Di Massimo Gandolfini da Avvenire del 27/09/2019. Foto redazionale
Caro direttore, il comunicato stampa diffuso ieri dalla Corte Costituzionale è un raro esempio di confusione sui termini della delicatissima questione che deve essere affrontata. Senza ribadire gli aspetti etici e antropologici di fondamentale importanza che questa ordinanza comporta – la vita come diritto e bene subordinato alla autodeterminazione – e sui quali tanto e bene ha affermato il presidente della Cei due settimane fa, vorrei puntare il focus sugli aspetti medici a essa strettamente connessi.
Affronterei per primo il contesto strettamente clinico. Nel testo si pongono alcune condizioni ricorrendo le quali si configura la «non punibilità» dell’aiuto al suicidio. Si parla di «patologia irreversibile», «tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale», «sofferenze fisiche o psicologiche ritenute intollerabili », «capacità di prendere decisioni libere e consapevoli »… Siamo in attesa del testo della sentenza, che arriverà solo tra alcune settimane, e tuttavia c’è da temere che chi scrive abbia un’idea molto vaga del tema che sta trattando.
Andiamo per ordine. «Patologia irreversibile» che provoca «sofferenze fisiche o psicologiche ritenute intollerabili ». Il pensiero corre subito alle gravi patologie neurodegenerative (Sla, Sm, Parkinson, la variegata famiglia delle neuropatie con paralisi progressive, demenze varie ecc…), ma purtroppo l’elenco è molto più ampio e complesso. Facciamo due esempi facili da comprendere anche dai non addetti ai lavori. La «cefalea a grappolo» che il Manuale di Medicina Interna ‘Harrinton’ definisce «uno dei mali peggiori che si possa sperimentare », con attacchi violenti di mal di testa, che si ripetono anche decine di volte al giorno, e invalidano totalmente la vita lavorativa e relazionale di chi ne soffre, costretto a chiudersi in una stanza al buio e silenzio totali. Farmaci analgesici, antiinfiammatori e perfino oppiacei sono inefficaci. Non esiste una vera terapia e può durare un numero indefinito di anni. Potrebbe rientrare nelle caratteristiche che la Consulta delinea. Altra fattispecie: depressione endogena, cioè senza apparente causa scatenante esterna. È malattia irreversibile sulle cui sofferenze connesse è inutile spendere parole. Dobbiamo forse concludere che anch’essa può rientrare nelle patologie delineate dalla Corte? È possibile obbiettare che manca un requisito: «Tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale». E qui c’è il rischio della più ampia discrezionalità interpretativa. Voi pensate che un parkinsoniano possa vivere senza farmaci, o un epilettico senza anticomiziali, o un diabetico senza insulina, o un depresso endogeno senza neurolettici? Sono veri trattamenti di sostegno vitale! Non si può vivere senza di essi, ma possiamo sospenderli: dunque «suicidio assistito » garantito e legittimo?
Un altro requisito indicato dalla Corte: «Capacità di prendere decisioni consapevoli ». Pensiamo che chiunque di noi si trovasse nelle condizioni cliniche delle patologie sopra menzionate e tante, tante altre consimili, magari con l’aggiunta dell’evidente disagio e ‘disturbo’ manifestato da familiari o conviventi, e con la pressione sociale che invoca il ‘meglio togliersi di mezzo, perché oltretutto costi e sottrai risorse alla società’ sarebbe nella condizione oggettiva di formulare decisioni veramente libere ed equilibrate? In palese contraddizione, in aggiunta, con l’affermazione finale del comunicato: per «evitare rischi di abuso nei confronti di persone specialmente vulnerabili». Chi è più vulnerabile di un grave disabile, come sopra descritto?
Da ultimo: responsabile «della verifica delle condizioni richieste e delle modalità di esecuzione» è il medico, in qualità di competente, addetto ai lavori. Questo passaggio è veramente inaccettabile, come ha giustamente fatto notare la presidenza della FnomCeo. Si lasci che il medico faccia il ‘mestiere’ per il quale ha studiato, lavorato e impegnato ore e ore di studio: difendere la vita, prevenire e curare le malattie, lenire il dolore. Personalmente mi sento gratificato e – permettetemi – felice quando dopo ore di sala operatoria ho asportato un tumore cerebrale; e mi sento offeso se si pretende che in pochi minuti infili un ago nel braccio del mio paziente per iniettare il «farmaco letale». Ore per salvare una vita, due minuti per uccidere: questa non è medicina. Dunque, sì, se proprio si vuole, si compili una lista di ‘funzionari statali’ addetti a questa abbietta incombenza e si lasci al medico il compito che gli compete da millenni.