Secondo la tradizione, il potente generale dell’impero romano, Placido, andando a caccia nei boschi attorno a Tivoli, si imbatté in un cervo, grande e bello, con una croce luminosa tra le corna e, sopra questa, la figura di Cristo. Il cervo parlò: «Placido, Placido, perché mi perseguiti? Io sono quel Gesù che tu onori senza saperlo». Placido, allora, si fece battezzare prendendo il nome di Eustachio; con lui divennero cristiani anche la moglie e i figli, con i nomi, appunto, di Teopista, Teopisto ed Agapio. Tornato alla rupe del prodigioso incontro, la stessa voce gli predisse che avrebbe dovuto dar prova della sua pazienza. In effetti, di lì a poco, Eustachio perse tutti i suoi beni, ebbe la moglie catturata come schiava, vide rapiti i suoi figli, fu costretto per vivere a fare il custode di campi coltivati. Ma quindici anni dopo fu richiamato a Roma dall’imperatore per fronteggiare la minaccia dei Barbari. Eustachio vinse i nemici e ritrovò i suoi famigliari. La tradizione, però, li vuole poi sottoposti a martirio. Al di là degli elementi leggendari o anacronistici indubbiamente presenti, la storia ci è parsa degna di essere ricordata […]. Intanto perché ripropone, nella luce del Nuovo Testamento, il tema di Giobbe; e ci sollecita alla pazienza nelle tribolazioni, che non risparmiano, su questa terra, i fedeli di Cristo, ed anzi sembrano accanirsi proprio contro di loro: una pazienza tanto più difficile in quanto è sempre più diffusa intorno a noi (e non si fa sentire anche in noi?) la pretesa ad una sorta di diritto costante al completo e perfetto bene-essere (cosa diversa del benessere). Poi perché ci ripropone il nostro dovere di gratitudine verso i santi martiri: un esempio da tener sempre presente perché la prospettiva della persecuzione accompagna costantemente la storia della Chiesa.
Marco Tangheroni,
Cammei di santità. Tra memoria e attesa,
Pacini, Pisa 2005, p. 40
Mercoledì, 10 luglio 2019