di Marco Invernizzi
Il sociologo Giuseppe De Rita, tra i fondatori del Centro Studi Investimenti Sociali (CENSIS), è famoso soprattutto per la capacità di descrivere lo stato d’animo di un popolo attraverso una semplice “pennellata”, che rimane e che descrive meglio di tante parole. Un dono il suo, che ha reso celebri tante indagini del “suo” CENSIS, che De Rita dirige da 50 anni. Si era rimasti all’italiano «coriandolizzato» e «rancoroso», ma su la Repubblica del 1° agosto De Rita aggiunge qualcosa che aiuta a descrivere la crisi del nostro popolo e soprattutto a indicare una via per uscirne. Gli cedo la parola: «A noi manca la cultura di base. Siamo un popolo di analfabeti, indipendentemente dai recenti risultati dell’Invalsi. Ed è la cultura di base, la consapevolezza di se stessi e della propria storia, che accende il fuoco di una comunità, quella vitalità a cui ho fatto riferimento prima. E mi viene da sorridere quando sento parlare di un partito nuovo che metta insieme pezzi differenti, perché se non hai una cultura di base e un linguaggio comune puoi fare tutte le alleanze possibili ma il partito nuovo non riesci a costruirlo».
Lasciamo perdere l’idea del nuovo partito, da sempre il “sogno nel cassetto” di chi pensa che basti affidarsi alla politica. L’importanza del discorso del direttore del CENSIS sta proprio nella necessaria premessa affinché un eventuale partito possa essere costruito e contribuire in maniera importante al superamento della crisi: la mancanza di una «cultura di base», che sola può accendere «il fuoco di una comunità», anche attraverso un «linguaggio comune». Tre cose, queste, che mancano e che sono fondamentali affinché una comunità non muoia, ma si riprenda dal coma in cui versa. «Cultura di base», «fuoco» e «linguaggio comune» rimandano a una realtà di fondo che non viene più insegnata: l’identità.
Papa San Giovanni Paolo II (1920-2005) invitava i popoli europei a riscoprire la radici della propria storia e a rimanervi fedeli, e il regnante Pontefice (il 2 maggio) ammonisce i popoli a non perdere le proprie peculiarità con parole che merita riprendere: «San Tommaso ha una bella nozione di quello che è un popolo: “Come la Senna non è un fiume determinato per l’acqua che fluisce, ma per un’origine e un alveo precisi, per cui lo si considera sempre lo stesso fiume, sebbene l’acqua che scorre sia diversa, così un popolo è lo stesso non per l’identità di un’anima o degli uomini, ma per l’identità del territorio, o ancora di più, delle leggi e del modo di vivere, come dice Aristotele nel terzo libro della Politica” (Le creature spirituali, a. 9, ad 10). La Chiesa ha sempre esortato all’amore del proprio popolo, della patria, al rispetto del tesoro delle varie espressioni culturali, degli usi e costumi e dei giusti modi di vivere radicati nei popoli».
Entrambi ricordano agli uomini che l’identità non si compra al supermercato, ma si insegna a partire dai bambini. E che l’amore per la propria identità ritornerà a circolare nella vita del popolo quando le autorità (soprattutto ecclesiastiche, intellettuali e politiche) non avranno più timore di proporla.
Ci vuole tempo e tanta pazienza. Il grande alfiere della resistenza al comunismo sovietico, Aleksandr I. Solženicyn (1918-2008), in un libro appena uscito in italiano curato dal suo attento studioso, Sergio Rapetti, Ritorno in Russia (trad. it. Marsilio, Roma 2019), sostiene che per rimediare ai 70 anni di potere comunista ce ne vorranno almeno altrettanti.
Giovanni Cantoni, il fondatore di Alleanza Cattolica, ha sempre indicato l’importanza fondamentale di dare vita a una “scuola elementare” per trasmettere quella «cultura di base» senza la quale non si costruisce alcuna identità e non si crea alcun «fuoco» che possa rianimare un popolo. Non bisogna dunque perdere la speranza e anzi occorre darsi da fare: anche un papà e una mamma che la fanno amare ai propri figli, come un sacerdote che ne ricorda l’importanza in un’omelia o nelle catechesi, contribuiscono affinché un popolo trovi o ritrovi la propria strada.
Venerdì, 2 agosto 2019