di Marco Invernizzi
Nel video con cui si è rifatto vivo, dopo anni di silenzio, Abu Bakr al Baghdadi ha detto che «Dio ci ha ordinato di combattere il jihad, non ci ha ordinato di ottenere la vittoria»: così riporta, su Il Foglio (4-5 maggio), Daniele Raineri. Sono parole su cui riflettere. Al Baghdadi è il neocaliffo autodichiaratosi leader dello Stato islamico (Isis) nel 2014, dopo avere conquistato militarmente parti di Iraq e Siria per mezzo di una pulizia etnica che ha espulso tutti i cristiani che non si lasciavano sottomettere. Numerosi gli episodi di terrorismo che hanno caratterizzato gli anni della guerra in Siria e in Iraq, fra cui quello del 31 ottobre 2010, quando, nella viglia della festa di tutti i santi, venne attaccata la cattedrale di Baghdad, provocando 46 morti fra cui due sacerdoti e sette poliziotti.
In un certo senso sono parole cristianissime, in quanto evocano la “libertà dall’esito”, una delle virtù cristiane più difficili da incarnare, quella che ci libera dall’ansia di cercare il successo, invitandoci a combattere per amore di Dio e per aiutare noi stessi e gli altri a salvarsi e a santificarsi.
Bisogna però capire il contenuto di quello jihad. Se considera quanto è accaduto dal 2014 alla recente sconfitta dell’Isis e alla liberazione totale del territorio che aveva occupato, si vedono stupri, terrore, suicidi/omicidi a opera di kamikaze. Il califfo non aveva e non ha il consenso di tutti i musulmani, ma di una percentuale non trascurabile sì.
Da pochi giorni la Commissione teologica internazionale ha prodotto un testo intitolato La libertà religiosa per il bene di tutti nel quale si fa stato della grande produzione del Magistero pontificio degli ultimi decenni sul tema, volto a ricordare il diritto di ogni persona e comunità a professare pubblicamente e liberamente la propria religione. Mentre nell’islam cresceva il fondamentalismo che a volte è sfociato nel terrorismo e in Occidente aumentava di intensità la pressione ideologica del laicismo che escludeva la religione dalla vita pubblica, la Chiesa non si è limitata a celebrare i propri martiri e a rivendicare la libertà per sé, ma si è fatta carico di un diritto umano universale, quello di vivere liberamente la propria fede. Era stata la dichiarazione del Concilio Ecumenico Vaticano II (1962-1965) Dignitatis humanae a lanciare questo messaggio nel 1965 e oggi, dopo oltre 50 anni, la Commissione teologica tenta di farne un bilancio.
Non è questa la sede per tracciarne neppure un riassunto, trattandosi oltretutto di un documento complesso e spesso scritto con una terminologia troppo tecnica, ma vale invece la pena di riflettere sui due eventi molto diversi, anzi opposti.
Mentre un capo islamista esalta il terrore, quasi per giustificare il proprio operato di fronte alle critiche mossegli dei suoi stessi correligionari, come ipotizza Raineri, la Chiesa da decenni invita con pazienza a mettere la libertà religiosa al centro delle relazioni internazionali, perché con Papa san Giovanni Paolo II (1920-2005), ricorda che la libertà religiosa è «la garanzia di tutte le libertà che assicurano il bene comune delle persone e dei popoli»[Redemptoris missio, 1990, n. 39] trattandosi di «una pietra angolare dell’edificio dei diritti umani»[Messaggio per la XXI Giornata mondiale della pace, 1988], mentre, con Papa Benedetto XVI, ricorda come essa sia un diritto non solo dei credenti, ma di ogni uomo, in quanto sintesi e apice dei diritti fondamentali.
La Chiesa sceglie di opporsi al male rivolgendosi a tutti gli uomini e offrendo loro una via di salvezza anche temporale. È il senso di tutto il lavoro apostolico degli ultimi decenni, fatto di dialogo paziente, di enunciazione ferma e umile della verità sull’uomo, senza assolutamente rinunciare alla “pretesa” della verità cristiana di annunciare l’unico Salvatore, ma con la consapevolezza che la fede si diffonde per “attrazione”, come dice spesso Papa Francesco riprendendo il suo predecessore. E chissà che, per attrazione, qualcuno non scopra la Verità e la accolga nel proprio cuore. Non dobbiamo avere vergogna di questa “pretesa” cristiana, ma usarla con “timore e tremore”, perché dentro il suo messaggio, se accolto, si trova la salvezza di chi la riceve e, come diceva sant’Agostino (354-430), anche la salvezza di chi la proclama: animam salvasti, animam tuam predestinasti.
Mercoledì, 8 maggio 2019