Oscar Sanguinetti, Cristianità n. 394 (2018)
Ci ha insegnato a «parlare»…
A Giovanni Cantoni devo tante cose. Ma ve n’è una che mi pare fondamentale: mi ha insegnato a «parlare». Ovviamente, non intendo che si sia sostituito alla mia mamma e al mio papà, ma che mi ha insegnato ad articolare un discorso e a usare i termini più appropriati per confezionarlo. Ero uscito dall’università degli anni 1970 praticamente imbevuto del gergaccio para-sociologico che vi regnava, pur trattandosi di un sociologismo di una certa qualità; e anche la cultura non contaminata dalla dialettica marxista che allora prediligevo era pur sempre imbevuta di vacuità idealistiche — «Spirito», coscienza, razionalità, libertà — e ne risentiva in maniera pesante, attraverso la filiére gentiliana, pure la cultura di opposizione cui mi riferivo. Un discorso di Giorgio Almirante (1914-1988) sapeva smuovere le passioni dei giovani e degli anziani, il suo eloquio era in grado di ridurre i suoi avversari a più miti propositi, ma la sua terminologia era di una povertà di contenuto francamente rara. Non era colpa sua: era un bravo oratore, ma il suo retroterra era quello che era.
Quando udii parlare per la prima volta Giovanni Cantoni in pubblico — fu, ricordo, un sabato pomeriggio del 1971 in una lezione tenuta al gruppo di amici da cui sarebbe nata Alleanza Cattolica a Milano — fui come folgorato dal suo discorso lento e ragionato, preciso e scandito, all’occorrenza appassionato. Esponeva le realtà intellettuali che intendeva farci scoprire e amare, come lui le amava, «confezionandole» entro un vocabolario di pregio, facendo uso di un italiano classico — ma non rétro —, aureo, turgido di senso, del tutto in controcorrente rispetto al nominalismo che regnava anche nella cultura «alta»; una forma espositiva che lasciava trasparire non solo la sua enorme cultura e la sua erudizione ma anche il suo immenso amore per l’essere: l’essere con la minuscola, l’essere creato, in cui si rifletteva il suo amore per l’Essere, quello con la maiuscola, Dio.
A forza di frequentarlo e di ascoltarlo in colloqui più ristretti, nel lavoro svolto fianco a fianco con lui, nelle conferenze, nei ritiri, nei convegni, assimilai a poco a poco — ma sono ben lungi dall’averlo fatto compiutamente — tutto un «cosmo semantico» (1), una fraseologia e un modo di usare aggettivi, verbi e avverbi nuovi per me, diseducato prodotto della scuola moderna, termini originali e del tutto funzionali e adeguati all’insieme di realtà intellettuali, storiche e filosofiche «alte» che costituivano il patrimonio della cultura cattolica contro-rivoluzionaria: era come se mi servisse dell’ottimo vino in bicchieri di cristallo pregiato invece che in bicchieri di plastica.
E il fascino che subivo io lo subivano in tanti: a mio avviso fu uno degli strumenti più potenti nel persuadere prima e nel mettere poi in azione tanti giovani che negli anni 1970, così densi di cambiamenti disorientanti, volevano capire prima di agire e agire bene invece che praticare — come così di frequente «a destra» — il culto del beau geste, eroico ma inutile e spesso doloroso, o l’imitazione del toro che carica appena vede il primo straccio rosso.
Ricordo che «commercio» hanno avuto per anni — anch’io ne conservo almeno una dozzina: molte sono diventate file .MP3 conservati nel telefono cellulare o sul personal computer — le cassette magnetiche con la registrazione dei suoi interventi: le sentivamo e le risentivamo in auto o alla sera dopo il lavoro o lo studio. E le sue parole, così ben confezionate, così tornite, così limpide, così alla portata di tutti anche quando affrontavano temi ardui, il suo uso delle metafore, il suo frequente uso di intercalazioni latine e francesi — chi non ricorda almeno un «bongré, malgré»? —, avevano il dono d’imprimersi nella mente e nella memoria, «somministrandoci» verità perenni e aprendoci squarci culturali insospettati. Ricordo altresì il suo continuo ricorso ai proverbi, ossia al buon senso popolare, spesso a quello delle sue parti, cosa che testimoniava, insieme al suo accento, il suo radicamento e l’esigenza di riscoprire ciascuno il proprio, così come l’esigenza che nel «pacchetto» dell’obiettivo finale di un contro-rivoluzionario vi fosse, «alla medioevale», anche la restaurazione del buon senso e delle culture locali.
Lo stile retorico di Giovanni Cantoni meriterebbe ben altra analisi: da quel che mi pare di aver capito, prediligeva le abbondanti premesse — si autodefiniva «una premessa vivente» —, le reiterazioni, l’uso delle immagini e delle metafore, l’anticipazione dei quesiti inserendo le risposte nell’esposizione, il ricorso sempre ad autorevoli fonti, d’informazione e di dottrina, l’esemplificazione costante, la preferenza per l’uso delle parole dell’avversario per definire cose da condannare, la cura attenta che il suo messaggio — alla scuola dello studioso canadese della comunicazione Marshall McLuhan (1911-1981) — fosse recepito da chi lo ascoltava: perciò spiegava sempre i termini, i luoghi, i tempi e le circostanze e, post factum, per evitarli in una prossima occasione, verificava con chi del pubblico conosceva se vi fossero stati fraintendimenti.
Confesso — chi mi conosce lo sa bene — che l’intervento a mezzo della parola non rappresenta, come si dice, il mio forte, anzi è una debolezza strutturale: però posso testimoniare come l’apprendistato alla scuola di Cantoni abbia trasformato tanti amici — ma qualche volta anche il sottoscritto — da «barbari», ossia da balbettanti, in autentici ed efficaci operatori della parola, nelle conferenze, nei convegni, nelle radio, ma pure nel mondo del lavoro. Anch’io, posso dire, ho potuto applicare nel lavoro professionale molto di quanto di «tecnico» e di metodico ho appreso da Cantoni: il modo di articolare un ragionamento, il parlare di cose davvero conosciute, non millantando, la proprietà di linguaggio, l’uso di riferimenti di qualità e tante altre piccole cose…
Giovanni Cantoni non parlava solo il linguaggio del pensiero ma anche il linguaggio del corpo. La sua voce incisiva, il suo modo di vestire, sempre impeccabile e austero, la sua gestualità composta ma al caso «mossa», i suoi toni alti e i suoi toni bassi, le sue boutade che rivelavano un sense of humour sviluppatissimo, il suo arrossire e sudare quando s’infervorava, il suo orologio d’oro da taschino — sempre lo stesso in tanti decenni, da cui traspariva e significava positivamente la sua non soggezione alle mode, ossia la sua «anti-modernità», che già negli anni 1980, dopo la rivoluzione del digitale e del quarzo, aveva reso di uso comune cambiare spesso il dispositivo segnatempo — staccato dalla catena, anch’essa d’oro, e posato sul tavolo, la sua preferenza per i gemelli da polso e per le bretelle: tutto ciò si coagulava in un modello di stile umano che «faceva» anch’esso il suo «carisma» ed era incisivo e contagioso per chi lo ascoltava e lo frequentava.
E quello che ho detto vale non solo per i suoi discorsi ma anche per tutte le occasioni in cui guidava il Rosario o una preghiera collettiva o partecipava alla Santissima Eucaristia: anche lì la sua compostezza, le sue mani giunte, la sua profonda devozione erano come un linguaggio «muto» che aveva potenti effetti edificanti…
Poi, ci insegnò anche a come svolgere un lavoro scientifico corretto e a pubblicare testi decenti ed efficaci: ma questa è un’altra storia…
Oscar Sanguinetti
Note:
Benedetto XVI (2005-2013), Intervista concessa ai giornalisti durante il volo verso Amman, 8-5-2009.