Guido Vignelli, Cristianità n. 69 (1981)
Appartenente allo schieramento cattolico contro-rivoluzionario del secolo scorso, coerentemente ostile ai principi anticristiani della Rivoluzione francese, il cardinal Edouard Pie continua a essere uno dei più sicuri maestri della dottrina sociale cristiana. I suoi scritti mettono pienamene in luce il profondo legame che unisce la fede alla politica, intesa come etica sociale, fondata sull’unione ipostatica in Gesù Cristo del naturale con il soprannaturale, dell’umano con il divino, ordini di realtà ben distinti, ma che però Dio vuole operanti in stretta unità. In un tempo in cui, nel mondo cattolico e per manifesta volontà del regnante Pontefice Giovanni Paolo II, la dottrina sociale cristiana sembra tornare ad avere quel riconoscimento che la fece considerare da Giovanni XXIII come «parte integrante della concezione cristiana della vita», il cardinal Pie ricorda come non solo i singoli, ma anche le società devono rendere gloria a Dio Creatore, uniformando le loro istituzioni pubbliche alla legge divina del Decalogo. Un contributo di straordinario valore alla dottrina della restaurazione cristiana della società, per il trionfo del regno sociale di Nostro Signore Gesù Cristo, auspicato e preconizzato dallo stesso cardinale nonostante l’apostasia del suo e del nostro secolo.
Un Pastore in difesa della civiltà cristiana
La regalità sociale di Nostro Signore Gesù Cristo nell’insegnamento del card. Edouard Pie (1815-1880)
Introduzione
Tra i protagonisti della rinascita della dottrina sociale cristiana nel secolo scorso, spicca la figura di un illustre prelato, un principe della Chiesa: il cardinale Edouard Pie, il cui insegnamento è di grande attualità soprattutto per il suo lucido contributo alla valutazione e alla confutazione, conformemente al Magistero della Chiesa, di quel «vizio capitale del liberalismo» (1) che, in seguito ai successi della Rivoluzione dell’89 e di quelle successive, imperversava in tutta l’Europa, creando non poca confusione anche tra i cattolici, divisi già da allora in tre fazioni: «quella che ripudia l’eredità [della Rivoluzione], quella che si rassegna e quella che l’accetta con entusiasmo: scuola intransigente di de Maistre, de Bonald e Veuillot; scuola liberale del secolo XIX; scuola della democrazia cristiana» (2). Il card. Pie appartiene allo schieramento più rigorosamente cattolico, quello degli intransigenti: egli non s’illude sulla possibilità di «battezzare» i princìpi sovversivi dell’89, ma comprende, anzi, il carattere anticristiano e satanico della Rivoluzione, le cui terribili conseguenze future riesce a prevedere con lucidità quasi profetica. Degno pastore della sua Chiesa, egli si affannerà per curare i mali intellettuali e morali dell’uomo moderno, ma sempre applicando i principi immutabili del Vangelo e attenendosi alle indicazioni del Magistero pontificio (3).
Nato il 26 settembre 1815 a Pontgouin, presso Chartres, da un’umile famiglia di calzolai, Edouard Pie era stato ordinato sacerdote nel 1839 a Parigi, proprio mentre – fatto significativo – la città era in tumulto per una rivolta capeggiata dal socialista Blanqui. Appena trentaquattrenne, nel 1849, era già vescovo di Poitiers, lontano successore di quel sant’Ilario, la cui figura lo aveva sempre affascinato.
Dedicatosi con zelo alla cura dei poveri, all’insegnamento ai fanciulli e alla formazione del clero – che volle fosse istruito secondo la rigorosa dottrina tomistica -, diventò talmente popolare tra i suoi diocesani che le persecuzioni di cui fu oggetto da parte del governo massonico rischiarono spesso di provocare vere e proprie rivolte. Antigallicano, restaurò a Poitiers la liturgia romana; legittimista, scrisse per il conte di Chambord un progetto di costituzione monarchica: intransigente, appoggiò i circoli gravitanti attorno al giornale L’Univers, convinse Pio IX a promulgare il celebre Sillabo e difese energicamente i diritti della Chiesa anche di fronte all’imperatore Napoleone III. Durante il Concilio Vaticano I, collaborò alla stesura delle costituzioni e lavorò a favore della proclamazione del dogma della infallibilità pontificia, in opposizione alla fazione contraria capitanata dal vescovo filoliberale Dupanloup. Nel 1878 fu fatto cardinale da Leone XIII, un Papa che, nelle sue encicliche sociali, dimostrerà di condividere le valutazioni e le analisi del vescovo di Poitiers. L’illustre prelato si spense prematuramente, il 18 maggio 1880, ad Angoulême, poco dopo aver tenuto un sermone che terminava con queste parole: «Fratelli miei, anche se siete condannati ad assistere al trionfo del male, non acclamatelo mai!» (4).
I. «Oportet illum regnare»
Nella esposizione della dottrina sociale cristiana, il card. Pie preferisce seguire il metodo strettamente teologico anziché quello apologetico: non parte, cioè, dall’uomo bensì da Dio, in modo da mettere pienamente in luce non solo i legami tra fede e politica, ma anche il fondamento teologico della politica cristiana stessa, la quale, in quanto etica sociale, si rivela fondata sull’assolutezza della sovranità divina, e non, come spesso si crede, su qualcosa di relativo e di transitorio. Pertanto, «tutta la politica del card. Pie consisterà nell’affermare, in Cristo, il diritto sovrano di Dio» (5).
«Nessuno può porre un fondamento diverso da quello già stabilito [da Dio] cioè Gesù Cristo» (6); di conseguenza, afferma il cardinale, la Croce non è «l’insegna di una Scuola alla quale ci si possa affiliare o sottrarsi a piacimento» (7); l’uomo è moralmente obbligato a riconoscere l’ordo salutis stabilito da Dio: «Gesù Cristo non è affatto facoltativo» (8). Dato che «tutto è stato creato da lui e per lui» (9), egli ha dunque un diritto sovrano su tutta la creazione, della quale è re nel senso pieno del termine, in quanto «regge», governa tutte le cose dirigendole al loro fine (10): «Mi è stata data ogni potestà, come in Cielo così anche sulla terra» (11).
La fonte, il fondamento dei diritti di Cristo è la sua stessa Persona, che unisce indivisibilmente in sé le due nature, quella umana e quella divina (12): «Un Dio fattosi uomo per amore loro [degli uomini] acquista su di essi, per il fatto della sua natura divina che li supera infinitamente, e della Sua natura umana che li unisce a sé stesso, la pienezza dei diritti nell’unità della sua persona» (13).
L’unione ipostatica in Cristo è realmente l’unione tra naturale e sovrannaturale, due ordini di realtà ben distinti che però, per volontà di Dio, devono necessariamente operare in stretta unità (14). Il Redentore è quindi re sia come uomo che come Dio, in virtù della sua nascita eterna, della sua nascita temporale e della conquista del mondo compiuta sulla croce; pertanto, «né nella sua Persona, né nell’esercizio dei suoi diritti, Gesù Cristo può mai essere diviso, dissolto, frazionato» (15): così dicendo, il card. Pie riferisce esplicitamente la fondamentale ammonizione – dell’apostolo san Giovanni di non «dissolvere Gesù» (16).
Inoltre, «se il Cristo è il Dio fattosi uomo, l’uomo tutto intero rientra nell’ordinamento di cui egli è il centro, ed è tenuto a lasciarsi sottomettere dalla sua legge […] ed a gravitare verso di lui» (17). Niente nella natura umana, dunque, può rivendicare l’indipendenza da Dio: l’uomo, essendo – in ogni suo aspetto – creatura, è totalmente sottomesso all’autorità divina. Essendo la regalità vera e propria una suprema potestà di dirigere al loro fine gli esseri liberi organizzati in società perfetta – mediante il triplice potere legislativo, esecutivo e giudiziario – (18), quella di Cristo comporta, nondimeno, un vero e proprio governo universale del creato, non certo un semplice regno onorifico; pertanto, il– Signore ha pieno diritto di stabilire leggi per l’Uomo moralmente obbliganti, di –giudicare i ribelli alla sua volontà e di punire gli impenitenti per le loro colpe (19). Il cristiano è appunto l’uomo che ordina tutto sé stesso a Dio: intelligenza, volontà, cuore, sensibilità (20).
«Porro unum est necessarium» (21): «oportet illum regnare» (22), è necessario che Cristo regni.
II. Cristo re delle nazioni
Questi princìpi che abbiamo affermato – avverte il card. Pie – costituiscono il cuore della dottrina sociale della Chiesa, in quanto sono gravidi di conseguenze non solo per gli uomini singoli, ma anche per le società. Cristo, proprio in quanto re dei re, si proclama signore e padrone anche delle nazioni (22): a lui spetta di esercitare una vera Suprema regalità sulle società umane, in qualità di loro signore e padrone. Infatti, il Nome di Dio non può venire santificato pienamente e totalmente se non è pubblicamente riconosciuto; la volontà divina non è fatta sulla terra come in Cielo se non viene realizzata anche pubblicamente e socialmente (24). Dio ha il diritto «di comandare agli Stati come agli individui […], deve “regnare ispirandone le leggi, santificandone i costumi, illuminandone l’insegnamento, dirigendone i consigli, regolando le azioni dei governanti come dei governati» (25). Del resto, la società e la nazione sono volute da Dio come strumenti per il suo piano di salvezza dell’umanità (26); inoltre, finché Cristo non regna sulle società, la sua influenza sugli individui stessi resta superficiale e precaria (27): «le decisioni di coloro che in questo mondo presiedono ai regni hanno un’importanza reale, potendo fare molto per la vita o per la morte delle anime» (28). Insomma, «non soltanto gli individui ma anche i popoli sono obbligati a render omaggio a Dio: l’atto di fede è un dovere per le società come per gli individui» (29).
Anche prescindendo dalla fede – aggiunge il Vescovo di Poitiers – la ragione ci dimostra che, se Dio creatore e signore dell’uomo, lo è anche della società, in quanto, avendo egli fatto l’uomo come essere sociale per natura, è il fondatore della socialità umana, l’autore della società, in quanto tale. D’altronde, se «i suoi diritti [di Dio] si estendono tanto sugli esseri collettivi quanto sulle esistenze individuali», e se «ogni nazione è una persona morale», collettiva, essa «non può di conseguenza dispensarsi dal dare ai suoi atti quel valore morale che consiste nella loro conformità alla legge di Dio» (30). Inoltre, come afferma sant’Agostino, «la società non essendo altro che una concorde moltitudine di uomini, […] il bene della società non ha origine diversa da quello dell’uomo» (31), cioè entrambi sono compresi nel Sommo Bene, e come tali dipendono dalla Provvidenza divina.
Stando così le cose, anche l’uomo politico e l’uomo di Stato devono piegare il ginocchio davanti a Dio e mettere la loro autorità al servizio del re dei re (32). Ogni principe, per piacere a Dio e rendere il suo popolo veramente felice, deve anche, per Mezzo del suo esempio e di leggi piene di saggezza, condurre tutti i suoi sudditi a servire Dio con fedeltà (33); egli deve servire Dio stabilendo leggi pie e sanzionandole con l’opportuno vigore (34). «Non est potestas nisi a Deo» (35); avendo ricevuto da Dio il diritto di governare – la regalità umana non è che l’immagine di quella divina -, l’uomo di Stato deve difendere nella vita politica e sociale i diritti di Dio e modellare le leggi e le istituzioni secondo l’ordine divino. Solo così Dio benedirà le nazioni, che potranno, quindi, godere quella prosperità e quella felicità–che la provvidenza concede a chi se ne fa strumento.
Del resto, lo stesso Stato, in quanto tale, non può fare a meno del sostegno della religione. La società, infatti, si basa su diritti e su virtù; i diritti che legittimano l’organizzazione sociale sono quelli di paternità, che costituisce la famiglia, quello di sovranità, che si realizza nelle diverse forme di potere, e quello di proprietà, assolutamente necessario per lo sviluppo della vita familiare e sociale; ma tutti questi diritti hanno la loro ragione d’essere e il loro fondamento solo in Dio, che è il diritto per essenza: senza il sommo legislatore, non si danno diritti né doveri. Le virtù che impediscono alla società di corrompersi e che la rendono prospera sono quelle della giustizia, dell’abnegazione, dell’ubbidienza, della carità, della concordia, della moderazione; ma senza la fede, senza la morale soprannaturale, senza la grazia soprattutto, queste virtù muoiono irrimediabilmente e le società si sgretolano (36). Insomma, «gli Stati non sussistono che alla condizione di mettere la verità a base del governo» (37), e la verità di fede del Dio creatore e provvidente dal quale «procede ogni paternità, in Cielo come in terra» (38), è alla base di tutto.
Orbene, su questa terra, la Chiesa cattolica è la depositaria della vera fede e dell’integra morale soprannaturale, è l’esercito, il tribunale, la cattedra di Cristo; come tale, gli Stati e i governanti devono rispettarla e ubbidirle come a Dio stesso; per contro, gli uomini di Chiesa, in quanto ministri di Dio, hanno l’obbligo grave di «portare la Verità davanti ai re come davanti agli individui» (39), richiamando i potenti del mondo ai loro doveri verso il signore dei popoli.
Questo è il quadro dell’ordine sociale disposto secondo la Sapienza divina, l’armonica bellezza del quale non è possibile ignorare. «Perfetta è la legge del Signore: essa conforta l’anima» (40).
III. «Dirumpamus vincula eorum!»
A questo mirabile ordine divino gli uomini si sono ribellati; spinti dalle loro insane passioni; hanno voluto ripetere il gesto e il grido perverso di Lucifero («Non serviam!» [41]) e hanno respinto il loro Signore: «in propria venit, et sui eum non receperunt» (42). La risposta di molti all’amore divino è stata la rivolta contro il loro benefattore, rivolta espressa dal salmo 11 che il card. Pie commenta magistralmente: «insorgono i re della terra, i principi cospirano uniti contro Dio e contro il suo Cristo [dicendo]: spezziamo i loro legami, scuotiamoci di dosso i loro pesi!» (43). Il giogo di Cristo, così leggero e soave, è da costoro ritenuto un peso umiliante e la sua legge, così dolce, «è ritenuta una catena, e si farà appello a tutte le passioni per spezzarla» (44). «Dirumpamus vincula eorum!» è il loro motto: spezzare tutti i legami di dipendenza da Dio e soprattutto «dissolvere Cristo» nell’unità dei suoi diritti, sollevargli contro i popoli da lui creati e redenti, esiliarlo in Cielo facendolo diventare un re senza sudditi terreni (45), ridurlo a un patetico sovrano che, nel mondo, regna ma non governa. Così facendo, l’uomo ribelle spezza il legame tra soprannaturale e naturale, proclama l’esaltazione del secondo ordine affinché usurpi le prerogative del primo, si attribuisce le perfezioni e i diritti di Dio per costruire un mondo solo umano, nel quale non vi sia più traccia di Dio (46).
Questa rivolta, figlia dell’orgoglio e della sensualità, si esprime e si giustifica dottrinalmente nel naturalismo, che proclama «la rivendicazione del diritto […] di vivere nella pura sfera dell’ordine naturale» (47), respingendo ogni sottomissione a Dio; «la sua passione ostinata […] è detronizzare Cristo, scacciarlo dovunque […], escluderlo dal pensiero e dall’animo degli uomini. […] Il naturalismo […] è ben peggiore dell’eresia: è puro anticristianesimo» (48). L’uomo non accetta più di riconoscere la verità e di praticare il bene, ma vuole crearsi una sua verità e fare ciò che gli piace; per far questo, tenta di tener lontane da Dio tutte le forze della natura umana, per impedire loro di servirlo (49). Questi risultati, però, – e i ribelli lo sanno bene – non possono essere pienamente ottenuti se non vengono scalzate le radici sociali della fede e della morale, se le leggi e le istituzioni e i costumi cristiani non vengono travolti da una tempesta di passioni organizzate e sanzionate socialmente. Ed ecco allora che il naturalismo «tende con tutte le sue forze a uscire dal dominio delle speculazioni intellettuali per impadronirsi della direzione degli affari umani. L’errore naturalista ha l’ambizione di diventare un dogma sociale. […], aspira a diventare la legge degli Stati» (50). Rompendo, quindi, il legame tra le nazioni e il Creatore, il regno di Cristo viene compromesso; è infatti innegabile che «quando l’errore s’incarna nelle formule di legge e nelle pratiche amministrative, esso penetra gli animi a una profondità dalla quale diventa quasi impossibile estirparlo» (51), e, per l’influenza dello Stato miscredente, «l’ateismo sociale finisce col causare quello individuale» (52).
Si assiste così all’apostasia delle nazioni, dimentiche che «l’errore dominante, il crimine principale di questo secolo è la pretesa di sottrarre la società pubblica al governo e alla legge di Dio» (53); le società ripudiano la sovranità divina, proclamando l’indifferentismo politico in– materia di religione (54), realizzando socialmente la «libertà di coscienza» (55), la quale, abbandonando all’arbitrio individuale o collettivo il fondamento dell’intelligenza – cioè la verità – e della volontà – cioè il bene -, si traduce nelle leggi tramite l’empia Dichiarazione dei diritti dell’uomo dell’89, che riassume e proclama «la negazione formale dei diritti di Dio» (56), in quanto «chi proclama i diritti dell’uomo senza proclamare quelli del Re Gesù, erige l’uomo come suo proprio idolo in faccia al Dio detronizzato» (57). Si assiste, di conseguenza alla imposizione della «libertà di culto», con la quale – scriveva già Pio VII – «si confonde la verità con l’errore […]; inoltre, promettendo favore e sostegno alle sette eretiche ed ai loro ministri, si tollerano e si favoriscono non solo le persone, ma anche gli errori» (58). Si arriva, quindi, alla legittimazione dell’assoluta libertà d’insegnamento e di stampa, che corrompe le intelligenze e sfalda le coscienze al punto da rendere quasi impotente anche la più abile predicazione e il più zelante apostolato (59). Lentamente, le virtù sociali e i buoni costumi si corrompono per mancanza di vigilanza e di protezione sociale, la moralità svanisce e la religione viene ridotta al lumicino, con conseguente strage di anime: la società diventa l’anticamera dell’inferno.
I figli delle tenebre, più furbi di quelli della luce, trovano un prezioso alleato, nella loro opera di penetrazione e di dissoluzione, nel cattolicesimo liberale, il quale si illude di poter salvare il regno di Cristo con un compromesso, limitandolo agli individui e alle famiglie, e rinchiudendo la Chiesa nel santuario; la società viene lasciata «libera» di governarsi senza tener conto delle leggi di Dio. Il card. Pie è giustamente severo con questa posizione, e la paragona a quella di alcuni eretici che – già ai tempi di san Gregorio Magno – furono duramente condannati da questo Papa perché, «pur facendosi un dovere di offrire a Gesù l’incenso, non vollero però aggiungervi anche l’oro, cioè non vollero riconoscere e proclamare la sua regalità sociale» (60), come invece fecero appunto i Magi. «Dire che Gesù Cristo è il Dio degli individui e delle famiglie, ma non dei popoli delle società, è dire che egli non è Dio; dire che il cristianesimo è la legge dell’uomo singolo, ma non dell’uomo sociale, è dire che esso non è divino; dire che la Chiesa è giudice della morale privata, ma non ha niente a che fare con la morale pubblica e politica, è dire che essa non è divina» (61), è pretendere che rinneghi sé stessa, «che insulti Colui del quale ella tiene il posto sulla terra» (62). Dio non lascerebbe impunito un simile tradimento.
IV. Decadenza delle nazioni apostate
Le conseguenze di questa apostasia delle società, prosegue il cardinale, ricadono sui colpevoli di questo crimine: non solo gli individui, ma anche le nazioni finiscono in una specie di inferno (63), sia pur terreno. Il naturalismo sociale porta gli Stati all’ateismo e alla corruzione morale da cui è nato (64). Se è vero che la infedeltà verso Dio «è il vertice della perversità morale» (65), le nazioni macchiatesi di questa infedeltà rischiano di cadere rapidamente nella dissoluzione più profonda. Negato Dio, fonte di ogni autorità, nessun superiore umano può esser tollerato dall’orgoglio dei popoli: «una volta ammesso il dogma della deificazione dell’uomo, l’idolatria di sé stessi diventa un culto […] e l’egoismo è elevato alla dignità di religione» (66); «una volta misconosciuta la sovranità di Dio, ciascuno vuole ormai essere sovrano nella sfera che occupa» (67). Quest’orgoglio si preoccuperà di sanzionare il trionfo, spesso già realizzatosi, della sensualità sfrenata, e famiglie e individui non potranno resistere a questa tempesta di passioni se non con un aiuto speciale della grazia. Come si vede, nulla dell’uomo viene risparmiato: il naturalismo – dice lucidamente il card. Pie – si sforza «di raggiungere e di colpire l’uomo fino alla radice della sua esistenza» (68) per cancellarvi ogni traccia della somiglianza con Dio.
Ma il Signore dei Dominatori, «se non regna mediante i benefici che derivano dalla sua presenza, regnerà mediante le calamità che sorgono inevitabilmente dalla sua assenza» (69). La legge della divina Provvidenza è netta: «come la nazione si comporta verso Dio, così Dio si comporta con le nazioni» (70). Pertanto, «il potere che, come tale, ignora Dio, sarà come tale ignorato da Dio […] e questo è il massimo della sventura, è l’abbandono più assoluto» (71). La vita sociale ne esce minata alla radice, nei suoi fondamenti giuridici: «Se il dogma dell’esistenza di Dio non è più nella legge, il fondamento della legge non è più presente nella legge stessa, la quale noti è più che una parola, una chimera» (72). L’autorità, i poteri, le istituzioni e le leggi diventano mutevoli come la sabbia del deserto, le società finiscono in preda alle convulsioni (73). Svanisce la certezza del diritto, e con essa anche la pace sociale: «quando la religione non è più la mediatrice tra i re e i popoli, il mondo è di volta in volta vittima degli eccessi degli uni e degli altri» (74).
Il crollo delle virtù sociali comporta la rapida decadenza delle élite e, quindi, degli stessi strati sociali sottostanti: avendo perso di vista il Sommo Bene, nessuno è più in grado di realizzare il bene comune (75). La conclusione di questo processo è individuata dal card. Pie, con lucidità profetica, nel trionfo della tirannia comunista: «il naturalismo punta alla negazione delle basi stesse della natura razionale, alla negazione di ogni regola del giusto e dell’ingiusto, e quindi al ribaltamento di tutti i fondamenti della società: eccoci giunti al socialismo e al comunismo» (76).
V. «Instaurare omnia in Christo»
Umanamente parlando, come sarebbe possibile vincere questa battaglia delle tenebre contro la luce, quando i cristiani stessi si lasciano così spesso sopraffare nel loro intimo? Ma la virtù teologale della speranza ha un fondamento ben più solido di quello della speranza semplicemente umana: «ciò che è impossibile all’uomo, è possibile a Dio» (77). L’eterno Padre ha promesso al Figlio la vittoria finale del suo santo scettro: «Ti consegnerò in eredità le nazioni» (78); sono, purtroppo, proprio i buoni che esitano a farsi strumenti della giustizia divina. Il soccorso divino ritarda perché sono troppi i cristiani che dubitano di loro stessi e dei loro princìpi: «oggi più che mai – lamenta il cardinale – la principale forza dei malvagi sta nella debolezza dei buoni, e l’energia del regno di Satana in mezzo a noi sta nello snervamento del cristianesimo presso i cristiani. […] La lotta del cristiano con l’impossibile è una lotta doverosa, una lotta necessaria; […] bisogna lavorare in questo mondo, ciascuno secondo le proprie forze, per ottenere tutti i risultati che sono in nostro potere» (79). La responsabilità è grave: «non è un cristiano degno di questo nome colui che non si impegna attivamente, nella misura delle sue forze, a realizzare il regno temporale di Dio e ad abbattere ciò che lo ostacola» (80).
Quest’opera è ovviamente impossibile compierla, anzi nemmeno la si può iniziare, senza l’aiuto di Dio; per ottenerla, preghiera e penitenza sono indispensabili (80). Quando la riforma spirituale personale è stata compiuta, bisogna intraprendere il grande sforzo di restaurazione sociale con l’intenzione di compierla tutta, senza abbandonare alcun campo al nemico, togliendogli di mano tutte le armi di cui si serve e adoperando tutte quelle che ci possono essere utili; soprattutto, non bisogna fare come quei malati «che invocano a gran voce la medicina, ma a condizione di non accettare altra cura che quella che li ha ridotti al lumicino» (82): la medicina va ingoiata tutta, anche se amara; il veleno va tolto tutto, anche quello a cui ci si è assuefatti; questa guarigione sociale o sarà integrale, o si ricadrà in un malessere peggiore. O si riallacceranno tutti i legami con Dio, che sono stati spezzati, o si tornerà a precipitare nel nulla.
Si cominci dunque, esorta il card. Pie, con il seguire il consiglio di san Pietro: se il maledetto leone vi gira intorno cercando di divorare tutto quello che resta, «resistetegli, forti nella fede» (83). Innanzitutto, dunque, mantenere la vera fede, la buona dottrina cattolica: infatti, «noi non possiamo far niente senza la grazia: orbene, la grazia ha fatto un’alleanza indissolubile con la dottrina […]; quando la dottrina cristiana cede, si deforma, ben presto il comportamento non è più così fermo, così retto» (84). Questo «depositum fidei», conservato nella sua integrità e purezza, bisognerà comprenderlo bene a fondo per farlo fruttare non solo in noi stessi, ma anche negli altri, ai quali lo si dovrà trasmettere fedelmente, in modo da «far regnare Gesù Cristo nella loro intelligenza mediante l’istruzione religiosa» (85): così sarà stato riallacciato il primo legame, quello principale, che unisce gli uomini alla Sapienza Incarnata.
La salvezza della civiltà cristiana non può, però, non avere il suo cuore nella famiglia, che deve riprendere quell’esercizio di virtù e di pie usanze, che le permettono di santificarsi e di collaborare in maniera determinante al risanamento della società (86). I genitori si preoccupino, poi, che tutta la istruzione dei figli sia integralmente cattolica, poiché «la religione che non ha gettato le sue radici in tutti i campi dell’intelligenza umana e che si […] isola da tutti gli altri elementi dell’educazione è come un albero sbattuto da ogni vento, che verrà sradicato dalla prima tempesta» (87); abbandonare i figli all’istruzione «neutra» è come lasciarli uccidere lentamente da un veleno insidiosissimo (88).
Ma anche oltre il focolare domestico, anche nei posti pubblici (di lavoro, di ritrovo, dovunque) il cristiano deve testimoniare, con le parole e con le opere, la sua fede: «di fronte a quest’apostasia della moltitudine, voi [cristiani] siete tenuti a dichiarare più apertamente la vostra fede, diventando così un esempio e una protesta; […] Colui che riconoscerete davanti agli uomini […] vi riconoscerà davanti al suo Padre» (89), mentre «i paurosi e gli increduli verranno ricompensati con un mare di fuoco» (90).
In questo quadro di restaurazione sociale, il card. Pie ha una attenzione speciale per le élite, a motivo delle loro enormi responsabilità e delle loro straordinarie capacità d’influenza sulle realtà nazionali. Proprio per queste particolarità, dotti e governanti hanno maggiori doveri agli occhi di Dio: debbono anch’essi, e più degli altri, istruirsi nella religione (91), nella vera filosofia, nel diritto naturale e nella dottrina sociale cristiana (92); debbono, soprattutto, testimoniare la loro fede nel loro lavoro, cioè nell’insegnamento o nelle attività politiche o economiche; ma dovranno anche, per utilità propria e sociale, assistere ufficialmente al culto cattolico, a nome delle organizzazioni che rappresentano (93): «in conveniendo populos et reges in unum, ut serviant Domino» (94).
Condizione fondamentale, in ogni tempo, per la edificazione della Cristianità è stata l’alleanza stretta tra Chiesa e Stato, tra Trono e Altare; essa lo sarà altrettanto affinché la restaurazione sospirata si realizzi. La collaborazione tra potere politico e autorità spirituale – auspicata da numerosi passi delle sacre Scritture (95) – ha un fondamento teologico ben illustrato dal card. Pie: «Gesù Cristo ha unito in sé, indissolubilmente, l’ordine naturale e quello soprannaturale, e impone alla società cristiana un’unione analoga. Come in Gesù Cristo la natura divina e quella umana sono distinte, senza confondersi, conservando ciascuna […] le proprie qualità e operazioni, ma unite indissolubilmente, senza mai separarsi, nell’unica Persona del Figlio di Dio, in maniera analoga la Cristianità è costituita da due elementi, la Chiesa e lo Stato, che devono essere distinti, non confusi, ma uniti e non separati. […] Le due nature di Cristo essendo ineguali e quindi subordinate – l’umana alla divina -, i due elementi della società cristiana devono parimenti essere subordinati – lo Stato alla Chiesa» (96). Nessuna tolleranza, quindi, per il «bastardo» sistema liberale di separazione tra Stato e Chiesa, che costituisce una grave offesa a Dio (97); non esistono due dei – uno per il dogma, l’altro per le leggi – ma uno solo è il Dio vivente. Quest’alleanza tra le due potestà cristiane dovrà riflettersi in una costituzione politica che proclami il cattolicesimo religione di Stato, in quanto, fede della nazione (98); in essa lo Stato si impegnerà non solo a garantire alla Chiesa la piena libertà e indipendenza nell’esercizio delle sue funzioni, ma anche a informare i propri atti, le proprie leggi e istituzioni secondo i princìpi del diritto naturale e cristiano (99). Solo così potrà essere veramente realizzata la pace di Cristo nel regno di Cristo.
Conclusione
«Quare fremuerunt gentes, et populi meditati sunt inania?» (100). Che mai sperano di ottenere, i nemici di Cristo, agitandosi nelle loro vane rivolte? Satana, il loro caporione, non è forse già stato vinto e condannato? (101). Le tribolazioni che essi cercano, accanitamente, di infliggere alla Chiesa, non diventano forse, per essa, preziose occasioni di purificazione, di fecondità, di trionfo? (102). Gli assalti tentati contro la civiltà cristiana non saranno forse sfruttati da Dio per umiliare i suoi nemici, facendola risorgere più splendente di prima? Noi confidiamo, scrive il cardinale, «che sorgeranno ancora, in questo mondo, giorni felici e fausti per la religione, che la Verità brillerà di un nuovo splendore nella storia, […] che è nei destini della nostra condizione mortale di gioire ancora di un’era di consolazione, prima del periodo di annientamento che precederà il trionfo nell’eternità» (103). «Si avvicina l’ora nella quale Cristo tornerà a regnare non solo nelle intelligenze, nei cuori, nelle anime dalle quali era stato esiliato, ma anche nelle istituzioni, nelle società, nella vita pubblica dei popoli» (104). Il trionfo terreno del regno sociale di Cristo sarà la preparazione del trionfo eterno nel regno dei Cieli.
Guido Vignelli
Note:
(1) LEONE XIII, Enciclica Libertas, del 20-6-1888, in La pace interna delle nazioni. Insegnamenti pontifici, a cura dei monaci di Solesmes, trad. it, Edizioni Paoline, Roma 1962, p. 172.
(2) ROBERT HAVARD DE LA MONTAGNE, Historia de la democracia cristiana, trad. spagnola, Editorial Tradicionalista, Madrid 1950, pp. 13-14.
(3) Cfr. ÉTIENNE CATTA, La doctrine politique et sociale du cardinal Pie, Nouvelles Editions Latines, Parigi 1959, p. 40.
(4) Ibid., p. 59. Per altre notizie sulla vita del cardinale, cfr. mons. L. BAUNARD, Histoire du cardinal Pie, 2 voll., Parigi 1886; dom BESSE O. S. B., Le cardinal Pie, sa vie, son action religieuse et sociale, Parigi 1903; card. LOUIS BILLOT, Le centenaire de la naissance du cardinal Pie, in Bulletin catholique du diocèse de Montauban, 2 e 9 ottobre 1915.
(5) É. CATTA, op. cit., p. 66.
(6) 1 Cor, 3, 11.
(7) Card. EDOUARD PIE, Oeuvres, Leday, Parigi 1890-1894, vol. II, pp. 386-387. In seguito ci riferiremo a queste Opere indicando soltanto il volume e la pagina della citazione.
(8) II, 381.
(9) Col. 1, 16.
(10) Le argomentazioni, bibliche e patristiche, che il card. Pie porta per dimostrare questa verità, sono sostanzialmente quelle riassunte poi da Pio XI nell’enciclica Quas primas, dell’11-12- 1925, che risente non poco dell’influenza dell’insegnamento del vescovo di Poitiers (cfr. La pace interna delle nazioni, cit., pp. 331-337), e, più recentemente, da mons. ANTONIO DE CASTRO MAIER nella sua Carta Pastoral sobre a Realeza de Nosso Senhor Jesus Cristo, dell’8-12-1976 (trad. it. in Cristianità, anno VI, n. 38-39, giugno-luglio 1978, pp. 4-7). Gli interventi del card. sull’argomento si possono trovare, tra l’altro, in: III, 511 ss.; VIII, 56 ss.; X, 241 ss.
(11) Mt. 28, 18.
(12) Cfr. DENZINGER-SCHÖNMETZER, Enchiridion Symbolorum, Roma 1976, 250 (Concilio di Efeso), 302 (Concilio di Calcedonia), 555-557 (Concilio Costantinopolitano III).
(13) É. CATTA, op. cit., p. 68.
(14) Cfr. V, 39-40.
(15) IV, 588-589. Cfr. Pio XI, Enciclica Quas primas, cit., p. 332.
(16) Cfr. 1 Gv. 4, 3: «Omnis spiritus, qui solvit Iesum, ex Deo non est, et hic est Antichristus». «Dissolvere Cristo» è infatti il motto implicito in ogni eresia, in quanto tentativo di scegliere, separandolo dagli altri, un aspetto della verità su Gesù (per esempio: accettarne l’umanità respingendone la divinità).
(17) III, 168.
(18) Cfr. mons. ANTONIO PIOLANTI, Dio Uomo, Desclée & C., Roma 1964, p. 592.
(19) Cfr. III, 497-545, e Pio XI, Enciclica Quas primas, cit., pp. 337-338.
(20) Cfr. Pio XI, Enciclica Quas primas, cit., pp. 350 e 332. Sull’aspetto spirituale della questione, cfr. MARIANO CORDOVANI O. P., Il Regno di Dio, Studium, Roma 1944.
(21) Lc. 10, 42.
(22) 1 Cor. 15, 25.
(23) Cfr. V, 175-177; IV, 514 ss, dove il card. Pie cita i passi biblici che confermano questa verità così misconosciuta.
(24) Cfr. III, 498-499.
(25) L. BAUNARD, op. cit., vol. I, pp. 698-699.
(26) Cfr. V, 181-182.
(27) Cfr. l’introduzione del canonico VIGUÉ a Pages choisies du Card. Pie, Parigi 1926, p. LXI.
(28) I, 247.
(29) X, 380.
(30) VII; 3-4.
(31) SANT’AGOSTINO, Epistula CLV ad Macedonium, 3.
(32) Cfr. VIII, 64.
(33) Cfr. THÉOTIME DE SAINT-JUST O. M. C., La Royauté sociale de N. S. Jésus Christ d’après le card. Pie et les plus récents documents pontificaux, Emmanuel Vitte, Lione-Parigi 1931, –p. 77: Per un ritratto morale e spirituale del re o dell’uomo di governo cristiano, cfr. De la perfección del cristiano en el estado seglar, del venerabile p. LUIS DE LA PUENTE, Barcellona 1900, t. II, passim.
(34) Cfr. SANT’AGOSTINO, Epistula CLXXXV ad Comitem Bonifacium, nella quale il santo Dottore riporta i riferimenti scritturali e sostiene il dovere dell’autorità di combattere l’errore religioso. Nello scritto Contra Cresconium (L, III, 51), anch’esso citato dal Card. Pie (cfr. V. 178), sant’Agostino precisa: «In hoc enim reges, sicut eis divinitus praescribitur, Deo serviunt in quantum sunt reges; si in regno suo bona, iubeant, mala prohibeant, non solum quae pertinent ad humanam societatem, verum etiam ad divinam religionem».
(35) Rm. 13, 1; cfr. LEONE III Enciclica Immortale Dei, dell’1-9-1885, in La pace interna delle nazioni, cit., p. 118.
(36) Cfr. THÉOTIME DE SAINT-JUST, op. cit., p. 142.
(37) IX, 213.
(38) Ef. 3, 15.
(39) L. BAUNARD, op. cit., t. II, p. 694.
(40) Sal. 19, 8.
(41) Ger. 2, 20.
(42) Gv. 1, 11.
(43) Sal. 11, 2-3.
(44) X, 241 ss.
(45) Cfr. III, 167.
(46) Cfr. card. E. PIE, Oeuvres Sacerdotales, J. Leday, Parigi 1895, t. II, pp. 319-325.
(47) V, 41.
(48) VII, 193-194.
(49) Cfr. III, 167.
(50) V, 170-171.
(51) VII, 573.
(52) THÉOTIME DE SAINT-JUSTE, op. cit., p. 122.
(53) VII, 3; cfr. Pio XI, Enciclica Quas primas, cit., p. 343.
(54) Quest’indifferentismo – scriverà poco più tardi un amico del card. Pie, dom PROSPER GUÉRANGER, «è il maggior crimine che una nazione possa commettere» (Lettre inédite à Montalembert, in Annales de Philosophie Chrétienne, Parigi, novembre 1910).
(55) Pio IX, Enciclica Quanta cura, dell’8-12-1864, in La pace interna delle nazioni, cit., pp. 53-54. Una buona e sintetica trattazione dell’argomento si può trovare nell’opera del card. ALFREDO OTTAVIANI, Institutiones iuris publici ecclesiastici, vol. II, pp. 58-63.
(56) L. BAUNARD, op. cit., t. II, pp. 697-698.
(57) THÉOTIME DE SAINT-JUST, op. cit., pp. 123-124. Su questa celebre Dichiarazione, cfr. la condanna fattane da Pio VI nell’enciclica Adeo nota, del 23-4-1791, in La pace interna delle nazioni, cit., p. 17 e confermata da molti pontefici successivi.
(58) Pio VII, Lettera apostolica Post tam diuturnas, del 29-4-1814, in La pace interna delle nazioni, cit., p. 28. Scriverà dom Guéranger: «Un Paese cattolico che inscrive la libertà di culto nella propria Costituzione, apostata politicamente […] e diventa responsabile di tutte le apostasie private che ne deriveranno» (Lettre inedite à Montalembert, cit.).
(59) Cfr. THÉOTIME DE SAINT-JUST, op. cit., pp. 181-182; LEONE XIII, Enciclica Libertas, del 20-6-1888, in La pace interna delle nazioni, cit., pp. 163-164.
(60) VIII, 63.
(61) VI, 434; IX, 166.
(62) IV, 249. Si vedano le severe parole di Leone XIII contro i cattolici liberali nell’enciclica Sapientiae christianae, del 10-1-1890, in La pace interna delle nazioni, cit., pp. 204-205; l’analisi del card. OTTAVIANI, op. cit., vol. II, pp. 55-58.
(63) Cfr. V, 189.
(64) Cfr. VII, 102.
(65) III, 180 e 218.
(66) I, 597-598.
(67) IX, 226. Cfr. BENEDETTO XV, Enciclica Ad beatissimi, dell’1-11-1914, in La pace interna delle nazioni, cit., pp. 306-307.
(68) VI, 359. Questa frase profetica del cardinale illumina la condizione attuale della società, oggi che la Rivoluzione, dopo aver dissolto i vincoli politico-sociali, cerca di disintegrare l’uomo stesso mediante pratiche di morte (cfr. PLINIO CORRÊA DE OLIVEIRA, Rivoluzione e Contro-Rivoluzione, 3ª ed. it. accresciuta, Cristianità, Piacenza 1977, pp. 189-194).
(69) Card. E. PIE, Oeuvres Sacerdotales, cit., t. II, p. 627.
(70) X, 445. Sul fondamento teologico di questo principio, cfr. SAN TOMMASO D’AQUINO, Summa theologiae, I-IIae, q. 87 a. 1.
(71) V, 176.
(72) Card. E. PIE, Oeuvres Sacerdotales, cit., t. II, p. 629.
(73) Cfr. X, 260; VIII, 18.
(74) VII, 379. Un grande saggista cattolico contro-rivoluzionario spagnolo, JUAN DONOSO CORTÉS, ribadisce lo stesso fondamentale concetto: «è assolutamente impossibile, quando si è relegata la Chiesa nel santuario e Dio nel Cielo, impedire il propagarsi delle rivoluzioni e l’avvento delle tirannie» (Lettera al card. Fornari, trad. it. in Sillabo, a cura di Gianni Vannoni, Siena 1977, p. 119).
(75) Cfr. VII, 353.
(76) VII, 196. Cfr. Pro XI, Enciclica Divini Redemptoris, del 19-3-1937, cit., pp. 408-409; e VIKTOR CATHREIN S. J., Il socialismo, trad. it., Bocca, Milano 1946.
(77) Mt. 19, 20.
(78) Sal. 2, 8.
(79) V, 188.
(80) III, 501.
(81) Cfr. L. BAUNARD, op. cit., t. II, p. 435.
(82) VIII, 14.
(83) 1 Pt. 5, 9.
(84) III, 415, 417.
(85) THÉOTIME DE SAINT-JUST, op. cit., p. 178.
(86) Cfr. II, 149-150.
(87) Cfr. II, pp. 135-136. Scriverà in seguito Pio XI: «Bisogna che la religione sia il fondamento e il coronamento dell’istruzione a tutti i grandi» (Enciclica Rappresentanti, in Acta Apostolicae Sedis, vol. XXI, p. 752).
(88) Cfr. card. E. PIE, Oeuvres Sacerdotales, cit., t. I, p. 54; Pio XI, Enciclica Divini illius Magistri, del 31-12-1929, in L’educazione. Insegnamenti pontifici, a cura dei monaci di Solesmes, trad. it., Edizioni Paoline, Roma 1957, pp. 251-252.
(89) VIII, 82-83.
(90) Ap. 21, 8.
(91) Infatti, spiega il cardinale, «la teologia è alla radice di tutti i problemi contemporanei […]; la questione religiosa riassume e domina tutte le altre […]. [La teologia] illumina tutto, protegge e difende tutte le altre verità» (VIII, 88; IX, 262).
(92) Cfr. VII, 213; IX, 218.
(93) Cfr. card. E. PIE, Oeuvres Sacerdotales, cit., t. I, pp. 193-194.
(94) Sal. 102, 23.
(95) Il card. Pie cita il celebre passo di Zaccaria, 4, 11-14, nel quale Dio afferma di aver consacrato, per la restaurazione di Israele, «i due unti», cioè il detentore del potere religioso (Giosué) e quello del potere politico (Zorobabele), aggiungendo che «tra di loro dovrà sempre esserci perfetta intesa» (Zac., VI, 13). Questa citazione la si troverà in IX, 29.
(96) THÉOTIME DE SAINT-JUST, op. cit., p. 270. Qui il cardinale si rifà (cfr. IV, 247-248) all’Epistula CCXLIV ad Conradum Imperatorem di san Bernardo di Chiaravalle, che parla di Cristo come archètipo dell’unità tra regalità e sacerdozio, tra trono e altare.
(97) Cfr. L. BAUNARD, op. cit., t. I, p. 173.
(98) Ibid., t. II, p. 517.
(99) Cfr. V, 358. Si veda anche lo scritto del card. A. OTTAVIANI, Doveri dello Stato cattolico verso la religione, in Cristianità, n. 52-53, agosto-settembre 1979, pp. 6-11: lo Stato deve difendere il patrimonio religioso e morale della nazione impedendo il diffondersi pubblico di dottrine e di culti erronei.
(100) Sal. 2, 1.
(101) Cfr. Gv. 16, 11 e 33.
(102) Cfr. X, 249-252, in cui il card. Pie cita la celebre frase di sant’Ilario di Poitiers: «Hoc enim Ecclesiae proprium est, ut tunc vincat cum laeditur, tunc intelligatur cum arguitur, tunc obtineat cum deseritur».
(103) VII, 32.
(104) X, 414.