della sua dimensione spirituale e ridotto ai meri parametri biologici e materiali. È una prosecuzione dell’idea salvifica evangelica, negandone però la trascendenza. Dice Negri: «Non ho mai avuto nulla contro la religione, sono semplicemente contro la trascendenza. Rifiuto nella maniera più totale qualsiasi forma di trascendenza» (61). Commentando una citazione dell’Etica di Spinoza — «la nostra mente, in quanto percepisce le cose con verità, è una parte dell’intelletto infinito di Dio» (62) — legge la potenza della natura dell’uomo come la stessa potenza di Dio: «Possiede dunque la potenza del divino — questa natura, questa materia della quale siamo fatti, hanno quella potenza» (63); quindi la materia si afferma «[…] come forza produttiva, attraverso l’atti-vità di quelle modalità che costituiscono la sostanza» (64). La divinità, per Negri, è materia all’opera che produce l’essere e coincide con il mondo; in essa non vi è trascendenza. Questo materialismo divino è solo immanente. «Ma che cosa significa immanenza? Significa che, di questo mondo, non c’è fuori. Che in questo mondo c’è solo la possibilità di vivere (e di muoversi e di creare) qui dentro. Che l’essere nel quale noi siamo, e dal quale non possiamo liberarci (perché siamo fatti di questo essere e ogni cosa che facciamo non è altro che un agire su, ovvero di, questo nostro essere), è un divenire, non chiuso, non prefigurato o preformato, ma prodotto. […] È proprio il contrario, dunque, di quel che prescrivevano le politiche della trascendenza, e cioè che i rapporti di produzione, il fatto che se schiavi si nasce, schiavi si deve morire, costituiscono una necessità garantita dal buon Dio. Se — dicono teologi e politici dell’asso­lutismo — il dominio dell’uomo sull’uomo è il dna della creazione, noi replichiamo che l’immanenza è l’essere-contro» (65). L’imma­nenza si oppone a qualsiasi forma di trascendenza che cristallizza i rapporti sociali, capace di produrre il mondo e singolarità libere. Se Dio è immanente al mondo e produce singolarità, allora, noi siamo in Dio. Dice Negri: «Dire che siamo in Dio è molto spinoziano. Siamo nella sostanza di Dio, ma la cosa più meravigliosa è che creiamo Dio ogni giorno. Tutto quello che facciamo è una creazione di Dio. Creare nuovo essere, qualcosa che, contrariamente a noi, non morirà mai. Qualsiasi cosa facciamo entra nell’e­terno: la bellezza del pensiero di Spinoza è tutta qui: il divino non è fuori di noi. […] Essere spinoziani significa che ci è dato di vivere questa innovazione tramite cui si accede all’eternità. […] Siamo noi a determinare tutto questo: è un materialismo della libertà» (66).

Quella di Negri è una perversione dell’idea cristiana di salvezza. Questa ha senso solo perché è legata a un mondo trascendente — di cui la resurrezione di Gesù Cristo è la manifestazione storica — e non pretende di essere raggiunta in questo mondo. La rivoluzione comunista, patrocinata da Negri — anche in tutte le sue metamorfosi post-1989 — non ha mai avuto alcuna idea della trascendenza ma l’ha avversata come sciocchezza antropologica dal sapore oppiaceo(67). Essa vorrebbe raggiungere la salvezza su questa terra, tramite la rivoluzione politica, che implica anche l’uso della violenza contro coloro che vengono, di volta in volta, definiti oppressori. Questa immanentizzazione dell’idea di salvezza dona ai rivoluzionari una purezza ideologica che li rende immuni da ogni «peccato» e liberi da ogni legge. L’etica rivoluzionaria ha assimilato quel carattere sacro derivante dalla distorsione della religione cristiana.

Il fatto che, con la rivoluzione, l’idea di salvezza venga inserita in un mondo immanente, anche se desunta da una religione rifiutata, ha come conseguenza la nascita di rivolte e conflitti per la sua affermazione. La rivoluzione assume l’aspetto di un programma di liberazione da realizzare nella storia, capace di modificare anche l’uomo, come afferma Negri: «la rivoluzione non è un fatto che si realizza nelle teste, si realizza prima di tutto nell’essere e le teste da ciò saranno modificate» (68). Tutta la vita e il pensiero di Toni Negri procedono in questa direzione. Egli si presenta come un tipico prodotto dell’egemonia culturale di sinistra, come ammette lui stesso: «[…] la mia formazione avviene in questa maniera, è completamente all’interno del mondo della cultura di sinistra. C’è questo fenomeno enorme, che è l’egemonia sulla cultura italiana che è imposta, stabilita, diretta, tenuta dal Partito Comunista dalla fine della guerra in su: io cresco completamente come un buon allievo di questo, salvo appunto questo bisogno di azione, che credo poi fosse la cosa che avevano tutte le persone sensate, che passa attraverso il cattolicesimo, l’esperienza in Palestina, in Israele, poi l’entrata nel Partito Socialista» (69).

Note:
1) Cfr. Michael Hardt e Antonio Negri, Impero: il nuovo ordine della globalizzazione, trad. it., Rizzoli, Milano 2002; Iidem, Moltitudine: guerra e democrazia nel nuovo ordine imperiale, trad. it., Rizzoli, Milano 2004; Comune: oltre il privato ed il pubblico, trad. it., Rizzoli, Milano 2010; e Iidem, Assemblea, trad.it., Ponte alle Grazie, Firenze 2018.

2) Intervista a Toni Negri,13-8-2000, nel sito web <https://www.autistici.org/­operaismo/negri/index_1.htm> (gl’indirizzi Internet dell’intero articolo sono stati consultati il 30-6-2025).

3) Gianni De Michelis, Intervistato telefonicamente da Silvio Tullii a Roma il 23 luglio 2002, in La crisi del sistema politico italiano e il Sessantotto, a cura di Giovanni Orsina e Gaetano Quagliariello, Rubbettino, Soveria Mannelli (Catanzaro) 2005, p. 176.

4) Per una storia di Classe Operaia, colloquio con Rita di Leo a cura di Giuseppe Trotta (1950-2004), in Bailamme. Rivista di spiritualità e politica, anno XIV, n. 26, giugno-dicembre 2000, nel sito web <https://­egemonia.blogspot.com/2005/­06/per-una-storia-di-classe-operaia.html>.

5) Intervista a Romano Alquati-dicembre 2000, nel sito web <https://­www.autistici.org/operaismo/alquati/5_1.htm>.

6) Intervista di Paolo Ridella e G. Trotta a Romano Alquati del 6 aprile 1998; testo presentato in Bailamme. Rivista di spiritualità e politica, anno XIII, n. 24, giugno 1999, pp. 173-205; riproposto con alcune varianti nel sito web <http://www.archiviomovimenti.org/public/­documenti/Romano%20Alquati.pdf>.

7) Mario Tronti, Noi operaisti, in L’operaismo degli anni Sessanta. Da «Quaderni rossi» a «classe operaia», a cura di G. Trotta e Fabio Milana, saggio introduttivo di M. Tronti, DeriveApprodi, Roma 2008, pp. 5-58 (p. 5).

8) Intervista ad Alberto Asor Rosa, 24-10-2001, nel sito web <https://­www.autistici.org/operaismo/asor/3_1.htm>.

9) Intervista a Giairo Daghini, 1°-8–2000, nel sito web <https://­www.autistici.org/operaismo/daghini/6_1.htm>.

10) Toni Negri, Proletari e Stato, in Idem, I libri del rogo, DeriveApprodi, Roma 2006, pp. 144-145.

11) Ibid., p. 165.

12) Antonio Negri, Prefazione, in Vladimir Ilich Lenin, Stato e rivoluzione. La dottrina marxista dello Stato e i compiti del proletariato nella rivoluzione, trad. it., PGreco, Milano 2022, p. 11.

13) Silvano Bassetti intervistato da Andrea Guiso a Bolzano il 12 novembre 2002, in La crisi del sistema politico italiano e il Sessantotto, cit., pp. 25-26.

14) Ibid., p. 25.

15) Ibidem.

16) Intervista a Toni Negri – 13 luglio 2000, cit.

17) Ibidem.

18) Ibidem.

19) Intervista a Giairo Daghini, 1°-8-2000, cit.

20) Massimo Veneziani, Controinformazione: stampa alternativa e giornalismo d’inchiesta dagli anni Sessanta a oggi, prefazione di Carlo Lucarelli, introduzione di Aldo Giannuli, Castelvecchi, Roma 2006, p. 50.

21) Giovanni Fasanella e Alberto Franceschini, Che cosa sono le Br. Le radici, la nascita, la storia, il presente, postfazione di Rosario Priore, Rizzoli, Milano 2021, p. 126.

22) Intervista a Giairo Daghini, 1°-8-2000, cit.

23) Costanzo Preve, Dalla Rivoluzione alla Disobbedienza. Note critiche sul nuovo anarchismo post-moderno della classe media globale, nel sito web <http://www.comunismoecomunita.org/?p=6392>.

24) Cannelle Gignoux; Davide Gallo Lassere; Jean-Paul Gasparian e Matteo Polleri, Su «Dominio e Sabotaggio»: intervista a Toni Negri, nel sito web <https://www.dinamopress.it/news/dominio-sabotaggio-intervista-toni-negri>.

25) Ibidem.

26) T. Negri, Il dominio e il sabotaggio,in Idem, I libri del rogo, cit., pp. 245-300 (p. 296).

27) Ibid., p. 297.

28) La strage di Argelato consistette nell’omicidio del carabiniere Andrea Lombardini (1940-1974) e nel ferimento di un altro membro della pattuglia cui questi apparteneva, dopo una rapina commessa il 5 dicembre 1974 da alcuni esponenti di Potere Operaio passati all’organizzazione clandestina Lavoro Illegale, i quali vennero poi arrestati e condannati per rapina e omicidio.

29) La «dottrina Mitterrand», dal nome del presidente socialista della Repubblica francese, François Mitterrand (1916-1996), è una specifica prassi, teorizzata dal magistrato di sinistra Louis François Marie Joinet (1934-2019) e attuata dal governo francese negli anni 1980, che negava l’estradizione e concedeva asilo a persone imputate o condannate, ricercate per reati di natura violenta che però il governo di Parigi riteneva «di ispirazione politica», contro qualsiasi Stato, purché non rivolti contro quello francese. Conditio sine qua non era che i loro autori avessero rinunciato, in Francia, a ogni forma di violenza politica. In questo modo fu concesso, di fatto, un diritto d’asilo a ricercati stranieri, appartenenti quasi esclusivamente alle organizzazioni terroristiche di sinistra. La «dottrina Mitterrand» non fu mai codificata in nessuna forma di legge, ma fu soltanto una prassi di natura politica formulata per mezzo di dichiarazioni pubbliche della più alta carica dello Stato francese. Essa fu sostenuta attivamente dagli intellettuali di sinistra francesi fino al 2023, quando il Consiglio di Stato, il più alto tribunale amministrativo del Paese, dichiarò la dottrina Mitterrand priva di valore giuridico.

30) Nel settembre del 1982 cinquantuno detenuti del carcere romano di Rebibbia, militanti nelle diverse anime dei movimenti politici extraparlamentari di sinistra, imputati in diverse inchieste o processi, inviano al quotidiano Il Manifesto un documento intitolato Una generazione politica è detenuta. In questo documento i firmatari assumono una posizione «politica» terza, rispetto alle «[…] due rumorose polarità costituite da “combattenti” e “pentiti” […]. Essa si dà a partire da una pratica politica di netto rifiuto di posizioni e comportamenti “combattenti” o terroristici, come primo passaggio per sollecitare e stimolare un rapporto dialettico, attivo e propositivo con quelle forze sociali e politiche che intendono superare la politica delle leggi speciali e del terrore ed aprire una fase di trasformazione» (Il Manifesto-Talpa 23 settembre 1982: Documento dei 51, nel sito web <https://­www.inventati.org/cope/wp/1982/09/23/documento-dei-51>). Essi riconoscono che non ci può essere «[…] divisione manichea tra esperienze di “movimento” e “organizzazioni combattenti” in quanto talora è stato labile il confine che le ha separate, prima di una loro definitiva divaricazione. Netto, senza equivoci, è il confine che separa oggi prosecuzione della logica di guerra e volontà di essere nuovamente presenti in un processo di trasformazione» (ibidem). 

31) Prospero Gallinari, Un contadino nella metropoli. Ricordi di un militante delle Brigate Rosse, PGreco, Milano 2023, p. 268.

32) Andrea Barberi e Antonio Carlucci (a cura di), Ora basta, compagni!, in Panorama, anno XIX, 30 marzo 1981, p. 58.

33) Ibidem.

34) Ibidem.

35) Ibidem.

36) Ibidem.

37) C. Gignoux; D. Gallo Lassere; J.-P. Gasparian e M. Polleri, Su «Dominio e Sabotaggio»: intervista a Toni Negri, cit.

38) A. Negri, L’anomalia selvaggia. Potere e potenza in Baruch Spinoza, in Idem, Spinoza, prefazioni di Gilles Deleuze, Pierre Macherey e Alexandre Matheron (1926-2020), DeriveApprodi, Roma 2023, pp. 25-330 (p. 31).

39) Idem, p. 32.

40) Paolo Greco, Antonio Negri e la lettura politico-filosofica di Spinoza, in Per Sebastiano Timpanaro, a cura di Mario Cingoli, in Quaderni Materialisti, 11/12, Anno 2012-2013, Mimesis, 2013, pp. 183-194 (p. 183).

41) A. Negri, Premessa alla nuova edizione, in Idem, Spinoza, cit., pp. 5-7 (p. 7).

42) M. Hardt e A. Negri, Impero: il nuovo ordine della globalizzazione, cit., p. 13.

43) Ibid., p. 16.

44) Ibid., p. 14.

45) Iidem, Moltitudine: guerra e democrazia nel nuovo ordine imperiale, cit.,p. 12.

46) Ibidem.

47) Iidem, Questo non è un manifesto, trad. it., Feltrinelli, Milano 2012, p. 53.

48) Ibid., p. 54.

49) Ibid., p. 57.

50) Ibid., p. 59.

51) Ibid., pp. 100-101.

52) Idem, Da Genova a domani. Storia di un comunista, a cura di Girolamo De Michele, Ponte alle Grazie, Milano 2020, p. 379.

53) Ibidem.

54) Ibidem.

55) Ibid., pp. 379-380.

56) Ibid., pp. 380-381.

57) Ibid., p. 382.

58) Ibid., p. 381.

59) Idem, Goodbye Mr. Socialism, a cura di Raf Valvola Scelsi, Feltrinelli, Milano 2006, pp. 165-166.

60) Idem, Il lavoro di Giobbe, Manifestolibri, Roma 2002, p. 18.

61) Idem, Il Ritorno. Quasi un’autobiografia, conversazione con Anne Dufourmantelle (1964-2017), a cura di Amina Pandolfi (?-2007), trad. it., Rizzoli, Milano 2003, pp. 190-191.

62) Baruch Spinoza, Ethica, II, 43 scholium, citato in A. Negri, Spinoza e noi, Mimesis, Sesto San Giovanni (Milano) 2012, p. 25.

63) Ibidem.

64) Ibidem.

65) Ibid., p. 35.

66) Idem, Il Ritorno. Quasi un’autobiografia, cit., pp. 53-54.

67) Cfr. Idem, La Quinta Internazionale di Giovanni Paolo II, in Idem, Inventare il comune, prefazione di Judith Revel, DeriveApprodi, Roma 2012, p. 68.

68) Idem, Il lavoro di Giobbe, cit., p. 96.

69) Intervista a Toni Negri, 13-8-2000, cit.

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