Giovanni Cantoni, Cristianità n. 78-79 (1981)
Dopo la terza enciclica di Giovanni Paolo II
Dottrina sociale e lavoro umano nel messaggio della «Laborem exercens»
IV. L’inversione dell’ordine dei valori nel liberalismo e nel socialcomunismo
Le tappe del naturalismo economico, cioè della «liberazione» dell’economia dalla morale e, dunque, da Dio. Dalla antichità schiavista alla civiltà cristiana. La rivoluzione industriale, il capitalismo, il movimento operaio e il collettivismo.
Fissate in modo inequivoco le categorie e le priorità, l’ordine o gerarchia dei valori può ora essere seguito nelle sue avventure o disavventure storiche, con particolare attenzione alla storia più recente, ma senza trascurare il passato, anche quello remoto. Tale storia, trattandosi di valori morali, cioè contemporaneamente speculativi e pratici, sarà inevitabilmente contessuta di «idee» e di «movimenti», di «programmi» e di «istituti».
1. L’età antica, l’avvento del cristianesimo e il problema della gerarchia sociale
«L’età antica – nota il Pontefice – introdusse tra gli uomini una propria tipica differenziazione in ceti a seconda del tipo di lavoro che eseguivano. Il lavoro che richiedeva da parte del lavoratore l’impiego delle forze fisiche, il lavoro dei muscoli e delle mani, era considerato indegno degli uomini liberi, e alla sua esecuzione venivano, perciò, destinati gli schiavi» (n. 6). In questo modo si esprimeva una scorretta lettura del lavoro, non attività qualificata dall’uomo, ma qualificante l’uomo, con la conseguente inversione del rapporto fra dimensione soggettiva e oggettiva del lavoro stesso.
Dal canto suo «il cristianesimo, ampliando alcuni aspetti propri già dell’Antico Testamento, ha operato qui una fondamentale trasformazione di concetti, partendo dall’intero contenuto del messaggio evangelico e soprattutto dal fatto che Colui, il quale essendo Dio è divenuto simile a noi in tutto (cfr. Eb. 2, 17; Fil. 2, S-8), dedicò la maggior parte degli anni della sua vita sulla terra, al lavoro manuale, presso un banco di carpentiere. Questa circostanza costituisce da sola il più eloquente “Vangelo del lavoro”, che manifesta come il fondamento per determinare il valore del lavoro umano non sia prima di tutto il genere di lavoro che si compie, ma il fatto che colui che lo esegue è una persona. Le fonti della dignità del lavoro si devono cercare soprattutto non nella sua dimensione oggettiva, ma nella sua dimensione soggettiva.
«In una tale concezione sparisce quasi il fondamento stesso dell’antica differenziazione degli uomini in ceti, a seconda del genere di lavoro da essi eseguito. Ciò non vuol dire che il lavoro umano, dal punto di vista oggettivo, non possa e non debba essere in alcun modo valorizzato e qualificato. Ciò vuol dire solamente che il primo fondamento del valore del lavoro è l’uomo stesso, il suo soggetto» (n. 6).
La notazione pontificia è di particolare importanza, e in essa, con ogni evidenza, viene condannata l’erronea fondazione della gerarchia sociale nel mondo antico, e non la gerarchia sociale in sé. Infatti, l’esempio storico non impedisce al Papa di affermare che «ciò non vuol dire che il lavoro umano, dal punto di vista oggettivo, non possa e non debba essere in alcun modo valorizzato e qualificato» (n. 6). Anzi, in altra occasione, incita a non lasciarsi sedurre dalla «utopia di una società senza classi» (1), confermando così che «non è vero che tutti abbiamo uguali diritti nella società civile, e che non esista legittima gerarchia» (2).
2. La civiltà cristiana medioevale, storica realizzazione della verità cristiana sul lavoro
In questa prospettiva merita certamente di essere ricordato che fra l’età antica e il suo errore – in questo campo consistente nel misconoscere «la preminenza del significato soggettivo del lavoro su quello oggettivo» (n. 6) e l’«epoca moderna, fin dall’inizio dell’èra industriale» (n. 7), nella quale «la verità cristiana sul lavoro doveva contrapporsi alle varie correnti del pensiero materialistico ed economicistico» (n. 7), la pratica del «Vangelo del lavoro» ha prodotto mirabili frutti storici, così descritti da Pio XI: «Vi fu tempo […] in cui vigeva un ordinamento sociale che, sebbene non del tutto perfetto e in ogni parte irreprensibile, riusciva tuttavia conforme in qualche modo alla retta ragione, secondo le condizioni e le necessità dei tempi. Ora quell’ordinamento è già da gran tempo scomparso; e ciò veramente non perché non abbia potuto, col progredire, svolgersi e adattarsi alle mutate condizioni e necessità di cose e in qualche modo venirsi dilatando, ma perché piuttosto gli uomini induriti dall’egoismo ricusarono di allargare, come avrebbero dovuto, secondo il crescente numero della moltitudine, i quadri di quell’ordinamento, o perché traviati dalla falsa libertà e da altri errori e intolleranti di qualsiasi autorità si sforzarono di scuotere da sé ogni restrizione» (3).
3. Dall’economia separata dalla morale al materialismo dialettico
Così, «nell’epoca moderna, fin dall’inizio dell’èra industriale, la verità cristiana sul lavoro doveva contrapporsi alle varie correnti del pensiero materialistico ed economicistico.
«Per alcuni fautori di tali idee, il lavoro era inteso c trattato come una specie di “merce”, che il lavoratore – e specialmente l’operaio dell’industria – vende al datore di lavoro, che è al tempo stesso possessore del capitale, cioè dell’insieme degli strumenti di lavoro e dei mezzi che rendono possibile la produzione. Questo modo di concepire il lavoro era diffuso, in particolare, nella prima metà del secolo XIX» (n. 7).
In questo contesto «l’uomo viene trattalo come uno strumento di produzione (cfr. Pio PP. XI, Lett. Enc. Quadragesimo Anno: AAS 23 (1931), p. 221), mentre egli – egli solo, indipendentemente dal lavoro che compie – dovrebbe essere trattato come suo soggetto efficiente e suo vero artefice e creatore» (n. 7).
«La rottura di questa coerente immagine, nella quale è strettamente salvaguardato il principio del primato della persona sulle cose, si è compiuta nel pensiero umano, talvolta dopo un lungo periodo di incubazione nella vita pratica. E si è compiuta in modo tale che il lavoro è stato separato dal capitale e contrapposto al capitale, e il capitale contrapposto al lavoro, quasi come due forze anonime, due fattori di produzione messi insieme nella stessa prospettiva “economistica”. In tale impostazione del problema vi era l’errore fondamentale, che si può chiamare l’errore dell’economismo, se si considera il lavoro umano esclusivamente secondo la sua finalità economica. Si può anche e si deve chiamare questo errore fondamentale del pensiero un errore del materialismo, in quanto l’economismo include, direttamente o indirettamente, la convinzione del primato e della superiorità di ciò che è materiale, mentre invece esso colloca ciò che è spirituale e personale (l’operare dell’uomo, i valori morali e simili), direttamente o indirettamente, in una posizione subordinata alla realtà materiale. Questo non è ancora il materialismo teorico nel pieno senso della parola; però, è già certamente materialismo pratico, il quale, non tanto in virtù delle premesse derivanti dalla teoria materialistica, quanto in virtù di un determinato modo di valutare, quindi di una certa gerarchia dei beni, basata sulla immediata e maggiore attrattiva di ciò che è materiale, è giudicato capace di appagare i bisogni dell’uomo» (n. 13).
«Evidentemente l’antinomia tra lavoro e capitale qui considerata – l’antinomia nel cui quadro il lavoro è stato separato dal capitale e contrapposto ad esso, in un certo senso onticamente, come se fosse un elemento qualsiasi del processo economico – ha inizio non solamente nella filosofia e nelle teorie economiche del secolo XVIII, ma molto più ancora in tutta la prassi economico-sociale di quel tempo, che era quello dell’industrializzazione che nasceva e si sviluppava precipitosamente, nella quale si scopriva in primo luogo la possibilità di moltiplicare grandemente le ricchezze materiali, cioè i mezzi, ma si perdeva di vista il fine, cioè l’uomo, al quale questi mezzi devono servire» (n. 13).
Se «proprio tale inversione d’ordine» (n. 7) merita «il nome di “capitalismo”» (n. 7), a tale regime economico-sociale e al programma che tale regime persegue e sostiene – teso alla realizzazione della superiorità del capitale sul lavoro all’interno della prospettiva che contempla la loro antinomia – ecco presentarsi una apparente alternativa nel «“socialismo” o “comunismo”» (n. 7).
«L’errore di pensare secondo le categorie dell’economismo è andato di pari passo col sorgere della filosofia materialistica, con lo sviluppo di questa filosofia dalla fase più elementare e comune (chiamata anche materialismo volgare, perché pretende di ridurre la realtà spirituale ad un fenomeno superfluo) alla fase del cosiddetto materialismo dialettico. Sembra tuttavia che […], per il fondamentale problema del lavoro umano e, in particolare, per quella separazione e contrapposizione tra “lavoro” e “capitale”, come tra due fattori della produzione considerati in quella stessa prospettiva “economistica”, di cui sopra, l’economismo abbia avuto un’importanza decisiva ed abbia influito, proprio su tale impostazione non-umanistica di questo problema, prima del sistema filosofico materialistico. Nondimeno, è cosa evidente che il materialismo, anche nella sua forma dialettica, non è in grado di fornire alla riflessione sul lavoro umano basi sufficienti e definitive, perché il primato dell’uomo sullo strumento-capitale, il primato della persona sulle cose, possa trovare in esso una adeguata ed irrefutabile verifica e appoggio. Anche nel materialismo dialettico l’uomo non è, prima di tutto, soggetto del lavoro e causa efficiente del processo di produzione, ma rimane inteso e trattato in dipendenza da ciò che è materiale, come una specie di “risultante” dei rapporti economici e di produzione, predominanti in una data epoca» (n. 13).
4. La nascita della questione operaia e il conflitto tra liberalismo e socialcomunismo
La pratica traduzione della prospettiva «economistica» ha portato al «sistema socio-politico liberale che, secondo le sue premesse di economismo, rafforzava e assicurava l’iniziativa economica dei soli possessori del capitale, ma non si preoccupava abbastanza dei diritti dell’uomo del lavoro, affermando che il lavoro umano è soltanto uno strumento di produzione e che il capitale è il fondamento, il coefficiente e lo scopo della produzione» (n. 8).
All’interno di tale sistema e del suo processo di sviluppo, «è nata nel secolo scorso la cosiddetta questione operaia, definita a volte come “questione proletaria”. Tale questione – con i problemi ad essa connessi – ha dato origine ad una giusta reazione sociale, ha fatto sorgere e quasi irrompere un grande slancio di solidarietà tra gli uomini del lavoro e, prima di tutto, tra i lavoratori dell’industria. L’appello alla solidarietà e all’azione comune, lanciato agli uomini del lavoro – soprattutto a quelli del lavoro settoriale, monotono, spersonalizzante nei complessi industriali, quando la macchina tende a dominare sull’uomo -, aveva un suo importante valore e una sua eloquenza dal punto di vista dell’etica sociale. Era la reazione contro la degradazione dell’uomo come soggetto del lavoro, e contro l’inaudito, concomitante sfruttamento nel campo dei guadagni, delle condizioni di lavoro e di previdenza per la persona del lavoratore.
«Sulle orme dell’Enciclica Rerum Novarum e di molti documenti successivi del Magistero della Chiesa bisogna francamente riconoscere che fu giustificata, dal punto di vista della morale sociale, la reazione contro il sistema di ingiustizia e di danno, che gridava vendetta al cospetto del Cielo (cfr. Dt. 24, 15; Gc. 5, 4; e anche Gen. 4, 10), e che pesava sull’uomo del lavoro in quel periodo di rapida industrializzazione» (n. 8).
Così, «in tutto questo periodo, il quale non è affatto ancora terminato, il problema del lavoro è stato posto in base al grande conflitto, che nell’epoca dello sviluppo industriale ed insieme con esso si è manifestato tra il “mondo del capitale” e il “mondo del lavoro”, cioè tra il gruppo ristretto, ma molto influente, degli imprenditori, proprietari o detentori dei mezzi di produzione. e la più vasta moltitudine di gente che era priva di questi mezzi, e che partecipava, invece, al processo produttivo esclusivamente mediante il lavoro. Tale conflitto è stato originato dal fatto che i lavoratori mettevano le loro forze a disposizione del gruppo degli imprenditori, e che questo, guidato dal principio del massimo profitto della produzione, cercava di stabilire il salario più basso possibile per il lavoro eseguito dagli operai. A ciò bisogna aggiungere anche altri elementi di sfruttamento, collegati con la mancanza di sicurezza del lavoro ed anche di garanzie circa le condizioni di salute e di vita degli operai e delle loro famiglie.
«Questo conflitto, interpretato da certuni come un conflitto socio-economico a carattere di classe, ha trovato la sua espressione nel conflitto ideologico tra il liberalismo, inteso come ideologia del capitalismo, ed il marxismo, inteso come ideologia del socialismo scientifico e del comunismo, che pretende di intervenire in veste di portavoce della classe operaia, di tutto il proletariato mondiale. In questo modo il reale conflitto, che esisteva tra il mondo del lavoro ed il mondo del capitale, si è trasformato nella lotta programmata di classe, condotta con metodi non solo ideologici, ma addirittura, e prima di tutto, politici. È nota la storia di questo conflitto, come note sono anche le richieste dell’una e dell’altra parte. Il programma marxista, basato sulla filosofa di Marx e di Engels, vede nella lotta di classe l’unica via per l’eliminazione delle ingiustizie di classe, esistenti nella società, e delle classi stesse. L’attuazione di questo programma premette la collettivizzazione dei mezzi di produzione, affinché, mediante il trasferimento di questi mezzi dai privati alla collettività, il lavoro umano venga preservato dallo sfruttamento.
5. Dalla «lotta di classe» alla «dittatura del proletariato»: il programma del partito comunista
«A questo tende la lotta condotta con metodi non solo ideologici, ma anche politici. I raggruppamenti, ispirati dall’ideologia marxista come partiti politici, tendono, in funzione del principio della “dittatura del proletariato” ed esercitando influssi di vario tipo, compresa la pressione rivoluzionaria, al monopolio del potere nelle singole società, per introdurre in esse, mediante l’eliminazione della proprietà privata dei mezzi di produzione, il sistema collettivistico. Secondo i principali ideologi e capi di questo ampio movimento internazionale, lo scopo di un tale programma di azione è quello di compiere la rivoluzione sociale e di introdurre in tutto il mondo il socialismo e, in definitiva, il sistema comunista.
«Toccando questo cerchio estremamente importante di problemi, che costituiscono non solo una teoria, ma proprio un tessuto di vita socio-economica, politica e internazionale della nostra epoca, non si può e non è nemmeno necessario entrare in particolari, poiché questi sono conosciuti sia grazie ad una vasta letteratura, sia in base alle esperienze pratiche» (n. 11).
Ripercorrendo a grandissime linee il panorama descritto si può dire che il «Vangelo del lavoro», «la verità cristiana sul lavoro» (n. 7). ha corretto l’errore dell’antichità precristiana e si è incarnato nella civiltà cristiana medioevale, nella quale ha incubato per lungo tempo nella vita pratica la prospettiva di uno scorretto rapporto tra capitale e lavoro e della loro separabilità. Da questa pratica incubazione si è passati alla teorizzazione dell’autonomia dell’economia dalla morale, alla proclamazione dell’economismo che, realizzatosi nella prima rivoluzione industriale, ha svolto le proprie premesse materialistiche nel materialismo dialettico. Così, quando la pratica economico-sociale ha visto nascere, ha quasi prodotto la reazione operaia, il movimento operaio, su di esso si è fin da subito incistato il socialcomunismo marxista, organizzato in partiti tesi alla «dittatura del proletariato» attraverso la lotta di classe, e quindi alla universale rivoluzione sociale. I risultati storici di questa azione sono davanti ai nostri occhi e non abbisognano di commento. Essi provano a chiarissime lettere «che l’errore del primitivo capitalismo può ripetersi dovunque l’uomo venga trattato, in un certo qual modo, al pari di tutto il complesso dei mezzi materiali di produzione, come uno strumento e non invece secondo la vera dignità del suo lavoro – cioè come soggetto e autore, e per ciò stesso come vero scopo di tutto il processo produttivo» (n. 7): Quindi. che «il pericolo di trattare il lavoro come una “merce sui generis”, o come una anonima “forza” necessaria alla produzione (si parla addirittura di “forza-lavoro”), esiste sempre, e specialmente qualora tutta la visuale della problematica economica sia caratterizzata dalle premesse dell’economismo materialistico» (n. 7); infine, «che è possibile usare variamente il lavoro contro l’uomo, che si può punire l’uomo col sistema del lavoro forzato nei lager, che si può fare del lavoro un mezzo di oppressione dell’uomo, che infine si può in vari modi sfruttare il lavoro umano, cioè l’uomo del lavoro» (n. 9).
6. L’inquinamento e lo sfruttamento socialcomunista del movimento operaio
Quanto, poi, alla pretesa marxista di essere portavoce della classe operaia, di tutto il proletariato mondiale, deviando e deformando la giusta reazione del mondo operaio, lo stesso Pontefice altrove nota: «Tuttavia, sarebbe difficile non avvedersi che molto spesso i programmi, che prendono avvio dall’idea di giustizia e che debbono servire alla sua attuazione nella convivenza degli uomini, dei gruppi e delle società umane, in pratica subiscono deformazioni. Benché essi continuino a richiamarsi alla medesima idea di giustizia, tuttavia l’esperienza dimostra che sulla giustizia hanno preso il sopravvento altre forze negative, quali il rancore, l’odio e perfino la crudeltà. In tal caso, la brama di annientare il nemico, di limitare la sua libertà, o addirittura di imporgli una dipendenza totale, diventa il motivo fondamentale dell’azione: e ciò contrasta con l’essenza della giustizia che, per sua natura, tende a stabilire l’eguaglianza e l’equiparazione tra le parti in conflitto. Questa specie di abuso dell’idea di giustizia e la pratica alterazione di essa attestano quanto l’azione umana possa allontanarsi dalla giustizia stessa, pur se venga intrapresa nel suo nome. […] È ovvio, infatti, che in nome di una presunta giustizia (ad esempio, storica o di classe) talvolta si annienta il prossimo, lo si uccide, si priva della libertà, si spoglia degli elementari diritti umani» (4).
Non diversamente Pio XI denuncia l’«abuso dell’idea di giustizia e la pratica alterazione di essa» realizzato dal marxismo ai danni del movimento operaio, osservando: «siccome ogni errore contiene sempre una parte di vero, questo lato della verità che abbiamo accennato [cioè il «pretesto […] [di] migliorare la sorte delle classi lavoratrici, togliere abusi reali prodotti dall’economia liberale e ottenere una più equa distribuzione dei beni terreni (scopi senza dubbio pienamente legittimi) »], messo astutamente in mostra a tempo e luogo per coprire, quando conviene, la crudezza ributtante e inumana dei principi e dei metodi del comunismo, seduce anche spiriti non volgari», «riesce ad attirare nella sfera d’influenza del comunismo anche quei ceti della popolazione che per principio rigettano ogni materialismo e ogni terrorismo» (5). A maggiore titolo, perciò, «per spiegare poi come il comunismo sia riuscito a farsi accettare senza esame da tante masse di operai, conviene ricordarsi che questi vi erano già preparati dall’abbandono religioso e morale nel quale erano stati lasciati dall’economia liberale» (6), sì che «non è da meravigliarsi che in un mondo già largamente scristianizzato dilaghi l’errore comunista» (7).
Circa questa condizione storica, Leone XIII parla di «una moltitudine misera e debole, dall’animo esulcerato e pronto sempre a tumulti» (8), e ancora Pio XI nota: «Ma di tale condizione invece erano più che mai insofferenti gli operai oppressi dall’ingiusta sorte, e perciò ricusavano di restare più a lungo sotto quel giogo troppo pesante. Alcuni perciò, abbandonandosi all’impeto di malvagi consigli, miravano ad una totale rivoluzione della società» (9).
Da un lato, dunque, la drammatica situazione dei lavoratori, dall’altro l’«abuso dell’idea di giustizia e la pratica alterazione di essa», i «malvagi consigli» che predicano «una totale rivoluzione della società»: la distinzione nei casi concreti non è assolutamente facile, anche se sostanzialmente indispensabile, e quella proposta dal regnante Pontefice fa eco a quella a suo tempo enunciata da Pio XII, senza nessuna variazione di rilievo: «Mossa sempre da motivi religiosi, la Chiesa condannò i vari sistemi del socialismo marxista, e li condanna anche oggi, com’è suo dovere e diritto permanente di preservare gli uomini da correnti e influssi, che ne mettono a repentaglio la salvezza eterna. Ma la Chiesa non può ignorare o non vedere, che l’operato, nello sforzo di migliorare la sua condizione, si urta contro qualche congegno, che, lungi dall’essere conforme alla natura, contrasta con l’ordine di Dio e con lo scopo, che Egli ha assegnato per i beni terreni. Per quanto fossero o siano false, condannabili e pericolose le vie, che si seguirono; chi, e soprattutto qual sacerdote o cristiano, potrebbe restar sordo al grido, che si solleva dal profondo, e il quale in un mondo di un Dio giusto invoca giustizia e spirito di fratellanza? Ciò sarebbe un silenzio colpevole e ingiustificabile davanti a Dio, e contrario al senso illuminato dell’apostolo, il quale, come inculca che bisogna essere risoluti contro l’errore, sa pure che si vuole essere pieni di riguardo verso gli erranti e con l’animo aperto per intenderne aspirazioni, speranze e motivi» (10). E proprio lo sforzo di «intenderne aspirazioni, speranze e motivi» spinge a dichiarare «giustificata, dal punto di vista della morale sociale, la reazione contro il sistema di ingiustizia e di danno, che gridava vendetta al cospetto del Cielo (cfr. Dt. 24, 15; Gc. 5, 4; e anche Gen. 4, 10), e che pesava sull’uomo del lavoro in quel periodo di rapida industrializzazione» (n. 8); e a riconoscere a «l’appello alla solidarietà e all’azione comune, lanciato agli uomini del lavoro […], un suo importante valore e una sua eloquenza dal punto di vista dell’etica sociale» (n. 8), così come obbliga a denunciare l’«abuso dell’idea di giustizia e la pratica alterazione di essa» da parte di chi condivide le premesse economistiche del programma liberale e le esaspera, sfruttando le miserie umane nella prospettiva della palingenesi universale.
Giovanni Cantoni
Note:
(1) GIOVANNI PAOLO II, Omelia alla messa per i giovani per gli studenti, a Belo Horizonte, dell’1-7-1980, in Insegnamenti di Giovanni Paolo II, vol. III, 2, p. 8. Si tratta di una citazione implicita di PIO XI, Enciclica Divini Redemptoris, del 19-3-1937, in Le encicliche sociali dei Papi. Da Pio IX a Pio XII (1854-1956), cit., p. 606, che parla di «quella condizione utopistica di una Società senza veruna differenza di classe».
(2) PIO XI, Enciclica Divini Redemptoris, del 19-3-1937, in Le encicliche sociali dei Papi. Da Pio IX a Pio XII (I854-1956), cit. p. 614.
(3) IDEM, Enciclica Quadragesimo anno, del 15-5-1931, cit., e ibid., pp. 467-468.
(4) GIOVANNI PAOLO II, Enciclica Dives in misericordia, del 30-11-1980, in Insegnamenti di Giovanni Paolo II, vol. III, 2, p. 1562.
(5) PIO XI, Enciclica Divini Redemptoris, cit., in Le encicliche sociali dei Papi. Da Pio IX a Pio XII (1854-1956), cit., p. 607.
(6) Ibidem.
(7) Ibid., p. 608.
(8) LEONE XIII, Enciclica Rerum novarum, del 15-5-1891, ibid., p. 201.
(9) PIO XI, Enciclica Quadragesimo anno, cit., ibid., p. 434.
(10) PIO XII, Radiomessaggio Natalizio, del 24-12-1942, in Discorsi e Radiomessaggi di Sua Santità Pio XII, vol. IV, pp. 336-337.