Verità dimenticate, Cristianità n. 68 (1980)
Beni e mali temporali comuni ai buoni e ai cattivi
Dirà qualcuno: perché, dunque, questa misericordia divina si estende anche agli empi ed agli ingrati? Non per altro, crediamo, se non perché proviene da Colui, che «ogni giorno fa sorgere il sole sui buoni e sui cattivi, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti» (Mt. 5, 4-5). E benché alcuni, riflettendovi, si pentano e si correggano della loro empietà e altri, come dice l’Apostolo: «Disprezzando le ricchezze della bontà e della pazienza di Dio […] secondo la durezza del loro cuore impenitente, si accumulino un tesoro d’ira pel giorno dell’ira e della manifestazione del giusto giudizio di Dio, che retribuirà a ciascuno secondo l’opera sua» (Rom. 2, 4-6), tuttavia la pazienza di Dio invita i cattivi a penitenza, e il suo castigo esercita i buoni nella pazienza. Così la misericordia di Dio abbraccia i buoni per confortarli e la sua severità colpisce i cattivi per punirli.
Piacque, infatti, alla Provvidenza divina preparare ai giusti, nell’avvenire, dei beni dei quali non godranno gli ingiusti, e ai cattivi dei mali dai quali non saranno tormentati i buoni; volle, invece, che i beni e i mali temporali fossero comuni agli uni e agli altri, affinché i beni, essendo posseduti anche dai cattivi, non fossero troppo desiderati e i mali, che ordinariamente colpiscono anche i buoni, non fossero eccessivamente sfuggiti.
Ma vi è grandissima differenza nell’uso delle cose dette prospere e di quelle dette avverse. Chi è buono, infatti, non si esalta per i beni temporali, né si avvilisce per i mali; chi è cattivo, invece, è punito dalla infelicità, perché nella prosperità si corrompe.
Iddio, tuttavia, distribuendo [questi beni e questi mali] manifesta spesso molto palesemente l’opera sua. Infatti, se Dio punisse durante la nostra vita mortale ogni peccato con un castigo manifesto, si potrebbe credere che non sia riservato nulla per il giudizio finale, e d’altronde se in terra ogni peccato sfuggisse ad un castigo manifesto, si potrebbe dubitare dell’esistenza della divina Provvidenza.
Lo stesso si dica riguardo ai beni temporali. Se Iddio non li concedesse con evidentissima liberalità a taluni che glieli chiedono, potremmo dire che ciò non è in suo potere. Se invece li accordasse sempre, potremmo giudicare che non bisogna servirlo se non per essere ricompensati, e il culto, anziché più devoti, ci renderebbe avari e interessati.
Stando così le cose, tutti, buoni e cattivi, sono ugualmente provati da afflizioni; non bisogna, tuttavia, credere per questo che tra di loro non ci siano differenze, quantunque non sia diverso quello che gli uni e gli altri hanno da soffrire. Anche tra coloro che soffrono i medesimi dolori c’è grande differenza: l’identità dei tormenti non identifica vizio e virtù.
Come sotto lo stesso fuoco l’oro risplende e la paglia brucia; e sotto la stessa trebbia la paglia si spezza e il grano si monda; e l’olio non si mescola con la morchia, benché vengano pressati allo stesso torchio, così la stessa prova tormentosa purifica i buoni e condanna, rovina e perde i cattivi. Di qui avviene che, colpiti dalla stessa afflizione, i cattivi detestano e bestemmiano Dio; i buoni, invece, lo pregano e lo benedicono. Ciò che importa non è quello che si soffre, ma chi e come soffre. Agitati e rimescolati allo stesso modo, il fango sprigiona orribili miasmi, l’unguento, invece, esala una dolce fragranza.
SANT’AGOSTINO
La Città di Dio, trad. it., 3ª ed., Edizioni Paoline, Roma 1963, libro I, cap. VIII, pp. 24-26.