Card. Joseph Ratzinger, Cristianità n. 235 (1994)
Il 19 ottobre 1994, a Milano, nell’aula Caravella dell’Ospedale San Raffaele, è stata presentata in anteprima mondiale l’opera scritta dal regnante Pontefice in risposta a trentacinque domande del giornalista Vittorio Messori, edita da Arnoldo Mondadori. Pubblichiamo integralmente l’intervento del prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede – titolo compreso –, diffuso dalla Direzione Immagine e Comunicazione di Gruppo dell’editore. I numeri fra parentesi rimandano alle pagine del volume.
Una lettura del card. Joseph Ratzinger
Dio nel libro di Giovanni Paolo II «Varcare la soglia della speranza»
È questo un libro che si legge tutto d’un fiato, anche se o proprio per il fatto che pagina dopo pagina coinvolge in una riflessione impegnata. Varcare la soglia della speranza è innanzi tutto un’opera molto personale del Papa, con una quantità di tratti autobiografici, segnato anche dalle esperienze del suo pontificato ormai di 16 anni. Vi è ad esempio il toccante racconto della sinagoga di Wadowice, della scuola elementare della piccola cittadina, nel- la quale un quarto dei compagni di Karol Wojtyla erano ebrei, fra i quali Jerzy Kluger, con il quale il Papa è legato ancora da stretta amicizia. Il lettore si rende conto di come il problema di cristiani ed ebrei sia entrato in questa vita fin dall’inizio ed esperienze e incontri umani hanno formato il pensiero del futuro Papa, la sua teologia e la sua pietà. Vi è ad esempio anche il ricordo della preghiera allo Spirito Santo, che il padre consegna al giovane Karol, perché la reciti quotidianamente. Ciò che questo significò per la futura preghiera e vita del Papa, lo si intuisce dalla frase: «Allora compresi per la prima volta che cosa significhino le parole di Cristo alla samaritana sui veri adoratori di Dio…» (p. 155). Ci rendiamo conto di come l’elemento mariano è entrato nel mondo spirituale del futuro Papa, di come Fatima divenne per lui una realtà determinante. Vediamo come, negli orrori della guerra e poi nel confronto con l’ideologia marxista, prese forma la sua vocazione; veniamo introdotti nella appassionata ricerca intorno alla immagine dell’uomo, che si svolse fra i pensatori cattolici in Cracovia e Lublino.
Dicevo che questo è un libro molto personale, ma allo stesso tempo è un dialogo della fede con gli interrogativi, che l’uomo moderno pone al cristianesimo. Si deve essere grati a Vittorio Messori per aver inserito 35 intermezzi – se così posso chiamarli –, nei quali egli con grande rispetto, ma anche con grande disinvoltura ed apertura formula i dubbi ed i rimproveri, che l’uomo contemporaneo muove nei confronti della Chiesa e del suo messaggio. Vi è la questione dell’esistenza di Dio e della figura di Cristo, a partire dalla quale emerge il problema delle molte religioni e della pretesa di unicità della fede cristiana. Vi è la domanda: perché allora è tutto così complicato? E la domanda inquietante: ma i cristiani non diminuiscono sempre di più? il Cristianesimo allora ha un futuro? O anche: solo Roma ha ragione? Non manca la domanda sulle donne, la domanda sulla vita eterna ed alla fine di nuovo la riflessione molto pratica: Ma credere, a che serve?
Di tutti questi temi vorrei qui riprenderne solo uno, quello fondamentale, per poterlo caratterizzare un po’ più da vicino, senza poter esaurire per altro la ricchezza delle risposte di questo libro. Tutto quello che ora dirò può essere solo un invito a leggere il libro stesso. Il tema, che vorrei approfondire, è la questione di Dio. Lo si avverte leggendo: per il Papa il tema di Dio è fra tutti il più personale, la forza che configura la sua stessa vita, ma nello stesso tempo è anche quello più universale, ciò, che interessa ogni uomo. Con altre parole si potrebbe dire: Dio non è per lui solo un problema del pensiero, ma il fondamento del vivere, anzi, la realtà, che precede e sostiene ogni pensiero. La fede in Dio di questo Papa ha trovato certamente la sua espressione più importante nel grido programmatico, che ha fatto udire il giorno dell’inizio del suo ministero alla gente radunata in Piazza San Pietro e a quella del mondo intero: «Non abbiate paura!». In questa frase si esprime in sintesi il significato che Dio ha per quest’uomo – cosa significa credere in Dio. Racconta che egli stesso allora, il 22 ottobre 1978, non intuiva ancora tutta la portata di questa parola, non sapeva ancora quanto esprimesse la sintesi del suo Pontificato. «Il loro contenuto proveniva più dallo Spirito Santo…, che dall’uomo che le pronunciava» (p. 241). I critici della religione dei tempi passati avevano formulato la tesi, che la paura avrebbe creato Dio e gli dei. Oggi noi sperimentiamo il contrario: l’eliminazione di Dio ha generato la paura, che sta in agguato al fondo dell’esistenza moderna. L’uomo di oggi ha paura che Dio forse possa esistere davvero e che sia pericoloso. Ha paura di se stesso e delle terribili possibilità che porta in sé. Ha paura della dimensione oscura e imprevedibile di un mondo, che egli non attribuisce più ad una ragione amante, ma al gioco del caso e alla vittoria del più forte. La paura di ciò che gli uomini possono fare a se stessi ed al mondo e la paura della mancanza di senso, del vuoto della vita umana, la paura del futuro, della sovrappopolazione, della guerra, della malattia e delle catastrofi si è impadronita in profondità dell’umanità di oggi. Sotto la sottile superficie dell’ottimismo e della fede nel progresso sta diventando sempre più lo stato d’animo dominante. «Non abbiate paura»: in questo modo il Papa vuole rinnovare in noi quella certezza, che abita nel profondo dell’anima umana: «esiste Qualcuno che tiene in mano le sorti di questo mondo che passa; Qualcuno che ha le chiavi della morte e degli inferi (cfr. Ap 1, 18); Qualcuno che è l’Alfa e l’Omega della storia dell’uomo (cfr. Ap 22, 13)… E questo Qualcuno è Amore (cfr. 1 Gv 4, 8 e 16)» (p. 243). Il tema di Dio si incontra qui con il tema dell’uomo e con il tema della redenzione, e proprio questa connessione è caratteristica per il pensiero di Karol Wojtyila. Chi conosce Dio, il vero Dio, il Dio vivente e amante degli uomini, costui è redento, riscattato dalla paura e custodito nella fiducia dell’amore.
Questa conoscenza di Dio, nella quale Dio non è più solo pensato, ma viene anche sperimentato, matura in quel dialogo con Dio, che chiamiamo preghiera. «La preghiera è ricerca di Dio, ma è anche rivelazione di Dio», dice il Papa in proposito (p. 26): pregare non è solo parlare, ma ascoltare. Il Papa lo esprime così: «Più importante è il Tu, perché è da Dio che prende inizio la nostra preghiera» (p. 15). Questo uscire dalle proprie parole e dai propri desideri, questo ritirarsi dell’io, questo abbandonarsi alla misteriosa presenza, che ci attende – questo innanzitutto fa la preghiera. Il Papa risponde così anche alla domanda sulle forme orientali di preghiera, delle quali si occupa estesamente in altre parti (pp. 95 ss). La preghiera cristiana ha una dimensione mistica, ma non si conclude con lo scomparire dell’io, bensì accende la fiamma dell’amore, che supera le frontiere dell’io e allo stesso tempo lo rinnova radicalmente nell’incontro con l’altro. La preghiera cristiana significa pertanto un entrare insieme nell’universalità di Dio; non un uscire dall’essere per entrare nel nulla, ma un nuovo ingresso nel mondo, a partire dalla prospettiva liberante di Dio. Il Santo Padre parla della geografia della sua preghiera (p. 24), della «sollecitudine per tutte le Chiese» (cfr. 2 Cor 11,28), che egli porta nel cuore di Dio, così che egli pregando può visitarle tutte e ciò che è lontano diviene vicino e presente.
Dio in Karol Wojtyla non è solo pensato, ma sperimentato. Il Papa si oppone espressamente alla restrizione del concetto di esperienza, che si è verificata nell’empirismo; egli fa rilevare che non c’è solo la forma di esperienza elaborata nelle scienze naturali, ma anche altre forme, che non sono meno reali e significative: esperienza morale, esperienza umana, esperienza religiosa (p. 36). Ma ovviamente anche questa esperienza viene pensata e verificata nel suo contenuto razionale. La presentazione della ragionevolezza della fede è un elemento essenziale di questo libro. Il Papa entra qui in una discussione di larghe prospettive con la storia del pensiero occidentale, nella quale si rivela tutta l’ampiezza e la profondità della sua formazione filosofica. Di questo naturalmente io posso dare solo un cenno abbastanza generico. Il nucleo centrale del suo pensiero risiede in questo, che Wojtyla non accetta la separazione di pensiero ed esistenza, che è caratteristica dell’epoca moderna. Descartes, così egli dice, ha scisso il pensare dall’esistere ed ha identificato questo pensiero isolato con la ragione stessa: penso, dunque sono. Ma non è il pensare a decidere dell’esistenza, bensì l’esistenza del pensare (p. 41). A partire dall’impostazione di Descartes si è sviluppata quella «assolutizzazione della coscienza soggettiva» (p. 55), che non solo ha ristretto in generale la percezione del reale, ma ha ridotto anche il concetto di Dio. Dio, che in San Tommaso nella scia della tradizione biblica si manifesta come l’essere, così che Gilson ha parlato di una filosofia dell’esistenza di San Tommaso, è ormai soltanto un pensiero assoluto. Nel clima culturale, che si è formato a partire da questo punto di partenza, l’idea di Dio finisce sempre più al margine, o detto meglio: un Dio, che è solo pensiero, è già finito al margine della realtà. In questo modo Dio fu lentamente estromesso dal mondo; il deismo in realtà lascia sussistere Dio, ma nel mondo egli non ha più nulla da dire. Così egli divenne per l’uomo una ipotesi limite, che si può accettare o non accettare: ciò non fa ormai più una grande differenza.
Che Dio oggi non appaia più a molti raggiungibile con la ragione, non dipende dall’irrazionalità della fede, ma dal restringimento della nostra ragione. Esso deve essere superato. La ragione deve tornare nuovamente verso la sua integrità, allora vedrà nuovamente anche Dio. Il Papa nel suo libro mostra due vie per questo. Egli racconta che i pensatori cattolici polacchi in presenza del marxismo si erano orientati soprattutto ai problemi della filosofia della natura, perché qui si attendevano il vero attacco del pensiero marxista. Il Papa sintetizza il risultato del dibattito filosofico di allora nella frase: «Il mondo visibile, di per sé, non può offrire una base scientifica per una sua interpretazione ateistica, anzi la riflessione onesta trova in esso elementi sufficienti per giungere alla conoscenza di Dio» (p. 216). Nei suoi ricordi sulle discussioni del dopoguerra tuttavia egli rivela poi che con sua sorpresa non la filosofia della natura, ma la questione dell’uomo – l’antropologia – si manifestò come il vero ambito del confronto con il marxismo. E proprio questa era ed è la grande passione del Papa come pensatore e come pastore. Questa è stata decisiva per il superamento dell’interpretazione ateistica e a favore della fede in Dio. Nella discussione sull’uomo la risposta dell’ateismo si rivela manchevole. I grandi filosofi personalisti del nostro secolo – Buber, Rosenzweig, Lévinas, ai quali il Papa aggiunge i nomi della scuola di Lublino – appaiono come quella svolta del pensiero, che conduce oltre Cartesio e a partire dall’uomo apre nuovamente lo sguardo su Dio. Tutto il pensiero filosofico di Karol Wojtyla ruota intorno all’uomo, ed anche nel centro del suo magistero come pastore supremo della cristianità si trova la preoccupazione per l’uomo. Ma l’antropologia del Papa è teologia, perché è soteriologia: la questione dell’uomo è la questione della sua redenzione, e se questa viene presa sul serio, la questione dell’uomo diventa il guardare a Dio e un nuovo pensiero a partire da Dio. In questo senso il tema di Dio è la chiave di questa personalità e della sua opera.
Per tre volte ricorre nel libro del Santo Padre una citazione del Vangelo di Giovanni (5,17): «Il Padre mio opera sempre e anch’io opero». Dio dopo l’atto creativo non si è ritirato nel passato; dopo il Big Bang non si è tirato fuori dalla realtà di questo mondo. Dio non è un Dio del passato, ma del presente e del futuro. Il Papa traduce il contenuto di questa parola giovannea nella sua, nella nostra lingua, nel modo seguente: «Cristo è sempre giovane» (p. 128). L’amore del Papa per i giovani è strettamente connesso con la sua immagine di Dio. Egli racconta come la «scoperta dell’importanza essenziale della giovinezza» sia stata l’esperienza essenziale dei suoi primi anni di sacerdozio (p. 136). Ed egli spiega come negli anni del suo pontificato egli si senta guidato e sfidato dai giovani. La giovinezza – così ci insegna – è il tempo della «personalizzazione», il tempo, in cui l’uomo deve sviluppare un progetto concreto, «per iniziare a costruire la sua vita» (p. 137). Ma entrambe le cose – personalizzazione e sviluppo di un progetto di vita – significano ultimamente: imparare l’amore. Il compito del sacerdote, dell’educatore è pertanto «insegnare loro l’amore». «Da giovane sacerdote imparai ad amare l’amore umano», scrive il Papa (p. 138). In questo punto immagine di Dio ed immagine dell’uomo si toccano nuovamente e si compenetrano: il Dio che opera è un Dio che ama. Opera, perché ama. Poiché ama, non si può tirare indietro; poiché ama, vuole essere vicino, si fa così vicino che gli uomini si ritirano spaventati di questo e lo vogliono allontanare: non così, o Dio! Dio stesso diventa un uomo, e ora lo resta in eterno. Imparare ad amare significa imparare a conoscere Dio. Poiché il mondo è nelle mani di Dio che opera, dell’amore sempre presente, proprio per questo a tutti noi è detto: «Non abbiate paura!».
Card. Joseph Ratzinger