Pietro Galignani, Cristianità n. 433 (2025)
Il patriarca di Costantinopoli Bartolomeo e Papa Francesco (2013-2025) avevano espresso la volontà di recarsi a Nicea, oggi Iznik, in Turchia, per ricordare insieme il primo grande sinodo universale del cristianesimo, dell’anno 325, chiamato in Occidente «primo concilio ecumenico». Da tempo le Chiese cristiane e le comunità ecclesiali guardano con attenzione a questo luogo pieno di storia, dove si espresse per la prima volta, dopo il Concilio di Gerusalemme, organizzato dagli apostoli intorno all’anno 49 e attestato dagli Atti degli apostoli, la totale ecclesialità della vita cristiana. In tal modo il cristianesimo fin dalle origini si presentò come una comunità che vive in Cristo Signore, sotto la guida degli apostoli. Allora la riunione era stata convocata per dirimere la questione se i pagani convertiti al cristianesimo dovessero essere circoncisi secondo quanto previsto dalla legge mosaica. Tre secoli dopo la comunità cristiana fu scossa e divisa da un’altra grave crisi, che provocò un evento che l’ha segnata in modo irreversibile.
La commemorazione del Concilio di Nicea si presenta come una congiuntura favorevole in un anno nel quale la Pasqua, il 20 aprile, è stata celebrata nello stesso giorno da cattolici e ortodossi. Per tale motivo il Dicastero per la Promozione dell’Unità dei Cristiani e le strutture del Fanar, il patriarcato greco-ortodosso, sono impegnate nella realizzazione tecnica di un solenne pellegrinaggio da eis tin Bolin (Istanbul) a Nicea. Il Dicastero ha già individuato i punti-chiave di una riflessione comune, anche a lungo termine, che Nicea ispira e impone con urgenza a tutta la cristianità nel presente momento storico.
Il primo concilio ecumenico
Per capire meglio la portata e il valore di questi progetti e le dichiarazioni delle Chiese è utile riproporre brevemente il contesto storico e presentare in modo estremamente sintetico i fatti accaduti nel primo grande sinodo di tutta la cristianità.
Gli specialisti sono oggi in possesso di sufficienti fonti e di una grande quantità di studi per poter compiere una lettura approfondita della storia dell’Impero romano nel secolo IV dopo Cristo. Quel periodo fu assai complesso per gli eventi della scena politica e drammaticamente agitato da continue tensioni, che fecero sentire i loro effetti anche nei secoli successivi. Al vertice dell’impero era la tetrarchia inaugurata da Gaio Aurelio Valerio Diocleziano (243 ca.-313). Giunto alla porpora imperiale e al titolo di «augusto», Flavio Valerio Aurelio Costantino I (280 ca.-337) condivise il potere imperiale con Publio Flavio Galerio Valerio Liciniano Licinio (265 ca.-325) — che regna dal 308 al 324 —, per poi esercitarlo da solo fino al 337.
All’inizio della loro attività comune i due augusti nel 313 diedero disposizioni affinché si ponesse fine alle persecuzioni contro i cristiani. Costantino si accorse poi del valore delle strutture ecclesiastiche e le usò per rinsaldare la deteriorata compagine dello Stato. I vescovi finirono per assumere la dignità di magistrati romani, perché vennero chiamati ad esercitare alcune mansioni statali, con il rischio, però, benché onorati per la considerazione ottenuta, di ridursi a puri funzionari imperiali.
Quando Costantino si accorse che la Chiesa cristiana, che stava acquisendo sempre maggiore importanza, era lacerata da controversie dottrinali, si sentì costretto a intervenire di persona per salvare la coesione dell’impero che questa Chiesa favoriva. Così, convocò un sinodo ad Arles, nelle Gallie, nel 314 per dirimere la controversia aperta dai seguaci del vescovo Donato (270 ca.-355 ca.) — i cosiddetti donatisti —, che stavano minando l’unità della Chiesa nella parte occidentale dell’impero. Secondo costoro, i sacramenti amministrati dai vescovi, che durante la persecuzione di Diocleziano avevano compiuto la consegna (traditio) dei testi sacri ai pagani, e per questo erano chiamati traditores, non erano validi. Questa posizione presupponeva che i sacramenti non avessero efficacia di per sé (ex opere operato), ma che la loro validità dipendesse dalla dignità di chi li amministrava. Tale dottrina venne ritenuta gravemente erronea dai vescovi, che si contrapposero decisamente a questo movimento. Sempre Costantino convocò a Nicea nel 325 un sinodo universale per dirimere la controversia teologica — che descrivo oltre — iniziata ad Alessandria di Egitto, quando il prete Ario (256-336) si era pubblicamente opposto al suo vescovo Alessandro (250-328), dando vita a quello che sarà chiamato l’arianesimo.
L’interpretazione della creazione e la valutazione della persona di Cristo formulate da Ario contrastavano gravemente con la fede tradizionale. Formatosi teologicamente ad Antiochia e divenuto presbitero ad Alessandria, Ario mostrò di possedere qualità non comuni. Secondo la testimonianza del vescovo Epifanio di Salamina (310 ca.-423) — l’isola greca posta di fronte ad Atene —Ario era capace di attrarre a sé le persone che incontrava, conduceva una vita severamente ascetica, possedeva una vasta cultura generale e particolari doti di dialettica. Impegnato con rigore nella vita cristiana, preferì sostituire alla fede vissuta e professata dalla comunità il suo punto di vista e la sua interpretazione personale della Scrittura. Con la sua abilità nel sostenere le proprie posizioni aveva fatto numerosi proseliti e convinto anche molti vescovi delle province orientali dell’impero. Così la contrapposizione, originariamente confinata nella diocesi di Alessandria, si dilatò progressivamente. Anche se una serie di sinodi locali cercarono di arginare e di contenere il movimento, esso prosperò e crebbe fino a sconvolgere tutta la cristianità dell’Oriente.
Ario si era nel frattempo stabilito nell’importante città di Nicomedia, nel nord-ovest della Penisola Anatolica, che diventò il principale centro di propaganda dell’arianesimo e attrasse numerosi vescovi, come Eusebio di Nicomedia (†341), famoso perché avrebbe battezzato l’imperatore Costantino. Ario si accattivò, fra gli altri, anche le simpatie di Eusebio di Cesarea (260-339), uno dei più ammirati e ascoltati vescovi di quel tempo, ritenuto il personaggio più erudito della sua epoca. La situazione divenne presto esplosiva al punto che si profilò una contrapposizione molto pericolosa fra la cristianità di Alessandria e quella di Antiochia, le sedi dei più importanti centri teologici del tempo. L’organizzazione ecclesiastica, che aveva assunto grande peso nell’assetto della amministrazione dello Stato, rischiava una spaccatura clamorosa che Costantino non voleva sopportare. La controversia ariana obbligò per la seconda volta l’imperatore a intervenire. Nacque così il primo grande sinodo universale, presieduto inizialmente da Costantino stesso, che convocò tutti i vescovi del tempo, i quali poterono viaggiare a spese dei servizi imperiali e vennero accolti, per tutto il tempo della loro presenza al sinodo, come ospiti nel locale palazzo costantiniano, messo a disposizione dal sovrano per tutte le loro riunioni, poiché la chiesa del posto non offriva spazio sufficiente.
Il pensiero di Ario
Luciano di Antiochia (235 ca.-312), maestro di Ario e di Eusebio di Nicomedia, li introdusse a una riflessione teologica che si esprimeva con categorie di pensiero di stampo semitico, secondo le quali la storia della salvezza ha una dimensione prettamente morale, una riflessione che leggeva la Scrittura con una particolare attenzione e predilezione per il significato storico e letterario del testo. Essa sottolineava in modo particolare la dimensione umana di Cristo. Ma ad Alessandria Ario trovò un ambiente culturale e religioso notevolmente diverso. Qui erano stati piantati i semi del neoplatonismo, una geniale revisione del pensiero di Platone (428/427 a.C.-348/347 a.C.), la cui filosofia dominò la cultura ellenistica dei secoli dal IV al VI e pervase tutte le scuole di retorica. Gli ebrei, molto numerosi in questa città, avevano imparato a respirarne l’atmosfera cosmopolita e ne avevano assimilato il profondo retaggio culturale. La maggior parte di essi aveva perso il contatto con la lingua ebraica e quindi si sentì il bisogno di tradurre in greco l’Antico Testamento, la cosiddetta «traduzione dei Settanta». Proprio per questi motivi Alessandria fu uno dei principali luoghi in cui fiorì quella strana e particolare combinazione di speculazione pagana e cristianesimo noto come gnosticismo.
Ario visse immerso in questa vivace comunità culturale. L’ambiente cristiano aveva prodotto una scuola aperta in parte anche ai pagani nella quale avevano insegnato Clemente (150 ca.-215 ca.) e Origene (185- 254). Qui la sua riflessione teologica lo portò a scoprire che l’ambiente culturale in cui viveva favoriva una vivace opposizione fra esperienza religiosa cristiana e sapere filosofico. In particolare, colse l’insanabile contraddizione fra l’unità di Dio con la sua trinitaria manifestazione storica nel Cristo, mostrata dalla Scrittura, e la speculazione del platonismo, che professava invece un rigoroso monismo dell’essere originario, essere inafferrabile dall’intelletto. Si convinse perciò che l’unità di Dio è incompatibile con la pluralità delle persone divine della tradizione cristiana e che dunque la fede cristiana, alla quale peraltro teneva, doveva essere formulata in modo diverso. Perciò, mantenendo il rigoroso monismo di Dio Padre, perché Dio non può essere che uno, fece dipendere il resto della creazione dalla prima creatura di Dio, cioè il Verbo creato. Questo Verbo divenne una realtà intermedia fra il Padre increato e la creazione, il primo anello nella catena delle creature. Egli aveva raggiunto per sua personale capacità e per sua iniziativa il massimo progresso morale con l’obbedienza e la sua volontaria adesione al volere di Dio Padre. Da allora il rapporto fra Dio e il mondo si doveva attuare per mezzo delle energie morali delle creature soggette al perfezionamento progressivo attraverso l’esempio e lo stimolo della prima e perfettissima creatura. Partendo da questa posizione, che qui sommariamente descrivo, il Figlio di Dio, Cristo, cioè il Verbo divino, non ha la stessa natura del Padre, Dio, ma è la sua prima creatura e il tramite per la creazione degli altri esseri. L’inevitabile conseguenza di questa posizione è che l’Incarnazione e la Risurrezione di Cristo non sono eventi divini e che la redenzione non avviene attraverso di essi e neppure attraverso la mediazione della Chiesa.
In conclusione, secondo Ario, il Padre è eterno, la sorgente non originata di tutta la realtà, mentre il Figlio, sebbene sia il primo nato fra tutte le creature e sia il Creatore del mondo, è «dissimile» e inferiore al Padre «in natura e dignità», perché generato e creato dal Padre stesso, prima di tutti i tempi. In questo contesto si comprende il significato dell’espressione, che divenne il manifesto del movimento ariano, tratta da una sua opera divulgativa oggi perduta, «ci fu un tempo in cui il Figlio non c’era».
Ario visse in modo tragico il cristianesimo, spinto dal desiderio di verità, ma per tener fede a una convinzione personale, tradì il Signore del quale era diventato ministro, come l’apostolo Giuda. L’arianesimo, benché condannato a Nicea, non venne totalmente eliminato ma continuò a esistere fino al Concilio di Costantinopoli del 381. In esso, infatti, il simbolo di Nicea venne aggiornato nella forma che si recita ancora oggi nella celebrazione liturgica.
Questa professione della fede sostiene decisamente l’unicità di Dio nella trinità delle persone e dentro questo orizzonte teologico avviene, accade, il «fatto di Cristo», ovvero Dio entra nella dimensione dell’uomo, nasce muore, risorge e permane nella storia nella unità dei credenti. Questo è il punto decisivo della fede proclamata a Nicea, che professa la Trinità dell’unico Dio e che Cristo è uno della Trinità che si è appesantito nella carne, è entrato nel mondo non come pura apparizione ma in modo assolutamente umano. Cristo dunque è totalmente Dio, cioè della stessa natura, essenza, sostanza e insieme è anche totalmente uomo.
Il Credo di Nicea
Non sono arrivati fino a noi gli atti di questo grande sinodo, voluto universale fin da principio, ma abbiamo una professione di fede di immenso valore metodologico e dogmatico, che ne trasmette il contenuto. Solo due documenti furono elaborati durante i lavori: il testo del Credo e i venti canoni, cioè le regole promulgate ufficialmente per orientare in modo unitario la vita delle varie comunità ecclesiali. Ci si accorge immediatamente che i Padri non confutarono in modo dottrinale, con un testo astrattamente formulato, le posizioni di Ario. Infatti, ogni professione di fede è sintesi che proviene dalla vita delle comunità. Nasce prima di tutto dalla fede vissuta e tramandata e poi dalla Scrittura, sentita come esperienza storica della comunità stessa, letta e interpretata dal vescovo secondo la vita in Cristo che le comunità vivono e tramandano. Perciò i Padri approvarono il suggerimento, formulato forse da Eusebio di Cesarea, di presentare una formulazione della fede da tutti condivisa e che diventasse criterio di distinzione fra ortodossia ed eresia. Questo spiega chiaramente che i Padri non si mossero solo su un terreno di affermazione concettuale ma espressero la comune esperienza ecclesiale con un simbolo battesimale che aveva proprio questa funzione. Ecco il simbolo nella formulazione originaria promulgata a Nicea che divenne il testo della comune professione di fede.
«Crediamo in un solo Dio, Padre onnipotente, creatore di tutte le cose visibili ed invisibili. Ed in un solo Signore, Gesù Cristo, figlio di Dio, generato, unigenito, dal Padre, cioè dalla sostanza del Padre, Dio da Dio, luce da luce, Dio vero da Dio vero, generato non creato, consustanziale con il Padre, mediante il quale sono state fatte tutte le cose, sia quelle che sono in cielo, sia quelle che sono sulla terra. Per noi uomini e per la nostra salvezza egli discese dal cielo, si è incarnato, si è fatto uomo, ha sofferto e risorse il terzo giorno, salì nei cieli, verrà per giudicare i vivi e i morti. Crediamo nello Spirito Santo.
«Ma quelli che dicono: Vi fu un tempo in cui egli non esisteva; e prima che nascesse non era; e che non nacque da ciò che esisteva, o da un’altra ipostasi o sostanza che il Padre, o che affermano che il Figlio di Dio possa cambiare o mutare, questi la Chiesa cattolica e apostolica li condanna» (1).
Ancora prima della stesura dei testi del Nuovo Testamento, quando il cristianesimo si tramandava solo oralmente, già esistevano, nelle comunità cristiane, simboli battesimali che esprimevano il contenuto essenziale della fede. Essi erano il segno caratteristico e distintivo di tali comunità. A Roma era molto usata la formula chiamata Credo degli apostoli. Queste professioni di fede venivano imparate a memoria ed erano particolarmente importanti in un’epoca nella quale saper leggere e scrivere era l’eccezione. Con il tempo esse accrebbero la loro importanza perché permettevano di distinguere l’ortodossia dall’eresia, erano consegnate ai catecumeni durante la preparazione al battesimo e, secondo le usanze locali, venivano loro spiegate durante la Quaresima o dopo la Pasqua. Esse contenevano due punti fortemente intrecciati e fra loro comunicanti: la fede trinitaria e la proclamazione della divinità di Cristo, che è il centro della divina economia — o storia della salvezza — esposta nei suoi momenti fondamentali. Il simbolo, quindi, non era concepito come formula identitaria astratta, costituita da asserzioni formali per le quali si richiedeva un assenso teorico. Era invece l’orizzonte di esperienza di una vita vissuta nel Cristo, presente nei suoi Santi Misteri — i sacramenti —, guidata ed educata dal vescovo. Da essa scaturiva la sensibilità esistenziale cristiana, che era fondamento del significato della realtà, della storia e quindi della propria persona e dei rapporti umani. Il Credo non solo veniva richiesto al battezzando e pronunciato, anche con formulazione personalizzata, dai candidati ai diversi gradi del sacerdozio, ma per la sua importanza venne introdotto nell’azione liturgica prima dell’anafora, la grande preghiera di consacrazione dei santi doni.
Si può dunque apprezzare la decisione, presa dall’assemblea dei Padri, di adottare un’unica formulazione precisa che, insieme, fosse orientamento sicuro della vita cristiana e indicazione nitida e inequivocabile della fede comune di tutta la Chiesa. Il Simbolo di Nicea afferma in modo solenne che il cristianesimo è vita nella quale ci si affida a un Dio cristologicamente trinitario. La fede, però, non è un atteggiamento irrazionale: non è escluso o vietato il desiderio di intuire la connessione del Mistero di Dio, che si rivela nella storia, con le azioni e le parole di Gesù il Messia, cioè il Cristo. Tali fatti, però, sono pienamente conosciuti se vengono incontrati esistenzialmente dentro l’unità della comunità dei credenti. L’approfondimento del cristianesimo, se non è radicalmente fondato su una esperienza dalla quale sgorga la teologia carismatica, invece di chiarire la fede professata rischia di produrre una visione solo parziale e quindi «strabica» del cristianesimo, corrompe una visione integrale e produce dissensi e distorsioni. In questo caso si è davanti all’eresia, un fenomeno che divide la comunione e corrompe la Chiesa, che vive la divina economia.
Secondo le informazioni che si possiedono, era grande il gruppo dei vescovi favorevole ad Ario, perché la dottrina da lui formulata era intellettualmente attraente e ben corrispondente alla cultura dominante. È testimoniato che durante le discussioni coloro che condividevano la posizione di Ario presero immediatamente l’iniziativa e proposero una professione di fede nella quale erano presenti elementi sostanziali della loro teologia e la sostennero con la lettura di passi dell’opera di divulgazione Thalia, pervenutaci solo in pochi frammenti. Questo atteggiamento provocò una forte e risentita opposizione. L’abile e duttile Eusebio di Cesarea propose allora di adottare come formula di fede il simbolo battesimale in uso nella sua comunità ecclesiale. Si accese il dibattito nel quale si finì per accettare la formula di Eusebio con delle aggiunte che spiegavano il significato delle formule professate. La più importante di esse fu il termine omoousios (consostanziale) proposto, con tutta probabilità, da Costantino stesso su consiglio del vescovo Osio di Cordova (257-359), suo consigliere personale. Altre aggiunte, quali «generato dal Padre, unigenito, cioè dall’essenza del Padre, Dio da Dio, luce da luce, Dio vero da Dio vero, generato non creato», furono introdotte per escludere in modo chiaro ogni interpretazione ariana riguardo la persona di Cristo. Dopo la dichiarazione fondamentale, nel paragrafo finale si negano le proposizioni di Ario che la contraddicono.
I canoni e la Pasqua comune
Ecco, in sintesi, il contenuto dei canoni.
1. Soprattutto in Oriente, molti monaci rifiutavano l’ordinazione sacerdotale poiché la consideravano fonte di potere e di orgoglio, e ricorrevano perciò a particolari espedienti, come l’automutilazione di alcune parti del corpo. Tale pratica è proibita.
2. Viene definito un tempo minimo per l’ammissione dei neo-catecumeni nei gradi ecclesiastici.
3. Nella casa di un chierico è proibita la presenza di donne.
4. L’ordinazione di un vescovo deve avvenire in presenza di almeno tre vescovi della provincia ed è comunque subordinata alla conferma da parte del metropolita.
5. Gli scomunicati non siano accolti da altri vescovi. In ciascuna provincia viene stabilito l’obbligo di tenere almeno due sinodi all’anno.
6. In Egitto, nella Libia e nella Pentapoli siano mantenute le antiche consuetudini per cui il vescovo di Alessandria abbia autorità su tutte queste province; anche al vescovo di Roma, infatti, è riconosciuta una simile autorità. Ugualmente ad Antiochia e nelle altre province siano conservati alle chiese gli antichi privilegi. Inoltre, sia chiaro che, se qualcuno è fatto vescovo senza il consenso del metropolita, questo grande sinodo stabilisce che costui non debba esser vescovo. Qualora poi due o tre, per questioni loro personali, dissentano dal voto ben meditato e conforme alle norme ecclesiastiche degli altri, prevalga l’opinione della maggioranza. (Per inciso, non vi è alcun accenno a Costantinopoli perché Costantino non l’ha ancora fondata).
7. Al vescovo di Gerusalemme viene riconosciuto un onore particolare.
8. I seguaci di Novaziano (220 ca.-258), che fu antipapa e fu tacciato di eresia, sono riammessi nella Chiesa.
9-14. Viene promulgato un atto di clemenza verso coloro che hanno rinnegato il cristianesimo durante la persecuzione di Licinio.
15-16. Viene proibito il trasferimento di presbiteri e vescovi dalle loro città.
17. È assolutamente proibita ai chierici l’usura.
18. Nel ricevere l’Eucaristia dal vescovo i presbiteri hanno la precedenza sui diaconi. I diaconi non devono dare l’eucarestia ai presbiteri; non devono prender posto davanti a questi e sedere con loro.
19. Il battesimo amministrato da Paolo di Samosata (200 ca.-275), responsabile dell’eresia adozionista, è dichiarato invalido; inoltre le donne diacono sono considerate come i laici.
20. È fatta proibizione di inginocchiarsi durante la liturgia della domenica e nei giorni festivi.
Questi sono i venti canoni, per così dire, allegati alla professione di fede. Sono un vivace e realistico affresco, quasi una istantanea della vita delle comunità cristiane e delle loro dinamiche relazioni all’inizio del secolo IV. In quel periodo il cristianesimo era in rapida ascesa e le comunità aumentavano di numero e si ingrandivano. Dovevano così essere ben guidate e regolamentate anche nella loro vita quotidiana per impedire pericolose abitudini e deviazioni che potevano essere radice di gravi effetti imprevisti.
Va notato che da queste prescrizioni sono sorti alcuni comportamenti in qualche modo presenti ancora oggi in tutta la cristianità. Ancora di più, nelle chiese di tradizione bizantina i canoni di un grande sinodo universale non possono essere abrogati che da un altro sinodo di pari importanza. Poiché dopo il Concilio di Nicea II, del 787, non vi sono stati concili ecumenici da entrambi riconosciuti, i canoni dei primi sette concili, non formalmente abrogati, sono da considerarsi tuttora in vigore. In alcuni canoni di Nicea I, come il canone n. 6, si vedono maturare le linee dell’organizzazione istituzionale fra le comunità, che tendono a modellarsi e a raggrupparsi secondo l’organizzazione delle circoscrizioni civili. Così nasce e si sviluppa la forma storicamente concreta della comunione della Chiesa. Ciò comporta un progressivo sviluppo nel modo di sentire l’unità dentro la pluralità delle comunità cristiane sorte nello sviluppo storico. In Oriente la riflessione teologica sulla scorta della patristica greca non ha mai sviluppato in modo organico una ecclesiologia come in Occidente ma vede la Chiesa come immagine della Trinità e in questo contesto affronta il problema della sinodalità.
La data della Pasqua
In un’ulteriore decisione il concilio stabilì una data unica per la Pasqua, la festa principale della cristianità, cioè che si festeggiasse la prima domenica dopo il plenilunio successivo all’equinozio di primavera, in modo quindi indipendente dalla Pesach ebraica, fissata in base al calendario ebraico. La scienza astronomica di allora aveva difficoltà a individuare in modo esatto la previsione del primo plenilunio di primavera e quindi si decise che fosse il vescovo di Alessandria, per il prestigio scientifico di quella grande metropoli, da allora in avanti, a stabilire la data e a comunicarla agli altri vescovi. Questa regola funzionò per molti secoli finché ci si accorse che il calendario giuliano comportava delle irregolarità. Infatti, secondo il calendario l’equinozio continuava ad anticipare. Per riportare la data dell’equinozio al 21 marzo — si era spostato al giorno 11 marzo —, si stabilì di sopprimere dieci giorni nel mese di ottobre dell’anno 1582: a giovedì 4 ottobre seguì venerdì 15 ottobre. Il calendario fu subito adottato nell’Europa latina, mentre nei Paesi della Riforma avvenne gradualmente in seguito mentre in quella ortodossa ancora oggi la Pasqua è fissata in base al calendario giuliano.Da qui, in sintesi semplificata, la rottura dell’unanimità.
Insieme da Costantinopoli a Nicea
Papa Francesco non si accontentò di ricordare Nicea. In questa ricorrenza non solo desiderava celebrare la Pasqua con una liturgia celebrata insieme con Costantinopoli, ma anche trovare un accordo per celebrarla insieme con tutti i cristiani ogni anno. Il patriarca ecumenico Bartolomeo, venendo incontro al desiderio più volte espresso dal Pontefice, invitò Francesco a Costantinopoli per iniziare un pellegrinaggio comune fino a Nicea. Da tempo sono al lavoro il Fanar e il Dicastero per la Promozione dell’Unità dei Cristiani. Questo si è attivato fin dal 2022 e ha invitato tutte le Chiese cristiane a riflettere su quattro punti importanti.
Il card. Kurt Koch, prefetto del Dicastero per la Promozione dell’Unità dei Cristiani, ha affermato che l’anniversario è importante non solo dal punto di vista storico. La sua confessione cristologica conserva anche oggi attualità, sia nella situazione ecumenica sia all’interno della nostra Chiesa, dove è osservabile un forte risveglio delle tendenze ariane (2).
Certamente è importante trovare una regola per poter celebrare sempre insieme la Pasqua del Signore, non solo perché lo si fece a Nicea ma soprattutto perché questo gesto comune è uno stimolo potente nel cammino per arrivare alla piena comunione. Il concilio impegna a riflettere sulla sinodalità, in particolare sull’urgenza di studiare come armonizzare le varie tradizioni ecclesiali nel rapporto fra primato e sinodalità. È significativo in proposito che la commissione mista del dialogo cattolico-ortodosso nella riunione di Bari del giugno 2024 abbia messo al centro della discussione del Comitato di coordinamento le questioni storiche e teologiche relative al Filioque e al dogma della infallibilità papale.
Infine, la memoria del concilio invita a riflettere sul problema del rapporto fra l’autorità statale e quella ecclesiastica. L’atteggiamento di Costantino durante il concilio ha messo le basi della teoria della sinfonia dei poteri, che è stata interpretata in modo divergente in Oriente ed in Occidente. Di fronte ai grandi cambiamenti politici, sociali e culturali il tema deve essere nuovamente affrontato.
Bisanzio e la memoria di Nicea
La cristianità latina sente l’anniversario di Nicea come un evento eccezionale, che merita particolare attenzione perché di grande valore teologico e perché consente di riassaporare esperienze quasi dimenticate. La cristianità bizantina commemora questo concilio ogni anno nella domenica fra l’Ascensione e la Pentecoste — nel 2025 il 1° giugno, giorno che nel calendario della Chiesa italiana è dedicato all’Ascensione. Tale memoria è evidenziata dalla sacra icona del concilio ed è scandita dalle strofe che accompagnano nel canto la liturgia di quella domenica. È impossibile allegare tutta la copiosa produzione poetica prevista per allora: offro qui i testi poetici del Vespero, il congedo (apolytikion)cantati nella sera del sabato eil proemio di una lunga composizione di origine siriaca (kontakion). Esse esprimono insieme all’immagine e al gesto una memoria vivace e incisiva.
«Dal seno paterno sei nato dall’alba prima dei secoli senza che madre ti avesse concepito anche se Ario ti glorifica come creatura, non come Dio, mescolando sfacciatamente la creatura e il suo autore e meritando così il fuoco eterno, ma il Concilio di Nicea ti proclama Figlio e Dio, Signore che condivide lo stesso trono con il Padre e lo Spirito.
«Chi ti ha strappato la tunica, Salvatore? è Ario che separa e divide nella Trinità l’eguale gloria e l’eterna maestà; non ammette che sei Uno della Santissima Trinità, ispira Nestorio [381-451] a rifiutare il termine “Madre di Dio”, ma il Concilio di Nicea ti proclama Figlio di Dio, Signore che condivide lo stesso trono con il Padre e lo Spirito.
«Caduto nell’abisso degli empi, Ario, secondo il quale la luce non si vede, le sue viscere lacerate dalla giustizia di Dio, consegnò violentemente la sua anima e tutto il suo essere, come un altro Giuda nella condotta e nel pensiero, ma il Concilio di Nicea ti proclama Figlio di Dio Signore che condivide lo stesso trono con il Padre e lo Spirito.
«Ario divise l’unico principio della Santissima Trinità in tre essenze non uguali e di diversa origine, ma i padri teofori riuniti in concilio, ardenti di zelo come Elia di Tesbe, recisero con la spada dello Spirito colui che insegnava vergognose bestemmie: essi lo hanno fatto sotto la mozione dello Spirito.
«Celebriamo in questo giorno i padri teofori, questi mistici cantori dello Spirito che hanno fatto risuonare l’armonia divina in mezzo alla Chiesa, proclamando l’essenza unica della divina Trinità; contro Ario mantenevano la vera fede e intercedevano costantemente presso Dio affinché avesse pietà delle nostre anime.
«Chi dunque rifiuterà di chiamarti beata, o Vergine Santissima? Chi dunque non vorrà cantare le lodi del tuo parto verginale? Perché il Figlio unigenito, riflesso del Padre senza tempo, colui che è uscito da te, o Vergine immacolata, si è ineffabilmente incarnato: egli è Dio per natura, e per natura si è fatto uomo per salvarci; senza essere diviso in due persone, si è fatto conoscere in due nature senza confusione; O Vergine santa e santissima, intercedi presso lui affinché abbia pietà di noi. (Stikherà, cioè strofe del vespero.)
«Fedeli ortodossi, celebriamo in questo giorno il ricordo annuale dei padri teofori venuti da tutto l’universo alla buona città di Nicea; rigettarono l’empia dottrina di Ario e la Chiesa universale in concilio lo escluse; chiaramente prescrivevano di confessare il Figlio di Dio consostanziale e coeterno, prima dei secoli esistente; lo hanno iscritto esplicitamente nel simbolo della fede, e noi che seguiamo i loro dogmi divini, nella certezza della fede adoriamo insieme al Padre, al Figlio e allo Spirito Santo, Trinità consustanziale in un’unica divinità».(Dagli apostikha, strofe che seguono i versetti del vespero)
«Sii glorificato soprattutto, Cristo nostro Dio, tu che hai stabilito i nostri Padri per illuminare la terra; e attraverso loro, verso la vera fede, ci hai guidati tutti. Misericordiosissimo, gloria a Te». (Apolytikion)
«La predicazione degli apostoli e la dottrina dei padri donarono alla Chiesa l’unità della fede; indossando la tunica della verità, tessuta dalla teologia che viene dall’alto, conferma e glorifica il grande mistero della pietà».(Kontakion)
Queste strofe non comunicano attraverso immagini poetiche solo sensazioni e impressioni ma esprimono una esperienza vissuta che diventa teologia carismatica quando viene annunciata. Il poeta scrittore, dopo aver gustato l’esperienza della vera fede comune, ha saputo cogliere la posizione condannata a Nicea. L’estrema precisione teologica coniugata con immagini letterarie è la caratteristica peculiare di queste composizioni liturgiche. Il poeta ricorda che Ario «ti glorifica come creatura, non come Dio, mescolando sfacciatamente la creatura e il suo autore e meritando così il fuoco eterno»,e ha lacerato in modo empio e violento la fede comune poiché «separa e divide nella Trinità l’eguale gloria e l’eterna maestà; non ammette che sei Uno della Santissima Trinità». Di Cristo ha una percezione parziale, una visione gravemente falsata, «considerandolo mortale anche se in lui è creato tutto l’universo». Esprime una teoria blasfema dividendo «l’unico principio della Santissima Trinità in tre essenze non uguali e di diversa origine».Qui è ben rappresentata tutta l’essenza del pensiero di questo colto, impegnato ma presuntuoso presbitero di Alessandria, che si è lasciato attrarre dalla logica del neoplatonismo e ha letto la Scrittura in modo ideologico. Con le sue dichiarazioni e le sue omelie ha compromesso il mistero di Dio Tri-unità e ha privato la divina economia del suo amore misericordioso. Con le sue affermazioni ha sfigurato il volto di Cristo che non è più dalla sostanza del Padre ma entra nella storia con un volto dimesso che ha perso l’energia e la potenza divina, è creatore ma agisce da servo. Ario così «è caduto nell’abisso degli empi» e si è comportato «come un altro Giuda nella condotta e nel pensiero» perché ha rigettato l’amicizia di Cristo e gli ha dato il bacio del tradimento. Ha perciò subito la stessa sorte di Giuda perché ha voluto sostituire la propria dottrina all’esperienza della Chiesa.
I Padri presenti a Nicea hanno gustato prima la vita della Chiesa nell’acquisizione personale della Scrittura, nella partecipazione ai santi misteri di Cristo, nella sequela dell’autorità degli apostoli. Poi insieme hanno annunciato la vera fede. Per questo «donarono alla Chiesa l’unità della fede; indossando la tunica della verità, tessuta dalla teologia che viene dall’alto». Di questa teologia ci si abbevera con gusto perché è acqua sorgiva e non acqua contenuta nella plastica, come ha affermato con vivace immagine Donato Oliverio, il vescovo bizantino di Lungro, in Calabria (3). La vita, e la fede, bizantina è tutta presente nella sua liturgia, che l’Occidente non conosce ma è sollecitato a sperimentare per poterla gustare.
Nella commemorazione di Nicea ci si trova di fronte a un chiaro esempio di sinodalità che si realizza solo confessando insieme la assoluta divinità del Verbo insieme con la sua completa umanità. Fedeli a «i loro dogmi divini» viviamo veramente la comunione ecclesiale e «nella certezza della fede adoriamo insieme il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo, Trinità consustanziale in un’unica divinità». Solo abbeverandosi insieme alla vita divina di Cristo i cristiani possono diventare «cantori dello Spirito che hanno fatto risuonare l’armonia divina» e proclamare all’unisono la misericordia di Dio.
In questa esperienza la Chiesa si sente immagine della Tri-unità che si manifesta nella storia della salvezza. Le tre Persone sono tutte una dentro l’altra, vivono un’unica vita perfetta, che ha nel Padre la sorgente, in un assoluto gesto di amore reciproco che le stringe in unità. Questa esperienza ecclesiale è il fondamento della fede comune e della sinodalità perché vive l’energia trinitaria che ha la forza di coniugare in unità temi ancora controversi.
Nella memoria del grande sinodo universale di Nicea si intuisce uno stretto sentiero per affrontare il problema del Filioque, quello delle diverse concezioni della sinodalità della Chiesa e infine l’infallibilità personale del vescovo di Roma. Le controversie hanno la possibilità di soluzione solo se i protagonisti compiono insieme una continua esperienza esistenziale del mistero trinitario e della divina economia di salvezza.
Note:
1) Professione di fede dei 318 Padri, nel sito web <https://www.clerus.org/clerus/dati/2000-06/13-2/PrimoNicea.html> (gl’indirizzi Internet dell’intero articolo sono stati consultati il 30-6-2025).
2) Cfr. Card. Kurt Koch, Il significato del primo Concilio Ecumenico a Nicea nell’anno 325 per noi oggi. Lezione durante l’incontro con i sacerdoti, religiosi e laici responsabili dell’Arcidiocesi di Belgrado, del 27 ottobre 2022, nel sito web <https://www.christianunity.va/content/unitacristiani/it/cardinal-koch/20220/conferenze/Il-Significato-del-primo-Concilio-Ecumenico-a-Nicea-nell-anno-325-per-noi-oggi.html>.
3) Cfr. Elia Hagi, L’Eparchia di Lungro si prepara a celebrare i 1700 anni dal Concilio di Nicea, 24-9-2024, nel sito web <https://ecodellojonio.it/articoli/ecocult/2024/09/l-eparchia-di-lungro-si-prepara-a-celebrare-i-1700-anni-dal-concilio-di-nicea>.
